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mercoledì 19 dicembre 2012

2012: a (metal) retrospective

Continuo la tradizione inaugurata l'anno scorso, stavolta con qualche giorno di anticipo rispetto al post passato (il 21/12/12 è alle porte, meglio non lasciare nulla di incompiuto!), per elencare qui di seguito quelli che sono stati i dischi che più mi hanno colpito in questo anno ormai quasi finito.
Come al solito aggiornerò la lista anche nell'anno prossimo (per quanto riuscirò a ricordarmene!) se troverò lavori del 2012 degni di essere ricordati.

Alda - "Tahoma"
Questo album a dirla tutta apparterrebbe al 2011, ma sono entrato in possesso della copia in CD solo nel 2012 (prima era presente solo in vinile), e quindi lo valuto come uscita dell'anno quasi terminato.
Un black metal che appartiene in tutto e per tutto al filone "Cascadian" (ne ho ascoltati a palate di album di questo genere in questo anno!), quindi fatto di feroci accelerazioni, pause panteistiche venate da folk e momenti di riflessione, il tutto confezionato sapientemente e in grado di suonare fresco e convincente sin dal primo ascolto. Un must have del genere, senza ombra di dubbio!
 

Devil Sold His Soul - "Empire Of Light"
Conoscevo gli inglesi come semplice band metalcore, ma i miei erano solo pregiudizi, e questo lavoro me lo ha confermato. Siamo di fronte a un bellissimo disco di (quasi) post metal: background e ruvidezza HC, dolcezza e progressioni del post rock, unite a un tocco un po' melenso che fa tanto emo, ma che convince appieno!


Addaura - "Burning For The Ancient"
L'altra parte degli Alda! Questo è quello che ho pensato ascoltando questi Addaura: stesso genere di riferimento, ma diverso impatto (più selvaggio) sull'ascoltatore, eppure stesso coinvolgente risultato! Raffrontate il duo Alda - Addaura con quello Agalloch - Wolves In The Throne Room, non potrete non sentirli in qualche modo collegati!

Oak Pantheon - "From A Whisper"
Ennesimo interessante disco "cascadiano" (lo avevo detto no che ne ho ascoltato a palate in questo 2012 di questo genere?!) gli Oak Pantheon suonano alla prima un po' troppo "agallochiani", soprattutto nell'uso che fanno dello scream "sospirato" (che ascolta gli Agalloch sa di cosa sto parlando) e nei rimandi al folk apocalittico americano... Occorrono almeno due o tre ascolti per capire le potenzialità dei Nostri e godere appieno della loro musica, che va molto oltre all'essere una mera copia di qualche altro gruppo più rinomato!
 
 
The Elijah - "I Loved I Hated I Destroyd I Created"
Che emozioni! Questo gruppo è stato un vero tuffo al cuore, una rivelazione per me... Postcore raffinato, con molta atmosfera, molto post rock, molta "sofferenza" alla Thursday quasi, sontuosi crescendi e deflagranti esplosioni cariche di pathos, davvero intensissimi!


Abigail Williams - "Becoming"
Uscito nel freddo gennaio 2012, ricordo che questo disco fece da colonna sonora per i miei viaggi in macchina tra la neve (detta così pare che abiti nel profondo nord Europa, in realtà nella mia zona nevicò piuttosto copiosamente in quel periodo!). Gli Abigail Williams facevano metalcore, almeno all'inizio: che poi mettessero qui e là influenze ora del black, ora del death, è indubbio, ma il filone rimaneva comunque sempre quello, e la qualità dei loro lavori era nella media. "Becoming" cambia marcia invece, portandoci una band che, forse ruffianamente, si getta a capofitto nel lussureggiante mare cascadiano, per uscirne con un piccolo gioiello freddo e disperato. Notevole davvero.


Per il momento è tutto, buon 2013!




martedì 18 dicembre 2012

Urbana follia

Camminava per il parco, in una giornata di sole come tante altre si stavano avvicendando in quell'inizio di inverno così stranamente mite. A riempire l'aria c'era solo il suono dei suoi passi sui ciottoli, le grida di qualche bambino che giocava in lontananza, e il vento, il cui soffio sibilava a folate tra i rami quasi senza foglie degli alberi ai lati della strada. A dirla tutta si sentiva un po' strano, ma leggero, senza grossi pensieri, quindi tutto sommato, perché no, stava bene. Eppure sentiva una sorta di blocco nel cervello, come quello che si prova quando si prova a pensare a cose infinite o che vanno oltre la nostra comprensione... Che so, come quando ti metti a pensare a un deja vu, e di colpo tutto quello che stai facendo dal momento in cui hai iniziato a fare quei pensieri ti suona familiare, rivisto, e ti prende una sorta di dolce panico la cui unica via di uscita è la fuga da quello strano loop. Insomma, provava quella strana sensazione, che lo portava a ripetere nella sua mente una sola, unica frase, le cui parole, a forza di ripeterle, si erano fuse tra loro, ed avevano impastato la sua bocca. Sentì una folata di vento investirlo, e di colpo si bloccò: quella frase che aveva ripetuto allo sfinimento nella sua testa, adesso la stava pronunciando, come una nenia senza fine. E il bello è che si rendeva conto di questa cosa, ma non riusciva (e non voleva) fare nulla per smettere. Alzò lo sguardo: il parco era ormai terminato, e si era già immesso nella via principale. I suoi occhi salirono lungo il palazzo che si trovava di fronte a lui, su su fino all'ultimo piano, e si scontrarono con la forte luce del sole che parzialmente gli bruciava gli occhi. Vide poi delle strane sagome in aria: braccia aperte, gambe distese, che fluttuavano. "Angeli", pensò, ma non ebbe tempo di terminare questo pensiero che uno di questi "angeli" si schiantò ai suoi piedi, poi un altro, e un altro ancora. Lui non lo capiva, ma gli abitanti di un intero palazzo si stavano buttando giù dal tetto: uno dopo l'altro, in fila come automi, facevano un passo e si gettavano nel vuoto, verso il freddo marciapiede. Si era di nuovo impalato di fronte a questo raccapricciante spettacolo, ma il suo volto non era attraversato da alcuna emozione, solo la sua bocca continuava, imperterrita, a sbiascicare quelle parole senza senso. Poi uno sparo: un agente di polizia, lì vicino, anche lui impalato e quasi lobotomizzato, si era sparato un colpo alla tempia. Lui si diresse verso il cadavere, raccolse la pistola, e come se stesse facendo la cosa più immediata e consueta del mondo, tirò il grilletto. Una nuova pioggia di persone ovattò il suono del proiettile che trapassava il suo cervello, mentre il vento, che fino ad allora aveva soffiato non forte, ma con insistenza, si bloccò di colpo, e tornò il silenzio sulla strada.
"Time" è il suono della follia, dell'alienazione urbana, della depressione. L'abisso disperato in cui gli americani Manetheren cercano di gettare i propri ascoltatori con la loro ultima fatica ha i connotanti delle città descritte dagli Amesoeurs, è pazzia descritta dai Lifelover e messa in musica seguendo le impronte di maestri di un certo black americano come Weakling o Wolves In The Throne Room. Solo che qui non c'è esaltazione della natura e unione panica con essa: c'è smarrimento sì, ma senso di impotenza, abbandono e freddo, ci sono questi sei bisturi che, uno dopo l'altro, isolando il tuo cervello dal resto del mondo ti lasciano lì, impietrito, a contemplare la nuda realtà delle cose. Arrivato alla fine di questa lunga (più di settanta minuti) maratona fatta di accelerazioni black, digressioni post rock e momenti più intimi, si può rinascere in due modi: o cinici, spietati e senza cuore, o mossi da una rinnovata sensibilità, che permetterà di vedere con nuovi e più acuti occhi il mondo che circonda.

