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mercoledì 19 dicembre 2012

2012: a (metal) retrospective

Continuo la tradizione inaugurata l'anno scorso, stavolta con qualche giorno di anticipo rispetto al post passato (il 21/12/12 è alle porte, meglio non lasciare nulla di incompiuto!), per elencare qui di seguito quelli che sono stati i dischi che più mi hanno colpito in questo anno ormai quasi finito.
Come al solito aggiornerò la lista anche nell'anno prossimo (per quanto riuscirò a ricordarmene!) se troverò lavori del 2012 degni di essere ricordati.

Alda - "Tahoma"
Questo album a dirla tutta apparterrebbe al 2011, ma sono entrato in possesso della copia in CD solo nel 2012 (prima era presente solo in vinile), e quindi lo valuto come uscita dell'anno quasi terminato.
Un black metal che appartiene in tutto e per tutto al filone "Cascadian" (ne ho ascoltati a palate di album di questo genere in questo anno!), quindi fatto di feroci accelerazioni, pause panteistiche venate da folk e momenti di riflessione, il tutto confezionato sapientemente e in grado di suonare fresco e convincente sin dal primo ascolto. Un must have del genere, senza ombra di dubbio!
 

Devil Sold His Soul - "Empire Of Light"
Conoscevo gli inglesi come semplice band metalcore, ma i miei erano solo pregiudizi, e questo lavoro me lo ha confermato. Siamo di fronte a un bellissimo disco di (quasi) post metal: background e ruvidezza HC, dolcezza e progressioni del post rock, unite a un tocco un po' melenso che fa tanto emo, ma che convince appieno!


Addaura - "Burning For The Ancient"
L'altra parte degli Alda! Questo è quello che ho pensato ascoltando questi Addaura: stesso genere di riferimento, ma diverso impatto (più selvaggio) sull'ascoltatore, eppure stesso coinvolgente risultato! Raffrontate il duo Alda - Addaura con quello Agalloch - Wolves In The Throne Room, non potrete non sentirli in qualche modo collegati!

Oak Pantheon - "From A Whisper"
Ennesimo interessante disco "cascadiano" (lo avevo detto no che ne ho ascoltato a palate in questo 2012 di questo genere?!) gli Oak Pantheon suonano alla prima un po' troppo "agallochiani", soprattutto nell'uso che fanno dello scream "sospirato" (che ascolta gli Agalloch sa di cosa sto parlando) e nei rimandi al folk apocalittico americano... Occorrono almeno due o tre ascolti per capire le potenzialità dei Nostri e godere appieno della loro musica, che va molto oltre all'essere una mera copia di qualche altro gruppo più rinomato!
 
 
The Elijah - "I Loved I Hated I Destroyd I Created"
Che emozioni! Questo gruppo è stato un vero tuffo al cuore, una rivelazione per me... Postcore raffinato, con molta atmosfera, molto post rock, molta "sofferenza" alla Thursday quasi, sontuosi crescendi e deflagranti esplosioni cariche di pathos, davvero intensissimi!


Abigail Williams - "Becoming"
Uscito nel freddo gennaio 2012, ricordo che questo disco fece da colonna sonora per i miei viaggi in macchina tra la neve (detta così pare che abiti nel profondo nord Europa, in realtà nella mia zona nevicò piuttosto copiosamente in quel periodo!). Gli Abigail Williams facevano metalcore, almeno all'inizio: che poi mettessero qui e là influenze ora del black, ora del death, è indubbio, ma il filone rimaneva comunque sempre quello, e la qualità dei loro lavori era nella media. "Becoming" cambia marcia invece, portandoci una band che, forse ruffianamente, si getta a capofitto nel lussureggiante mare cascadiano, per uscirne con un piccolo gioiello freddo e disperato. Notevole davvero.


Per il momento è tutto, buon 2013!




martedì 18 dicembre 2012

Urbana follia

Camminava per il parco, in una giornata di sole come tante altre si stavano avvicendando in quell'inizio di inverno così stranamente mite. A riempire l'aria c'era solo il suono dei suoi passi sui ciottoli, le grida di qualche bambino che giocava in lontananza, e il vento, il cui soffio sibilava a folate tra i rami quasi senza foglie degli alberi ai lati della strada. A dirla tutta si sentiva un po' strano, ma leggero, senza grossi pensieri, quindi tutto sommato, perché no, stava bene. Eppure sentiva una sorta di blocco nel cervello, come quello che si prova quando si prova a pensare a cose infinite o che vanno oltre la nostra comprensione... Che so, come quando ti metti a pensare a un deja vu, e di colpo tutto quello che stai facendo dal momento in cui hai iniziato a fare quei pensieri ti suona familiare, rivisto, e ti prende una sorta di dolce panico la cui unica via di uscita è la fuga da quello strano loop. Insomma, provava quella strana sensazione, che lo portava a ripetere nella sua mente una sola, unica frase, le cui parole, a forza di ripeterle, si erano fuse tra loro, ed avevano impastato la sua bocca. Sentì una folata di vento investirlo, e di colpo si bloccò: quella frase che aveva ripetuto allo sfinimento nella sua testa, adesso la stava pronunciando, come una nenia senza fine. E il bello è che si rendeva conto di questa cosa, ma non riusciva (e non voleva) fare nulla per smettere. Alzò lo sguardo: il parco era ormai terminato, e si era già immesso nella via principale. I suoi occhi salirono lungo il palazzo che si trovava di fronte a lui, su su fino all'ultimo piano, e si scontrarono con la forte luce del sole che parzialmente gli bruciava gli occhi. Vide poi delle strane sagome in aria: braccia aperte, gambe distese, che fluttuavano. "Angeli", pensò, ma non ebbe tempo di terminare questo pensiero che uno di questi "angeli" si schiantò ai suoi piedi, poi un altro, e un altro ancora. Lui non lo capiva, ma gli abitanti di un intero palazzo si stavano buttando giù dal tetto: uno dopo l'altro, in fila come automi, facevano un passo e si gettavano nel vuoto, verso il freddo marciapiede. Si era di nuovo impalato di fronte a questo raccapricciante spettacolo, ma il suo volto non era attraversato da alcuna emozione, solo la sua bocca continuava, imperterrita, a sbiascicare quelle parole senza senso. Poi uno sparo: un agente di polizia, lì vicino, anche lui impalato e quasi lobotomizzato, si era sparato un colpo alla tempia. Lui si diresse verso il cadavere, raccolse la pistola, e come se stesse facendo la cosa più immediata e consueta del mondo, tirò il grilletto. Una nuova pioggia di persone ovattò il suono del proiettile che trapassava il suo cervello, mentre il vento, che fino ad allora aveva soffiato non forte, ma con insistenza, si bloccò di colpo, e tornò il silenzio sulla strada.
"Time" è il suono della follia, dell'alienazione urbana, della depressione. L'abisso disperato in cui gli americani Manetheren cercano di gettare i propri ascoltatori con la loro ultima fatica ha i connotanti delle città descritte dagli Amesoeurs, è pazzia descritta dai Lifelover e messa in musica seguendo le impronte di maestri di un certo black americano come Weakling o Wolves In The Throne Room. Solo che qui non c'è esaltazione della natura e unione panica con essa: c'è smarrimento sì, ma senso di impotenza, abbandono e freddo, ci sono questi sei bisturi che, uno dopo l'altro, isolando il tuo cervello dal resto del mondo ti lasciano lì, impietrito, a contemplare la nuda realtà delle cose. Arrivato alla fine di questa lunga (più di settanta minuti) maratona fatta di accelerazioni black, digressioni post rock e momenti più intimi, si può rinascere in due modi: o cinici, spietati e senza cuore, o mossi da una rinnovata sensibilità, che permetterà di vedere con nuovi e più acuti occhi il mondo che circonda.