domenica 2 dicembre 2012

La Scatola del Natale



Scese in garage, e rovistando la sua attenzione cadde su una scatola che ben conosceva. Era andato in garage per cercare delle decorazioni di Natale un po' particolari, ma non si aspettava certo di ritrovare quelle che aveva comprato lui stesso, alcuni anni prima, per addobbare l'albero della sua casa, quando viveva da solo.
Aperta la scatola (che riportava sopra una scritta, a dirla tutta poco fantasiosa, “Scatola del Natale”), di cartone massiccio, alzò delicatamente i festoni color oro, verde e rosso che sbucarono fuori, come quei pupazzi caricati a molla nascosti dentro quelle scatolette sorpresa. I festoni frusciarono al suo tocco, prese tra un dito e l'altro i vari filamenti che li componevano, e scuotendoli si alzò da essi un po' di polvere, che poi scoprì essere farina, la farina che lui era solito utilizzare a mo' di neve. Scostati i festoni ecco tutte le palline: sembrava quasi di avere tra le mani una grande scatola di caramelle e cioccolatini assortiti, ognuno con un incarto diverso, brillante e seducente. Si sedette sul pavimento freddo del garage, svuotò le palline in terra e decise di perdere un po' di tempo a suddividerle... E una volta fatta la suddivisione si alzò in piedi, e guardando quei mucchietti sbrilluccicanti subito riemersero chiari nella sua mente gli alberi che aveva fatto negli anni passati, usando quel materiale. Erano alberi cicciotti, ricchi e abbondanti nelle decorazioni, ma mai pacchiani o troppo sfarzosi. Bilanciava sempre l'oro con il rosso: un tot di palline rosse e un tot dorate, due festoni d'oro e due rossi, questa era la regola, la base sulla quale poi si sviluppava l'intera opera. C'erano poi palline blu e verdi, entrambe con striature argentee: le aveva usate per un solo Natale, prima di cambiare casa, ma gli piacevano, erano una nota piacevolmente disturbante che destabilizzava l'ordine rosso dorato. Infine, le sue preferite, quelle palline che lui amava definire “uniche”, che non avevano nulla a che vedere con quelle acquistate in serie, a gruppi di dieci o venti, ma erano esemplari singoli e particolari. Prendendole in mano, una ad una, si ricordò come avevano fatto a finire in casa sua: quella che gli era stata regalata, quella che si portava dietro sempre, sin da quando era piccolo, quella con quei colori particolari che tanto amava, quella che si era rotta e che lui aveva rincollato chissà quante volte. Eppoi le lucine, due tipi soltanto (perché di più erano davvero pacchiane), che amava accendere tenendo la luce di casa spenta: le uniche fonti di luce, a notte, dovevano essere quelle e il fuoco che vibrava nella stufa.
La vista delle palline suscitò in lui la stessa emozione che provava ogni volta che saliva in soffitta a casa dei suoi, e si imbatteva nei giocattoli della sua infanzia: passavano i quarti d'ora e lui non se ne accorgeva nemmeno, tanto era il tempo che spendeva riprendendo in mano quei suoi vecchi compagni d'infanzia. Calore quindi, e contemporaneamente freddo, come quando sei in una casa che ben conosci perché magari ci hai passato una vita (e i tupi ricordi sembrano vivere ancora lì), ma è vuota e fredda, senza più nessuno ad abitarla.
Chiuse quindi la scatola, rimettendo tutto come l'aveva trovato, e come si fa con le cose preziose mise idealmente quei ricordi che gli erano tornati in mente nello scrigno più sicuro della sua memoria, con l'augurio che tale immagini non lo abbandonassero mai. Si voltò poi, e se ne andò dal garage: il buio cadde nuovamente sulla “Scatola del Natale”.


giovedì 22 novembre 2012

Small lies



Once upon a time... C'era una volta la luna, in una tiepida sera di mezzo autunno. Era una luna strana, non raggiungeva neppure la metà della sua pienezza, ed era lontana, e sprigionava una luce fredda.
Se fosse stata una persona avresti detto che se ne stava assorta, per i fatti suoi, con mille problemi per la testa.
Come ogni notte serena c'erano, intorno alla luna, tante stelle, che via via, con l'avvicendarsi delle ore, si accendevano eppoi svanivano nel chiarore mattutino, per poi farsi vedere la notte successiva. Solo una cercava di rimanere più delle altre, solo una si sentiva così legata alla luna da seguire sì il suo cammino, seppur fermandosi, di tanto in tanto, e chiedersi se la luna non avesse bisogno di un po' più di compagnia. E quella notte, quella tiepida sera di mezzo autunno, la stella disse alla luna che sarebbe rimasta durante il giorno, se solo lei glielo avesse chiesto. La luna si inclinò un po', e le disse “no grazie, ma va bene così, è giusto che sia così. La luce del giorno non ti farebbe sopravvivere, è giusto che tu segua le altre stelle. Tanto comunque, se vorrai, ci rivedremo la sera”.
Se fosse stata una persona avresti detto che stava cercando di abbozzare un mezzo sorriso, tentando di convincere qualcuno.
La stella capì che la decisione era stata già presa, e si incamminò verso casa, con in mente però la voglia, un giorno, di rimanere con la luna più del necessario, solo così, per stare un po' insieme. E mentre camminava pensava questo, e si era già ormai allontanata diversi chilometri dalla luna quando si voltò, e vide che essa aveva attorno a sé un alone strano, circolare, grandissimo, un alone che non aveva mai visto prima, e che arrivava quasi a toccarla.
“Tutto bene luna?” le disse. “Sì”, rispose la luna, ”mi stavo solo stiracchiando un po'...”.
La stella disse un “ok” poco convinto, si voltò e sparì all'orizzonte.
Se fosse stata una persona avresti detto che la luna, in quel momento, stava versando una piccola lacrima, e stava pensando che certe volte le bugie sono necessarie per difendere chi ami.

lunedì 19 novembre 2012

Nasceranno fiori da quelle carcasse

 
Piagata, ferita, la Natura è in ginocchio. Qui le città sono lontane, i loro miasmi non si avvertono più di tanto tra questi alberi, dove l’unico frastuono che regna è quello della feroce cascata, che dalle ruvide pareti rocciose sfoga la sua ira ancestrale a valle, dove sassi levigati e fondali muschiosi ne mitigano la foga... Eppure, nonostante la distanza, l'aria giorno dopo giorno si sta facendo sempre più densa, torbida.
Tra gli alti abeti, nelle radure ombrose, si alza un canto: è un lamento, non si capisce se generato da un umano, da un animale o da un altro essere vivente… E’ qualcosa di antico, di profondo, che se solo riuscissi anche tu a sentirlo, come lo sto sentendo io, lo percepiresti filtrare attraverso la tua pelle fino ai tuoi nervi, ai muscoli e alle ossa, e sentiresti il tuo corpo risuonare con una vibrazione mai provata prima. Il canto sale di intensità, si fa ipnotico, batte spesso sulle stesse tonalità, che al pari dell’acqua della cascata picchiano sempre nello stesso punto, fiaccando ogni resistenza. Ad esso si aggiungono poi dei tamburi, la cui cadenza pare ricreare il battito del cuore delle creature che muovono le fronde di questa foresta e fanno vivere il cielo sopra di esse. Sembra che il tutto, in netta opposizione a quanto sta avvenendo nella città neanche troppo lontana, sia mirato a celebrare la vita, la rinascita, la presa di posizione della Natura che c’è sempre stata, prima di tutto, e che di certo non si farà avvelenare da una delle sue creature.
Il povero cervo, ferito a morte da un cacciatore in cerca di un ricordino da gita domenicale, giace all’ingresso della grotta. La sua anima ormai da tempo ha raggiunto, tramite i fili d’erba che accarezzavano il suo corpo, il centro della Terra, nel quale si è riunito ai suoi simili nella danza della vita; e dalla sua carcassa forse domani, forse tra un mese, sbocceranno splendidi fiori, vita che si rigenera in continuazione.
Calerà infine la caligine che ammanterà gli alti abeti e i picchi innevati, ricompattando la foresta sotto il suo mantello nebbioso, cedendo poi il posto alla Notte, che con i suoi blandi ritmi conforterà i cuori stanchi dalla battaglia giornaliera, l’ennesima, che immancabilmente inizierà da capo il giorno successivo. Quando il sole sorgerà darà il benvenuto a nuove vite e a nuove perdite, e prenderà atto di come, ogni giorno di più, la Natura stia cedendo il posto al veleno della città vicina.
Evitando facili ironie sul nome della band, quello che ci troviamo ad ascoltare con “Ást” è puro e semplice “Cascadian Black Metal”, così come si suole ormai da molto definire la frangia di black metal prodotto nella regione denominata appunto Cascadia, al nord-ovest degli USA (e parte del Canada). Gli Skagos prendono le mosse dalla ferocia dei Wolves in The Throne Room, aggiungono una dose “sciamanica” e rituale che di recente ho avuto modo di apprezzare in act quali Alda e Addaura, e uniscono al tutto fraseggi intimistici e atmosferici tanto cari al neopaganesimo di casa Agalloch, per dare alla luce sei (mediamente) lunghe tracce piacevoli e mai stancanti, nelle quali la parte del leone la fanno soprattutto le emozioni che questi pezzi sanno veicolare. Purtroppo ultimamente band che suonano questa tipologia di musica stano spuntando un po’ ovunque, per cui risulta sempre più difficile distinguere quelle realmente valide dai meri imitatori, ma ritengo che si tratti anche di un genere particolarmente diretto sul piano emozionale. “Ást” rientra per fortuna tra i lavori più comunicativi sotto questo punto di vista: l’ascoltatore ormai avvezzo a queste sonorità non tarderà infatti a essere rapito dalle qualità dei Nostri, semplicemente rendendosi conto della velocità con la quale i pezzi prodotti dal combo sapranno insinuarsi sottola sua pelle, per spingerlo poi nuovamente a premere il tasto “play”.
Privo di significative debolezze, questo disco degli americani Skagos rientra a pieno titolo tra i “must have” di questo genere musicale.