domenica 2 dicembre 2012

La Scatola del Natale



Scese in garage, e rovistando la sua attenzione cadde su una scatola che ben conosceva. Era andato in garage per cercare delle decorazioni di Natale un po' particolari, ma non si aspettava certo di ritrovare quelle che aveva comprato lui stesso, alcuni anni prima, per addobbare l'albero della sua casa, quando viveva da solo.
Aperta la scatola (che riportava sopra una scritta, a dirla tutta poco fantasiosa, “Scatola del Natale”), di cartone massiccio, alzò delicatamente i festoni color oro, verde e rosso che sbucarono fuori, come quei pupazzi caricati a molla nascosti dentro quelle scatolette sorpresa. I festoni frusciarono al suo tocco, prese tra un dito e l'altro i vari filamenti che li componevano, e scuotendoli si alzò da essi un po' di polvere, che poi scoprì essere farina, la farina che lui era solito utilizzare a mo' di neve. Scostati i festoni ecco tutte le palline: sembrava quasi di avere tra le mani una grande scatola di caramelle e cioccolatini assortiti, ognuno con un incarto diverso, brillante e seducente. Si sedette sul pavimento freddo del garage, svuotò le palline in terra e decise di perdere un po' di tempo a suddividerle... E una volta fatta la suddivisione si alzò in piedi, e guardando quei mucchietti sbrilluccicanti subito riemersero chiari nella sua mente gli alberi che aveva fatto negli anni passati, usando quel materiale. Erano alberi cicciotti, ricchi e abbondanti nelle decorazioni, ma mai pacchiani o troppo sfarzosi. Bilanciava sempre l'oro con il rosso: un tot di palline rosse e un tot dorate, due festoni d'oro e due rossi, questa era la regola, la base sulla quale poi si sviluppava l'intera opera. C'erano poi palline blu e verdi, entrambe con striature argentee: le aveva usate per un solo Natale, prima di cambiare casa, ma gli piacevano, erano una nota piacevolmente disturbante che destabilizzava l'ordine rosso dorato. Infine, le sue preferite, quelle palline che lui amava definire “uniche”, che non avevano nulla a che vedere con quelle acquistate in serie, a gruppi di dieci o venti, ma erano esemplari singoli e particolari. Prendendole in mano, una ad una, si ricordò come avevano fatto a finire in casa sua: quella che gli era stata regalata, quella che si portava dietro sempre, sin da quando era piccolo, quella con quei colori particolari che tanto amava, quella che si era rotta e che lui aveva rincollato chissà quante volte. Eppoi le lucine, due tipi soltanto (perché di più erano davvero pacchiane), che amava accendere tenendo la luce di casa spenta: le uniche fonti di luce, a notte, dovevano essere quelle e il fuoco che vibrava nella stufa.
La vista delle palline suscitò in lui la stessa emozione che provava ogni volta che saliva in soffitta a casa dei suoi, e si imbatteva nei giocattoli della sua infanzia: passavano i quarti d'ora e lui non se ne accorgeva nemmeno, tanto era il tempo che spendeva riprendendo in mano quei suoi vecchi compagni d'infanzia. Calore quindi, e contemporaneamente freddo, come quando sei in una casa che ben conosci perché magari ci hai passato una vita (e i tupi ricordi sembrano vivere ancora lì), ma è vuota e fredda, senza più nessuno ad abitarla.
Chiuse quindi la scatola, rimettendo tutto come l'aveva trovato, e come si fa con le cose preziose mise idealmente quei ricordi che gli erano tornati in mente nello scrigno più sicuro della sua memoria, con l'augurio che tale immagini non lo abbandonassero mai. Si voltò poi, e se ne andò dal garage: il buio cadde nuovamente sulla “Scatola del Natale”.