sabato 20 ottobre 2012

Il futuro presente


Dato che lei sarebbe stata via per lavoro per una settimana decisi di fare un weekend come "ai vecchi tempi":   tornare per un attimo alla mia vita di liceale, quindi il sabato pranzare dai miei, nella casa nella quale, fino a qualche anno prima, avevo abitato, passare il pomeriggio lì, magari guardandomi un buon film. Il tardo pomeriggio avrei poi fatto un giretto in città e avrei concluso il tutto con una pizzata in compagnia dei miei vecchi amici nella casa in cui invece stavo abitando regolarmente, quella della mia ragazza. E così feci: dopo pranzo mi recai nella mia vecchia camera, mi sdraiai un po' sul letto e mi addormentai.
Mi svegliò un raggio di sole, che era riuscito a filtrare dalle tende della finestra. Nel dormiveglia, con gli occhi ancora socchiusi, pensai di alzarmi e mettere su un CD, salvo poi ricordarmi che lo stereo non c'era più, me l'ero portato via durante il trasloco... Mi ero così tanto immedesimato nella parte del liceale che credevo davvero di essere tornato a una dozzina di anni fa. Invece, aperti gli occhi, con mio sommo stupore mi resi conto che tutto era davvero come nel 2000, ai tempi del liceo: la vecchia TV con la Play, i miei CD impilati (ancora non avevo avuto la brillante idea di ordinarli), il mobile traboccante di libri di scuola, il vocabolario di latino, in equilibrio precario sulla scrivania sulla quale avevo letteralmente lanciato il mio zaino al rientro da scuola, il vecchio PC, i tanti poster alle pareti. Mi sedetti dunque a pensare a quanto era successo: avevo forse sognato la mia vita "futura", di lì a dodici anni? Era così nitida! La vita da solo eppoi la convivenza, il mio cagnolino, il lavoro, l'Aikido, l'università, i concerti, la musica, il basso, gli amici vecchi e nuovi... Tutto dunque era ancora da costruire? La scoperta non mi demoralizzò, anzi: scrollai la testa, mi alzai e andai in bagno a prepararmi, visto che, di lì a poco, sarei dovuto uscire per incontrare, come ogni sabato, i miei amici. Nella confusione che mi ronzava ancora in capo mentre sceglievo cosa mettermi avevo però ben chiaro una cosa: se davvero avevo sognato avrei cercato di trovare quelle persone che tanto avrebbero significato nel mio futuro prossimo, avrei cercato di evitare certi errori (non tutti, visto che molti mi hanno fortificato), avrei visto la vita con altri occhi e sarei andato subito a cercare, il lunedì successivo durante l'ora di educazione fisica, quella ragazzina che correva con quella tuta rossa e i ricci raccolti in una coda, con solo due ciuffetti di capelli a contornarle il viso rotondo e gli occhioni scuri.
...E se invece il sogno non si fosse interrotto?  Se stessi ancora sognando? Beh, allora continuerei quanto mi ero prefissato, quindi giro in città, cena con i vecchi amici a casa mia, ma, di sicuro, mi proporrei di rivivere per un pomeriggio quanto sopra descritto. Un sabato, vedersi subito dopo pranzo con i vecchi amici di sempre, chiacchierare tutti insieme, magari anche con i miei (sono certo che piacerebbe anche a loro rivederli), eppoi scendere nel piazzale, mettere quattro sassi a mo' di pali delle porte da calcio, tirare fuori il vecchio pallone, e giù calci e corse su quel breccino scivoloso, inseguendo un qualcosa che, forse, non è realmente mai fuggito da me (e da noi?), la nostra giovinezza.

Dedicato a chi c'era, c'è e, nonostante tutto, ci sarà.

Hún Jörð...

martedì 2 ottobre 2012

I Loved I Hated I Destroyed I Created


Non si può dire che la routine lo disturbasse, anzi si considerava una persona abbastanza abitudinaria. Eppure cominciava a non sopportare quelle quattro pareti, e delle persone che era costretto a frequentare ogni giorno per 8/9 ore solo poche erano quelle che tollerava. Di base negli ultimi tempi aveva tirato su un'alta barriera, che separava i rapporti che aveva in ufficio da quelli che aveva fuori. Non voleva essere amico di quelle persone, gli bastava il livello minimo di conoscenza, gli bastava essere professionale e affidabile sul luogo del lavoro, ma nel momento in cui si chiudeva il portone alle spalle era finita, almeno fino al giorno dopo (esclusi i pochi "superstiti" sopra menzionati).
Si sentiva sfruttato, sminuito, ultima ruota di un carro trainato da persone che spesso chiacchierano tanto ma concludono poco, almeno verso le sfere più basse; si vedeva affibbiati tutta una serie di compiti che non gli appartenevano in origine, doveva essere facchino e impiegato, mulo da soma e sfavillante specchietto verso l'esterno, doveva fare contemporaneamente più mansioni pur essendo pagato per una soltanto, e farle tutte bene; doveva gestire compiti importanti e urgenti impartitigli da persone "importanti" e liquidarli velocemente perché tutti erano urgenti, ma a secondo di chi te li commissionava potevano essere più o meno urgenti. Un bel casino, nel quale sinceramente lui cominciava a stare male, a essere nervoso, triste, mogio, e mal sopportare il non essere riconosciuto e l'essere considerato da meno degli altri del piano di sopra solo perché faceva una mansione "minore" (che poi, hai voglia a sentirti dire che era importante, sempre minore era, e lui lo sapeva).
Un giorno, guidando come al solito verso il luogo di lavoro, alzò gli occhi e vide un arcobaleno. Non era di certo il primo che vedeva, eppure questo era particolare, sembrava quasi chiamarlo, essere lì solo per lui. Guidò fino a dove sembrava essere la base dell'arcobaleno, accostò l'auto e uscì. Si incamminò per un boschetto, fiancheggiante l'autostrada che stava percorrendo solo pochi minuti prima, e passo dopo passo il tempo sembrava rallentare, il tempo dell'uomo pareva stesse confluendo nel tempo della natura, il cui scorrere è immensamente diverso, più lento, più implacabile. Arrivò dunque dove l'arcobaleno poggiava in terra, e allungò la mano per toccarlo: il suo braccio lo trapassò, e sentì sulla punta delle dita, che chiaramente riusciva a vedere al di là di esso, un tepore rassicurante, come quello di un primo sole di primavera. Pensò un attimo a cosa più detestava in quel momento della sua vita, e attraversò l'arco.
Quando ne uscì si ritrovò nel solito boschetto: si voltò e l'arcobaleno era sparito. Di fatto, all'esterno, non era cambiato nulla, eppure dentro sentiva la rabbia mitigarsi, sentiva l'odio per il suo lavoro essere lavato via dal desiderio di vivere, dalla voglia di rivalsa di una vita che si affermava non tra quelle mura, ma fuori di esse, a casa, con gli amici, insomma, "fuori". Doveva tornare a lavoro, lo sapeva, ma ora aveva un motivo per farlo: doveva andare a lavoro perché quello gli consentiva di valutare con il giusto prezzo quello che non era lavoro, gli permetteva di godere di ciò che aveva intorno, di apprezzarlo come mai forse aveva fatto, di respirarlo appieno. E si ricordò di una frase:
"Yesterday is History, Tomorrow a Mystery, Today is a Gift, Thats why it's called the Present"
Sorrise, si ridiresse verso la sua auto, accese e ripartì.

I loved

martedì 25 settembre 2012

No one told you when to run, you missed the starting gun

 
Ricordo che facevo seconda o terza superiore. Avevo l'abitudine di sfogliare, prima di cena, un settimanale che comprava mia nonna, dove si parlava molto in generale di tv, gossip ecc, giornale questo che conteneva anche una classifica dei cinquanta dischi più venduti in Italia in quel momento. Scorrendo con gli occhi ancora poco allenati alla musica i nomi e le copertine dei vari album ce n'era sempre uno che mi colpiva, sia per quel titolo misterioso e oscuro, sia per quella copertina, così minimale eppure così affascinante: un prisma su sfondo nero con un raggio di luce che lo attraversava. Dopo svariate volte che lo vedevo decisi di segnarmi il nome del gruppo, e l'indomani, mentre mio babbo mi portava a scuola, gli chiesi se li conoscesse. Lui mi disse che sì, certo che li conosceva, e che andavano molto negli anni Settanta, quando lui era poco più che ventenne, ma non sapeva se mi sarebbero potuti piacere.
Arrivato a scuola chiesi altri lumi ad un mio compagno di classe, persona che stimavo molto al tempo perché ritenevo avesse una grandissima cultura musicale, ma costui me li "stroncò" un po', dicendomi che non gli piacevano, troppo dispersivi e "antiquati". Lì per lì credetti di lasciar perdere e di essermi dimenticato tutto, in realtà però quel nome mi si era impresso per sempre nel cervello, e caso volle che, poco tempo dopo, uscisse una raccolta commemorativa del gruppo, un "Best Of" che presi al volo, conscio che quella sarebbe stata la mia chiave di volta per aprire gli occhi su questo gruppo: lì avrei capito tutto.
Avevo l'abitudine, tornando a casa dopo scuola (quando i miei amici non mi venivano a trovare) di fare pranzo, guardare i cartoni in TV, studicchiare un po' con lo stereo acceso eppoi uscire. Quel giorno uscii prima da scuola, passai a comprare il CD, tornai a casa e, dopo pranzo e dopo i cartoni, mi stesi sul letto a TV spenta e con il CD inserito. La partenza non fu delle migliori, con pezzi sconclusionati e stralunati, strane marcette fiabesche e psichedeliche che mi colpirono poco (e a tutt'oggi, sebbene le abbia capite e inquadrate, non fanno grossa presa su di me), ma quello che venne dopo mi lasciò basito: una complessità di suoni mai sentita, accattivanti, malinconici per lo più, ricchi ora di groove ora di atmosfera, carichi ora di tensione e pathos mistico ora di freddezza e cinismo... In poche parole, avevo trovato il gruppo che faceva in quel momento per me. Ascoltai l'album tre o quattro volte quel giorno, alla fine mi addormentai pure, e nel dormiveglia le mie immagini erano mosse proprio da quelle musiche e da quei suoni quasi spettrali, e da quel giorno decisi che mi sarei comprato, piano piano, tutta la discografia della band.
Non avendo ancora internet a casa mi recai dal mio negozio di CD di fiducia, e basandomi sui pezzi del "Best Of" che più mi avevano colpito acquistai il mio primo disco del gruppo, e da lì tutti gli altri. Era bello constatare come ad ogni lavoro che ascoltavo i suoni erano sempre diversi, non riuscivo mai a rintracciare le stesse melodie dell'album precedente, eppure ne ero attratto in maniera stranissima.
Ricordo che il gruppo in questione mi ha accompagnato per i miei ultimi anni delle superiori e i primi dell'università (a quel punto già ero in possesso dell'intera discografia, ma era comunque un mio ascolto ricorrente). Durante la scuola mi stupivo di come certi album potessero tematicamente sposarsi alla perfezione con la letteratura italiana e inglese che stavo studiando... Ne ero così stupefatto che condivisi questa mia "esperienza" anche con la mia professoressa di inglese, la quale fu molto soddisfatta del mio acceso interesse verso la letteratura anglosassone (interesse questo che, forse complice suddetta band? non è mai scemato da quel momento)... Era bellissimo studiare T. S. Elliot o W. Blake con come sottofondo uno specifico album, ed era oltremodo affascinante ritrovare tra le righe dei testi gli stessi concetti che sentivo provenire dal CD.
Di fatto posso dire di aver dedicato la mia laurea a loro, dato che la mia tesi è stata proprio incentrata sulle copertine del gruppo, vere e proprie opere d'arte che, anche oggi, in un periodo in cui il formato digitale sta soppiantando tutti gli altri, hanno il loro perché.
Oggi, a distanza di una decina d'anni, forse più, dal primo giorno in cui ascoltai il gruppo in questione, ho rimesso nello stereo della macchina il famoso disco con il prisma, e l'ho ascoltato venendo a lavoro. Non che lo avessi lasciato lì a prendere la polvere in questi anni, sia chiaro, solo che qualcuno ha voluto che proprio oggi dovessi riascoltarlo. L'impatto è stato dei migliori, una sorpresa conscia se così posso definirla: sapevo cosa stavo ascoltando, ma lo ascoltavo con un'attenzione diversa, stupendomi per dei particolari che prima non avevo notato. Eppoi, alle parole "And then the one day you find /Ten years have got behind you /No one told you when to run /You missed the starting gun" è successo l'inaspettato, e mi sono messo a piangere. Non è la prima volta che piango ascoltando una canzone: non mi vergogno a dirlo, sono di lacrima facile, ma era la prima volta che piangevo ascoltando un pezzo di questo gruppo. Nella mia mente sono riaffiorate improvvisamente tutte queste immagini (ed altre) che ho cercato di ridescrivere nelle righe qui sopra, e tutti questi ricordi mi hanno soverchiato al punto che non ce l'ho fatta a tenermi tutto dentro... E questo accadeva mentre gioivo nell'ascoltare le stupende note provenire dalle casse della mia macchina.
Questo sfogo vale solo per me: ognuno fa le sue esperienze, e anche se un giudizio generale sulle indubbie qualità del gruppo può essere fornito, quello che significa per te, la valenza che gli dai in relazione alle tue esperienze, beh quella è e deve rimanere solo roba tua, assolutamente insindacabile. E anche se questo messaggio non arriverà mai a loro, voglio ringraziare quegli allora ragazzi per aver creato per me (sì, per me, alla luce di quanto scritto poco fa) quei dischi, che sono rimasti ben radicati nella mia mente e hanno costituito le basi sulle quali oggi si appoggia il mio bagaglio musicale, che per quanto ormai sia distante da loro, sempre da loro ritorno.
 

giovedì 20 settembre 2012

L'impero della luce


Dal vetro opaco della finestra la vista non era certo delle migliori. Il cielo era grigio, velato da una strana cappa scura, e lui non sapeva bene cosa fosse, se smog o nubi cariche di una pioggia sporca terribilmente restia a cadere. In basso le strade pullulavano di persone che correvano indaffarate, schivando vetture che si incolonnavano e ripartivano, sfrecciavano velocemente come frecce luminose e sparivano una volta svoltato l'angolo. La confusione era tale che non era in grado di udire neppure il cinguettio di quella (povera) coppia di pettirossi che avevano fatto il nido tra gli ossuti rami dell'albero di fronte.
Il fiore ondeggiò i suoi petali, indietreggiando (per quanto poteva, viste le ridotte dimensioni del vasino nel quale era stato piantato) dal vetro, e abbassando la sua corolla giallo oro fermò il suo sguardo su una macchia del davanzale, e come spesso accade quando ci perdiamo nei nostri pensieri e cadiamo come ipnotizzati, ci concentriamo su immagini reali che piano piano perdono la loro forma e lasciano spazio ai ricordi. Riesce quasi a sentirlo il sole riscaldare i suoi petali e le sue foglie, quando tutt'intorno aveva solo campi verdi e vellutate colline che si perdevano all'orizzonte, riesce a vederlo uno dei suoi petali staccarsi, come preso per mano da una leggera brezza di fine estate, danzare cullato del vento e allontanarsi seguendo invisibili trame. Il petalo fluttua, il vento lo spinge di fiore in fiore, e ogni corolla che tocca un nuovo petalo si unisce alla sua viva corsa tra le colline. Qui non c'è la mano dell'uomo, qui c'è solo la natura, che pulsa e freme con il sole ed il vento, con la sua vita semplice, calma e rilassata.
La processione di petali raggiunge, danzando, una vallata dove campi di grano ormai pronto per essere mietuto sonnecchiano al chiarore della luna, illuminati dalle flebili luci delle lucciole. Si divertono, i petali, a circondare i covoni di fieno, in un armonioso girotondo che coinvolge anche le lucciole, giocano a rimpiattino tra le spighe di grano che, frusciando, paiono quasi ridere e soffrire il solletico.
Si allontanano dalla radura: il sole sta quasi per sorgere, e i suoi primi raggi si riflettono sulle braccia meccaniche delle pale eoliche che svettano, come cipressi di metallo, dalle colline circostanti. Da ognuna di esse si dipartono cavi elettrici: il vento sospinge i piccoli petali intorno a queste vene metalliche, in un saliscendi vorticoso che però si arresta improvvisamente alla vista di enormi tralicci di ferro nero che, a valle, punteggiano i campi circostanti e sostituiscono i fiori e gli alberi. Intorno a queste strutture tutto è secco, tutto è arido: anche il vento sembra aver timore a sospingere i fragili petali, che difatti rallentano la loro folle corse, guardandosi intorno come smarriti. Dov'è l'erba, dove sono gli alberi, e perché il sole fatica a uscire da quella fitta coltre di nubi?
Il bello di questi petali è che non si danno per vinti: con coraggio affrontano la giungla di ferro e cemento che li circonda, prendono via via forza, e con un vigore che solo la natura sa sprigionare abbattono, l'uno dopo l'altro, gli orribili tralicci che li circondano, e bagnano con le poche gocce di rugiada mattutina che ancora conservano i grigi palazzi circostanti, che si inebriano di luce e sembrano risorgere dalle loro ceneri. Anche il vento riprende velocità, e li fa danzare tra le finestre spalancate, fa dondolare le altalene e li fa scivolare sugli scivoli che riprendono smalto e vita... Poi salgono su, in alto, verso il sole che finalmente ha vinto la sua battaglia contro le nubi, e si disperdono, esausti, nel cielo ora limpido e sereno.
Ricordandosi di tutto questo e rivedendo queste immagini come se fossero chiare e nitide, il fiore sorride dolcemente, e mentre una delle sue ormai poche foglie si stacca depositandosi sul freddo davanzale un raggio di luce filtra dal grigio vetro e, per un attimo, lo riscalda e lo fa tremare di gioia.
Al sesto tentativo gli inglesi Devil Sold His Soul fanno il botto. Non che prima ci fossero andati leggeri, sia chiaro: il precedente "Blessed & Cursed" aveva già messo in luce le loro potenzialità, ma era comunque ancora un po' acerbo, in alcuni punti (soprattutto nelle ultime tracce) un po' prolisso, e in generale ancora un po' derivativo. Isis, Pelican e altre band facenti capo in generale ad un certo post metal "emozionale" aleggiavano spesso nelle tracce di quel pur buonissimo album. Ma in Nostri con questo "Empire Of Light" sembrano aver cambiato marcia, sembrano essere riusciti a incorporare perfettamente le loro tante influenze e a restituirle in chiave personale. Hanno sempre avuto dalla loro la capacità di emozionare, e in questo lavoro ci vanno giù pesante, trascinando l'ascoltatore in saliscendi intensi e ipnotici, figli tanto degli Isis quanto dei vari Hands o, meglio ancora, degli A Hope For Home (con i quali sento molte correlazioni nelle atmosfere, sebbene questi costeggino maggiormente lidi post, siano essi post metal o post rock, mentre gli inglesi sembrano voler inserire anche partiture al limite dell'emocore).
Per un autunno alle porte, fatto sia di tiepide giornate soleggiate di fine estate, sia di fredde mattinate di inizio inverno, non c'è niente di meglio di questo "Empire Of Light".

It Rains Down

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venerdì 14 settembre 2012

Aspettando la tempesta


La serata era tranquilla, ma non diversa dalla precedente e, probabilmente, dalla successiva. Un pigro vento estivo soffiava attraverso l'inferriata e accarezzava il suo viso, mentre lei, seduta sulle scale, guardava con occhio perso in direzione del bosco, al di là del cancello. C'era una certa tensione nell'aria, ma non nella natura che circondava la casa: tutt'intorno era pacato, i grilli si rincorrevano con i loro richiami, mentre lievi fruscii degli animal notturni smuovevano il sottobosco. Il cane ai suoi piedi si stiracchiava e cercava il fresco negli scaloni di marmo, mentre ogni tanto saettava nel giardino il gatto, inseguendo qualche farfallina o falena. Niente avrebbe fatto presagire l'arrivo di un temporale, ma tanto lei sapeva che di lì a qualche ora, come tutte le notti, ci sarebbe stato da litigare, da lottare, da mangiarsi il cuore, e da non riposare come la notte vorrebbe.
Si alza e rincasa, si mette il pigiama e si corica, aspettando il sonno... Che non tarda ad arrivare, ma che ahimè dura poco. Si risveglia nel cuore della notte, il letto è vuoto ma la televisione in casa fa un gran baccano: è rincasato, e di certo sarà confuso come tutte le sere. Lo va a cercare, gli dice di venire a letto, ma lui le risponde in malo modo, con una voce e un atteggiamento miste tra il drogato, l'alcolizzato e il narcolettico. Poi comincia ad insultarla, chiamando in causa ora la mamma di lei, ora suo padre, dicendo che odia tutti, odia il posto, lamentandosi delle mille malattie che crede di avere e della mancanza di lavoro e di soldi... Tutte paure che lei sa essere infondate, ma che lui tira fuori così, a random, ogni sera, quando è in questo stato. Lei ci ha provato spesso in passato a farlo ragionare ma sempre senza successo: ormai ha perso le speranze, cerca quindi di rispondere a tono ma ha paura, la sua voce trema.
Dopo l'ennesima infamata lui se ne va a letto, lasciandola impalata in cucina, a fissare la televisione accesa, con le lacrime che rigano le sue guance. E' tornata la calma, neppure il tempo di mettersi a letto che lui già russa, incurante di lei e ignaro probabilmente delle cose che le ha detto; fuori i grilli continuano a richiamarsi, mentre lei, il sonno ormai perso, decide di provare a riposare un po' gli stanchi occhi nell'altra camera (ormai divenuta la sua camera), aspettando il nuovo sole, che non farà che riportarla ad una sera identica a quella che sta trascorrendo.
E intanto è invecchiata un po' di più, e ha perso un altro pezzo di sorriso, e un po' di scintillìo dai suoi occhi.


Violence

venerdì 17 agosto 2012

E venne il giorno


La città si era svegliata tranquilla, come al solito. Era una placida cittadina di provincia, non lontana dai grandi centri urbani ma nemmeno così distaccata dalla campagna, almeno non così tanto da non riuscire ancora sentire l’odore della pioggia quando iniziava a depositarsi sui campi di grano o iniziava a bagnare le grandi querce che ne delimitavano i confini.
Pigramente le persone uscivano di casa, si salutavano con cenni amichevoli (si conoscevano tutti, d’altra parte, di fatto, si trattava di un paesone) ed entravano in macchina per recarsi a lavoro. Le mogli erano chi in giardino a dare l’acqua alle piante, chi in cucina a preparare la colazione ai figli (che anche se erano in vacanza, essendo estate, non avevano perso l’abitudine a svegliarsi in orario “scolastico”), chi in strada a salutare i mariti. L’aria, sebbene si trattasse di una bella mattina di fine estate, era stranamente pesante e sospesa, non si muoveva una foglia, e nessun uccellino cinguettava dai tanti alberi ai lati del vialetto, ma lì per lì non ci fece caso nessuno, rintontiti come erano dal risveglio. Eppoi successe quello che non ti aspetti.
Si cominciarono a sentire strani scricchiolii, ma nessuno capiva da dove provenissero. Prima erano leggeri, dei “crick crack” che ricordavano il suono di piedi che calpestano foglie secche, suono ovviamente amplificato a dismisura, dato che tutti lo udirono distintamente. Inconsciamente le persone guardarono il cielo: non le loro case, non il bosco lì vicino, ma il cielo, che da sereno che era si era fatto sempre più plumbeo. Da dove provenivano quelle nuvole?
Il sole era ormai totalmente oscurato da una cortina impenetrabile, e quando l’ultimo raggio di luce fu vanificato dalle nubi un enorme “crack” risuonò nell’aria. Il rumore che fu udito, e che terrorizzò tutti scuotendo la terra fino alle sue viscere, fu molto simile a quello che si ode nei film quando si vedono ghiacciai che si spaccano: un colpo secco, sordo, seguito da sinistri mugolii quasi, che ormai era chiaro, provenivano dal cielo. Il manto, fino a pochi minuti prima sereno ed ora tremendamente oscuro, si stava avvicinando alla terra, sempre di più: crollava di tanto in tanto, per poi rifermarsi pochi chilometri più in basso, ma la sua discesa verso la terra sembrava inarrestabile. Era come se qualcuno, con un maglio invisibile, stesse scalzando i possenti pilastri che lo dividevano dal mondo abitato degli uomini. Il panico dilagò tra le persone, ma non ebbe tempo di fare breccia nel cuore di tutti. L’ennesimo sordo “crack” e il cielo crollò di colpo, e come quando qualcuno ti lancia sulla testa una nera e pesantissima coperta, d’improvviso tutto si fece buio: il mondo collassò su se stesso, cielo e terra si riunirono e si annientarono.

Though from the start we’ve all diverged, all ascending paths must converge.

Quando unisci gli eterei e fragili arpeggi dei Sigur Ròs periodo "( )" alla possenza dei Cult Of Luna, al gusto melodico degli Explosions in the Sky e all’emotività dei mai troppo compianti Isis devi stare attento, rischi di combinare un disastro senza capo né coda, un minestrone che manca di coesione e che rischia di depistare l’ascoltatore. Se invece riesci a trovare la quadratura del cerchio allora con ogni probabilità il disco che ne ricaverai si intitolerà “In Abstraction”, e forse il tuo gruppo si chiamerà A Hope For Home.
Questi ragazzi di Portland sono riusciti a confezionare un lavoro realmente degno di nota, sette tracce di post metal aggraziato e allo stesso tempo incisivo e duro, un disco a tratti toccante e intenso, in grado di emozionare con la sua tragicità di fondo, che sfocia spesso o in una epicità mai tronfia o fine a sé stessa o in una dolcezza per niente barocca e caramellosa.
Uscito ormai un annetto fa, “In Abstraction” è un ascolto d’obbligo per chi ama i gruppi citati poco sopra: ci vorrà un po’ per metabolizzarlo, lo scoprirete piano piano, ma una volta fatto vostro sentirete la necessità di riascoltarvelo ogni tot giorni, per sentirsi bene e “a casa” come quando si parla con un vecchio amico che è tanto che non vediamo.

Everything that Rises must Converge

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martedì 31 luglio 2012

Le cose importanti


Da qualche giorno a lavoro stiamo utilizzando un nuovo sistema di posta elettronica, GMail.
E' presente una simpatica funzione che ti contrassegna come "importanti" alcune mail che ricevi, basandosi, immagino, su stringhe di parole ricorrenti nei documenti che ricevi, parole che il sistema, dopo un po' che le vede, giudica importanti perché presenti più spesso nelle comunicazioni.
Sistematicamente ogni mail che mi viene proposta come "importante" viene da me riportata al suo status di "mail NON importante". Solo una tipologia di mail mantiene lo status di "importante", giustamente assegnatole dal buon Google: tutte le altre, sebbene facciano riferimento a cose di lavoro, anche "vitali" quasi, per quello che faccio, non saranno mai tanto importanti quanto anche una sola mail di quel preciso mittente, che rappresenta, difatto, al vita VERA fuori da queste quattro mura dalle finestre troppo alte o troppo lontane per vedere un po' di luce.

L'ultimo giorno di scuola



Ieri è finita la scuola.
L'ultimo giorno di scuola è sempre strano, "metafisico" mi verrebbe da dire. Come in quei dipinti di De Chirico, con quelle poltrone buttate lì a caso, in mezzo ad aride ed assolate vallate greche, con solo qualche capitello diroccato a far loro compagnia, ti pare di sentire caldo anche solo a guardarli, e ti sembra che il tempo rallenti, sia quasi sospeso. Ecco ieri è stato proprio così.
Eravamo in pochi ieri a lezione... Non che siamo molti in generale, ma quest'ultimo mese ha registrato una decisa flessione in termini di presenze degli studenti, che sono partiti anzitempo per le ferie e le vacanze estive. Qualche anno fa, quando andavo allo scientifico, quanto si arrabbiavano i professori se qualcuno prendeva dei giorni di vacanza e si assentava anzitempo da scuola, magari ai primi di giugno! E mi ricordo la sensazione che provavamo tutti di stanchezza mista a rilassatezza, quel fare le cose solo per inerzia, con le gambe molli, stanche, l'occhio ammezzato, e la voglia di chiudere i libri per un bel po' di giorni a fila. L'ultimo giorno di scuola di solito era un giorno felice, spensierato, pieno di concessioni più o meno dichiarate: era sì velato da un po' di malinconia, ma tanto sapevi che, volente o nolente, quelle facce le avresti riviste di lì a qualche mese, anche quelle che avresti fatto volentieri a meno di rivedere, per cui, alla fine della fiera, te ne importava il giusto. Discorso un po' diverso va fatto per l'ultimo giorno di quinta superiore, ma quella è un'altra storia, che mi riservo per, magari, qualche altro scritto.
Ieri invece l'ultimo giorno di scuola mi ha lasciato un po' di tristezza, un po' di vuoto che, per fortuna, avrà vita breve (di fatto si parla solo di un mesetto), ma è stato un peso che si è materializzato e si è fatto sentire non poco, non appena ho salutato tutti. E' stato bello andare a cena dopo la lezione, anche se eravamo pochissimi: non era eccessivamente caldo, fuori si stava bene, la birra era fresca e la pizza, seppur un po' pesantuccia, era veramente buona. Le chiacchiere andavano via veloci ed allegre, e con esse sfuggiva anche il tempo, e così è arrivato presto il momento di dirsi "buone vacanze".
Mi piace andare a scuola, mi trovo bene con i miei compagni, e ritengo che il mio insegnate, seppur un po' svagato, con quel suo fare un po' tra le nuvole, sia uno dei migliori che abbia mai avuto, merito forse anche della "materia" che insegna. Forse esagero, forse sono troppo sentimentalista, ma ecco, non vedo l'ora che la scuola ricominci.

Further Ahead of Warp

martedì 3 luglio 2012

Sorrisi sfiorati



Mi piace andare in Contrada, essere di servizio durante le cene varie, passare di tavolo in tavolo e guardare le persone divertirsi, stare in compagnia, ridere, cantare, bestemmiare, infamarsi, ubriacarsi. Ma soprattutto, quello che mi rimane sempre, dopo ogni sera, dopo ogni servizio prestato, è il contatto.
Quando passi in mezzo a quel buglione di persone trovi gente da ogni parte che ti sfiora, che ti incorocia, ti sorride e ti appoggia una mano sulla spalla, o magari ti fa un dispetto per farti cadere qualcosa (ti "sciaguatta" un pochino, o ti da semplicemente noia, il tutto sempre ovviamente in amicizia)... Anche chi non ti conosce ti sfiora e ti appoggia una mano sulla spalla sorridendoti, anche solo per passare oltre. Il contatto fisico si unisce a quello verbale: ci si da del "tu", sempre e comunque, e se, per buona educazione, talvolta ti rivolgi a qualcuno un po' in là con gli anni usando il "lei", ci pensano due o tre bestemmie ben assestate a farti capire che il "lei" va lasciato fuori dalle mura, al di là di quei confini disegnati ormai secoli fa.
E' vero, c'è anche gente inutile lì dentro, gente che bruceresti con uno schiocco di dita se potessi, gente che si crede di essere chissà chi, e di essere lì per non si sa quale privilegio, ma per fortuna sono la minoranza, per ora, e gli sporadici incontri che puoi fare con loro lasciano, forse, traccia di poche ore... Una volta sentii un ragazzino parlare con uno di questi personaggi, che lo sbeffeggiava per la sua presunta assenza dai luoghi di contrada... L'"inquisitore" indicava delle persone e diceva "lo sai chi è quello? E' il mangino vittorioso del XXXX... E quello, lo sai chi è quello? E' il XXXXXX vittorioso del XXXXXX". Al ché disse al ragazzo: "ma te lo sai chi sono io?" (nota mia, l' "inquisitore" era un gazzilloro qualunque, le cui uniche fortune erano lo stare praticamente accanto alla Società, l'avere soldi da buttare via e l'aver avuto una famiglia da sempre impegnata in Contrada, a un livello ben più nobile del suo...)... Alla domanda che gli fu posta il ragazzo, fino ad allora insofferente, alzò gli occhi chiari e rispose: "no, non lo so chi sei, ma te lo sai chi sono io?! No vero? Bene, siamo pari allora!", e detto questo girò i tacchi e si allontanò, lasciando quel gazzilloro con un pugno di mosche. Chapeau.

Now We Are Free

"...è caduta l'Oca"

giovedì 14 giugno 2012

La casa di Maria


La casa di Maria è piccola, sembre una di quelle villette che si vedono nei film di Harry Potter. Sembra essere fatta di legno, sembra fragile e non poter reggere un soffio di vento, ma ha buone fondamenta. La casa di Maria è un po' come la sua proprietaria, anche lei minuta, gracilina, ma le ha passate tante, ha attraversato una guerra, ha attraversato un mare, ha attraversato una cultura nuova, due cose queste fatte per inseguire un amore che proprio la guerra le aveva fatto conoscere. Sid era un grand'uomo, non l'ho mai conosciuto ma l'ho visto filtrato attraverso foto e racconti: lui scozzese, lei italiana, come diavolo riuscirono a intendersi lo sanno solo loro, eppure ce la fecero, lei si trasferì in Inghilterra e imparò l'Inglese. Fa ridere Maria quando parla italiano, pare cristallizzata agli anni Quaranta, ha dei modi di dire davvero desueti, senesi, perché lei è di Siena, ma ingialliti come le pagine di un vecchio libro. Nonostante l'età Maria è giovanile, gli occhi vispi, "pesticcia", come si dice dalle mie parti, in continuazione, va in giro, vive alla grande insomma, nonostante sia piccola e abiti in una casina piccola. I legami non si spezzano, la distanza, un oceano e diversi kilometri di certo non cancellano le sue radici, e i suoi parenti italiani le vogliono ancora un mondo di bene. Il nipote "piccolino" (che poi tanto piccolino non è, oggi ha circa sessant'anni, ma è il minore di quattro fratelli) deve a lei molto, lei lo ha ospitato più di una volta quando lui era in viaggio in Europa, e questo amore lui lo ha tramandato anche alle sue due figlie, che amano tanto l'Inghilterra forse perché lì c'è un pezzo di loro.
La casa di Maria stamattina si è svegliata triste: il pavimento in parquet non ha scricchiolato come al solito, e la cucina non si è riempita del consueto odore di thé. Ve l'ho detto, Maria era gracilina, e un cretto di qualche giorno fa è stato fatale alla sua minuta struttura. La cosa bella è che se ne è andata, ne sono certo, felice, vincitrice di tante battaglie (prima tra tutte quella contro il tempo), felice di aver lasciato dietro di sé tante persone che l'hanno amata e le hanno voluto bene, soddisfatta di come ha vissuto e appagata dai suoi novanta e rotti anni. Certo, sono state versate delle lacrime, la sua dipartita non ha lasciato le persone indifferenti, alcune di esse si sono rese conto di come il tempo sia un tiranno che ti strappa in un lampo, con mani artigliate, quanto ti eri conquistato con fatica, e che pensavi sarebbe durato non dico in eterno, ma almeno un pochino di più. Alcune persone si sono rese conto che è in atto un cambio generazionale, che i "vecchi" stanno lasciando il posto ai "giovani", e si sono di colpo sentite meno sicure, meno solide, più fragili. Io dico a queste persone: pensate a Maria! Pensate a come a vissuto, pensate alla sua felicità! Certo i tempi erano diversi, ma io credo che si possa vivere bene anche oggi, anche tra i nostri mille problemi, basta rallentare un attimo e focalizzarsi meglio.
Parecchi kilometri più a sud della casa di Maria, in un altro stato, in una casa non fragile, non inglese, e probabilmente meno affascinante, qualche giorno fa è scoppiato un nuovo pianto, il vagito di una nuova vita. Benedetta si chiama, ed anche lei è in qualche modo legata a Maria: non perché si siano viste, e neanche perché siano parenti (sebbene la famiglia di Benedetta e quella di Maria siano legate, seppur per vie un po' tortuose), ma perché condividono un equilibrio, un bilanciamento, occupano entrambe i due piatti della bilancia di Destino, una per piatto, e probabilmente lui ha deciso così, che era giusto far cedere il passo a Maria.
Arrivederci Maria, conosco delle persone lassù che ti faranno buona compagnia, persone con cui andrai di certo d'accordo, e benvenuta Benedetta.

"Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano. Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l’unico che sorride e ognuno intorno a te piange."

martedì 12 giugno 2012

La carica dei mille



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...c'è scritto "grazie", e sono mille, fidatevi li ho contati!
Grazie a chi mi legge, o anche solo apre il mio blog ogni tanto per vedere le cazzate che scrivo.
Grazie.

Happy birthday

Uomini invisibili


Poco fa ho avuto conferma di una cosa che mi avevano detto anche altri, ma che in fondo avevo sostenuto sempre anche io: la risposta alla domanda "qual'è il fine che spinge una persona a aprire un blog, e a cominciare a riversarci dentro i suoi scritti?"
C'è chi lo fa per scriverci cavolate, una sorta di "Facebook" in cui conservare tutti i suoi status, raccontare cosa ha fatto durante il giorno, un diario più o meno segreto. Cerca di scrivere cose stupefacenti, di dargli un tono il più allegro e "nazional popolare" possibile, così da aumentare le proprie letture.
Io ho seguito un'altra strada, in linea con quello che è il mio attuale carattere, il mio attuale modo di rapportarmi verso l'esterno. Lo uso saltuariamente, solo per scriverci cose che ritengo importanti; lo uso per fissare da qualche parte impressioni che, conoscendomi, potrei dimenticare di lì a poco. Ma soprattutto lo uso per riconoscermi, per ricordarmi chi sono, per rivivere le emozioni che mi hanno spinto a scrivere determinati post. E la cosa bella è che mi riesce. Nel senso, rileggendo i miei vecchi post riesco davvero a rivedere quelle immagini che popolavano la mia mente mentre stavo forsennatamente cercando di dar loro un senso, quando le stavo trascrivendo; riesco a provare di nuovo le emozioni che avevo provato, a sentire le lacrime che avevo sentito, o semplicemente a rivivere sogni che già avevo vissuto e dimenticato. Ma tutto ciò, se da un lato mi piace e mi da soddisfazione, mi fa chiedere anche perché ci sia tutto questo bisogno di "trascriversi", di affermarsi anche sullo scritto, bisogno che anima ogni tipo di carattere, dal più intraprendente ed estroverso al più schivo e solitario, ognuno per apparentemente diverse motivazioni. Almeno per quanto mi riguarda credo sia una mai confessata (nemmeno a me stesso) e quindi intestina e inconscia paura di sparire, o meglio, paura di perdere certe cose belle o significative: paura di perdere la rotta, di non capire più perché stai facendo certe cose, o perché stai andando verso una direzione piuttosto che un'altra... Paura di non poter superare tutte le proprie paure, che si cercano di esorcizzare trascrivendole e cercando così di "vederle" meglio; paura di perdere non solo se stessi, ma anche persone che hanno dato un contributo importante al tuo essere attuale.
Sono un po' come l'uomo invisibile, anche io ogni tanto cerco di mettermi un cappello ed un impermeabile per potermi vedere allo specchio e ricordarmi di me.

lunedì 21 maggio 2012

Back to the roots


Proseguo con il mio trend che mi porta a rivalutare le care vecchie buone abitudini.
Settimana scorsa ho riesumato il lettore CD portatile, che ho cominciato a portarmi fieramente in giro. Certo, è un po' scomodo come dimensioni e per il fatto che ti puoi portare dietro solo un disco alla volta (a meno che non viaggi con uno zaino ovvio), ma ha tutto un altro sapore... Sa di compiti in classe di italiano e di disegno, quando il prof ti consentiva di usarlo se stavi ricopiando sulla bella copia o se stavi ripassando. Sa di gita scolastica, era una delle prime cose che tiravi fuori dallo zaino non appena seduto sul sedile del pulmann. Sa di vasca in città, fermata d'obbligo al negozio di musica (quando ancora poteva essere definito tale), acquisto di rito del CD sconosciuto e subito ascolto mentre si passeggia per le vie del centro. E' un suono meglio definito, più caldo e familiare, che mi sento in dovere di recuperare.
Ieri invece ho riesumato, per il consueto taglio dell'erba del condominio, la falce. Quella mezzaluna ormai arrugginita, con quel manico di legno che credo sarà stato rimesso insieme prima da mio nonno poi da mio babbo almeno cinquanta volte, quella lama sbocconcellata che a tutt'oggi taglia come se fosse nuova. "Se la porti a un mercatino delle pulci e la vendi ti danno cinque euro, buttalo via quel troiaio!" mi dicevano ieri le persone che, con me, erano alle prese con "l'ars potatoria". Io gliel'avrei lanciata dietro invece, per fargli vedere se era un troiaio davvero oppure no... Intanto io, con i miei metodi, quindi falciando le piante e gli steli più grossi e ripassando poi con il decespugliatore, sono andato liscio e non ho mai rotto il filo della macchina, loro invece, con la loro "simpatica strafottenza", hanno passato più tempo a "togliere il filo, rimettere il filo, macchina ingolfata" ecc che a lavorare. Alal faccia vostra, cazzoni parolai! E per la cronaca, quante volte c'avrò tagliato l'erba da piccino con quella falce, cercando di imitare il mio nonno, quante sudate, e quante sgridate che mi sono beccato quando, dopo quattro falciate, l'abbandonavo nel campo perché mi ero già divertito, incorrendo quindi nelle bestemmie e nelle ire dei miei!
Oggi infine ho riscoperto invece l'abbinamento "ciaccino al prosciutto cotto e mozzarella della Casalinga con Estathé". Roba che non facevo dalla terza media almeno, la tipica colazione del campione, da sfoderare in gita (assieme al lettore CD!), durante l'intervallo, o nei pomeriggi dopo scuola, quando sudati fradici per aver corso dietro il pallone e esserci magari sbucciato qualche ginocchio, ci s'affacciava a quel bancone e la richiesta era una sola: "un ciaccino e un Estathé!" ...che tra l'altro è anche parecchio buono!
Ogni tanto c'è bisogno di queste cose, magari un po' romantiche, ma che ti fanno guardare indietro, sorridere magari, e pensare che quelle (e altre) sono le tue basi, alcune delle sicurezze con le quali sei cresciuto, e che non c'è vergogna nel tirarle fuori ogni tanto, e vantarsene, perché no.


venerdì 18 maggio 2012

L'ulivo



Stanotte ero di nuovo a casa vecchia. Tutto era come lo avevo lasciato, più o meno, stessi mobili, stesso arredamento, stesse tende. L’odore, il profumo, era lo stesso, quella mistura dalla fragranza primaverile emanata da un erogatore attaccato alla presa di corrente
Se non sbaglio era notte: non ne sono certo al cento per cento, ma ricordo che ero lì per montare le decorazioni natalizie, e che qualcuno apriva la finestra, e che io con la coda dell’occhio intravedevo il buio dei campi, qualche luce in lontananza, e sentivo nell’aria l’odore di legna bruciata. Le decorazioni di Natale, dicevo.
L’albero era lì, al posto solito, addobbato come lo avevo sempre addobbato io, ma la mia attenzione era focalizzata sul grumo da strigare di lucine natalizie. Ricordo ancora la consistenza del cavo verde, spesso, avvolticciolato su se stesso, e ricordo l’odore della plastica che emanavano le lampadine stesse. Cercavo una prolunga ricordo, perché dovevo metterle in terrazza, attaccate alla ringhiera, ma il filo non era abbastanza lungo. Avevo paura che la finestra non si chiudesse, ma qualcuno che era lì, forse alle mie spalle, mi diceva di fare come facevano i miei genitori a casa loro, in quel modo il filo non avrebbe impedito la chiusura della finestra. “Il vicino non ha lucine” pensavo… Pazienza, tanto sono dei tristoni, le mie faranno luce anche per loro.
Per fissarle fuori avevo bisogno di alcuni attrezzi: la mia cassetta rossa dove li tengo era rimasta in macchina, per cui dovevo fare con quel che c’era. “Apri il mobile”, mi diceva la solita voce. E lì, dove io di solito tenevo piatti e bicchieri, c’erano ora tanti attrezzi perfettamente ordinati, disposti sia dentro il mobile stesso che attaccati allo sportello. Prendevo le fascette, le forbici, e mi soffermavo sulle chiavi inglesi: non che mi servissero. “Ti manca?” mi diceva la voce. “Molto”, rispondevo io. “Questi erano i suoi attrezzi…” “Lo so, mi ricordo.” E infatti ricordavo la cassetta da pesca azzurra che lui aveva convertito in cassetta degli attrezzi, ricordo quanto si chiudeva male, ricordo la mancanza cronica di qualcosa che dovevi sempre andare a reperire in qualche altra parte della casa. Io con quegli attrezzi ci giocavo di solito perché ero piccolo, andavo nel mobilino all’ingresso, lo aprivo, e un odore di chiuso, ma buono, investiva le mie narici.
Mi ricordo poco di lui purtroppo, solo flash, come quando gli facevo vedere i miei giocattoli in cucina, o come quando d’estate passai una notte in quella casa, così, “per andare in vacanza in campagna” come dicevo io… Come se casa dei miei fosse stata in città, e soprattutto, come se fosse stata lontana da lì… Un chilometro forse. Ma era la sensazione particolare che mi faceva stare in un altro mondo quasi.
Al tempo non davo importanza a questi momenti, ma fissando quegli attrezzi, quelle chiavi inglesi, tutto era riaffiorato vivido.
Mi manca quella casa, ma soprattutto mi manca lui. E il bello, ma anche il problema di tutto, è che la vita, volenti o nolenti, va avanti.

sabato 12 maggio 2012

La Natura è la Chiesa di Satana



Quando non ci riesce a descrivere cosa ci fa paura, forse riusciamo a dire dove abbiamo paura. E' il bosco, sono quelle facce terribili e straziate che ci appaiono tra albero e albero, mentre il treno corre veloce.
“Eden” lo chiamano, ma di paradiso ha ben poco. Nel bosco il buio arriva presto, l'unico riparo sembra essere la vecchia baita di legno contornata dalle querce, ma non si deve entrare, si deve restare fuori, distendersi nell'erba, esserne parte, e attendere, in questo stato di sospensione, la paura. E quando essa arriva non è come te l'aspetti, non sei pronto ad accettarla, sebbene ti abbiano insegnato a padroneggiare le tue emozioni. E' fisica, ha la forma di una cerva che partorisce un cerbiatto morto, di una volpe che si nutre delle sue carni, di un albero morto dentro che non vedrà più altre primavere. Sei nella Natura, sguazzi nel suo regno, dove tutto pare essere fatto per morire senza ragione, come le ghiande che cadono incessanti sul tetto di legno della baita, come l'uccellino appena nato che si sporge troppo dal nido e cade, il suo corpicino dilaniato dalle formiche che sembravano attenderlo fameliche a terra. L'uccellino cade e muore così come è accaduto a tuo figlio, il cui pianto pare adesso riecheggiare in tutto il bosco, quasi a voler distruggere la tua mente già sull'orlo della follia. Non è tuo figlio che piange, sono le creature della Natura, è il loro urlo quello che senti, il pianto di tutte le cose che sono destinate a morire. Quando ti dicono che la Natura è la Chiesa di Satana rabbrividisci, la tua razionalità vacilla paurosamente, sembri quasi sul punto di crederci ma poi no, non può essere vero, sono solo favole, anche le ghiande non piangono, sono solo i tuoi pensieri che distorcono la realtà, certo non il contrario.
Il Caos pare regnare in quella piccola porzione di paradiso apparente, che si rivela essere solo la punta di una piramide in cui la follia pare crescere in maniera esponenziale, giorno dopo giorno, in cui vecchie storie di stregoneria e atroci delitti paiono uscire dai libri e scorrazzare selvagge tra le piante decadenti. La Natura, l'erba, le foglie, non sono loro quelle da temere, è la stessa Natura umana, l'indole dell'uomo, è lei il Male più grande e distruttore, che non muore mai, come quella maledetta cornacchia, sotterrata eppure sempre in grado di gracchiare con vigore.
L'epilogo può essere solo uno, e i Tre Mendicanti sveleranno ogni verità: al loro arrivo qualcuno dovrà morire, e la Morte, la follia, e la Natura, troveranno una nuova ragion d'essere.
Nuove band emergono dal sottobosco black metal che si è sviluppato, ormai da qualche anno, nella regione statunitense denominata “Cascadia”. Stavolta parliamo degli Addaura, ensemble di Seattle che si sta facendo largamente conoscere per merito del suo ultimo parto, “Burning For The Ancient”. Sebbene lo spettro dei WITTR aleggi abbastanza pesantemente nelle stanze musicali create da questi ragazzi, il risultato è ben sopra ogni più rosea aspettativa, evitando di incorrere nel difetto forse più grosso che possono avere tanti questi gruppi, la mancanza di originalità. I Nostri ci ammaliano con quattro lunghi pezzi di black metal veloce, dall'impianto fortemente sciamanico e rituale, in grado di ipnotizzare letteralmente l'ascoltatore circondandolo da spirali musicali che, per concezione, rimandano addirittura al post rock (quindi uno stesso riff di base ripetuto e accresciuto alla bisogna). Completa il tutto uno scream lancinante ma mai troppo disturbante e delle parentesi atmosferiche che stordiscono forse più della bufera sonora che le precede o le segue.
Come da consuetudine anche qui solo LP e cassette disponibili (forse un CD in futuro, chi può dirlo): questo però non deve bloccare la voglia di ascoltare questi ragazzi, soprattutto da parte di chi ha un debole per i Wolves In The Throne Room e per la scena nella quale si muovono (e che hanno di fatto contribuito a creare). Ritualistici e d'atmosfera, una gran bella sorpresa.

giovedì 3 maggio 2012

La farfalla di fumo



Non sentì la morte arrivare, ma solo un boato terrificante. Più forte di cento ruggiti di orso, tremendo come solo l'ira di un Dio sa essere, la valanga si mosse improvvisa dalle apparentemente lontane vette dei monti Sawatch, e in un attimo Leotie sentì tremare la terra sotto i suoi piedi. Cominciò a correre verso la valle, cercando affannatamente con i suoi occhi vispi un punto, una grotta, un nascondiglio sotto il quale ripararsi. Mentre correva nella sua mente, lucida e razionale nonostante i piedi affondassero implacabilmente nella neve e le rocce si stessero sgretolando dietro di lui, cominciarono piano piano a riaffacciarsi alcuni momenti della sua vita.
Incontrollabili, come la corrente del Grande Fiume che bagnava i boschi dimora della sua tribù, le immagini si affollarono dentro i suoi occhi, assieme a sensazioni, sapori e odori che credeva ormai dimenticati. Eccolo, da piccolo, mentre caccia i salmoni con il nonno, o mentre gioca alla guerra con suo fratello (che della guerra fu poi vittima, solo alcuni anni dopo); si rivede attorno al fuoco, seduto, riesce ancora a percepire il calore delle fiamme e l'odore della resina che esce dai tronchi mentre scoppiettano tra le fiamme danzanti. Calore che si trasforma poi improvvisamente in bruciore eppoi dolore, quello della ferita che gli aveva procurato, pochi anni prima, il terribile orso che aveva dovuto affrontare quando si era messo alla ricerca del suo Spirito Guida. La zampata del terribile animale aveva lasciato un segno sul suo braccio, una cicatrice che tutt'ora, nonostante cinque anni fossero ormai passati, gli provocava un dolore ormai fraterno, al cambio della stagione. Eppure quel dolore gli aveva permesso di entrare in perfetta sintonia con se stesso e con ciò che lo circondava, gli aveva permesso di materializzare il tutto nella forma di un animale, la Farfalla, che, si diceva, lo avrebbe protetto a lungo. Ricorda il suo scetticismo iniziale quando comprese quale sarebbe stato il suo Totem: la Farfalla è gracile, ha vita breve, è un animale minore, si diceva... Ma ora aveva capito tutto: di vita breve certo (di fatto anche Leotie aveva solo 20 anni), votata però alla continua trasformazione, alla trascendenza, a qualcosa di più al quale ben pochi altri Spiriti potevano aspirare.
Una volta compreso questo rallentò la corsa e si voltò verso la valanga, la quale ormai era solo a poche centinaia di metri da lui. Si guardò intorno, solo sparuti stecchi emergevano dalla bianca coltre di neve a terra, e la valle era ancora molto lontana. Chiuse gli occhi, le braccia aperte, un respiro lungo: come detto, non sentì la morte arrivare, ma solo un abissale boato.
Lo sciamano quella sera si sedette vicino al fuoco, con la tribù disposta tutto intorno alle fiamme. Lacrime erano state versate, e tutt'ora le guance di molte persone, di tutte le età, continuavano a essere solcate da caldi rivoli. L'anziano prese da una sacchetta di pelle una manciata di polvere (solo lui ne conosceva la natura) e la gettò sul fuoco. Dalla punta della fiamma più alta si alzò un filo di fumo, la cui sagoma, modificata da un alito di Vento dell'Est, prese le fattezze di una farfalla. Fu un attimo e tutto scomparve, un attimo che portò però un dolce e consolatorio sorriso sulla bocca della tribù affranta.

This has become the weight of all
This is the precipice, the breaking of the spirit
This is the weight of fate
Carried into the ocean of chaos
 In the waning light we bloom
 In the bitterness of mourning
 We release this pain
 Safe passage to you, our friend
 Though were you've wandered we cannot follow
 When the spring rises you shall be reborn.

Originari dello Stato di Washington gli Alda sono l'ennesima band appartenente al cosìddetto "Cascadian Black Metal", genere, se così possiamo definirlo, che deve i suoi natali, volenti o nolenti, ai Wolves In The Throne Room, ma che schiera tra le sue file band dall'indubbio talento. E gli Alda, con questo ":Tahoma:", vi rientrano egregiamente, prendendo anzi a spallate altri gruppi caratterizzati da poca consistenza e originalità. I Nostri svolgono un lavoro impeccabile nell'intessere armonie folk delicate e dall'odore di legno bruciato, armonie che si ramificano e si fondono in sfuriate e scream tipicamente black, feroci ma in un certo modo poetiche e toccanti. Un po' come hanno fatto gli Agalloch con "Pale Folklore" (e con i brani prima di esso) gli Alda sanno toccare l'ascoltatore e coinvolgerlo nelle loro storie sebbene usino uno "strumento" come il black metal, solo apparentemente ostico, freddo e impenetrabile (ma che tanti gruppi statunitensi ci stanno dimostrando essere tra i più utili se unito a determinate tematiche).
Senza dubbio un nome da tenere d'occhio, per quanto mi riguarda un disco da avere (per ora è presente solo la versione in cassetta e in vinile, ma pare essere in cantiere una nel più comune formato CD).