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lunedì 31 agosto 2015

Supertramp


“Al diavolo voi, il vostro benessere, il vostro conformismo! Al diavolo le vostre maschere e la vostra falsità, non è così che voglio vivere!” gli ho detto, e me ne sono andato sbattendo la porta.
E cosa hai fatto poi Chris?
“Ho seguito il mio sogno, l'Alaska, ho viaggiato per chilometri e chilometri cercando di raggiungerla... Perché se davvero vuoi una cosa devi solo allungare la mano e prenderla! Questo mondo, questa società in cui viviamo, siamo tutti bestie strane, più abbiamo e più vogliamo, e io avevo tanto, ma ho deciso di buttare via tutto cercando qualcosa che mi riempisse cuore, polmoni e spirito, e mi regalasse un ricordo indelebile.”
Ma come hai fatto a viaggiare, senza soldi...
“Ah, i soldi, li ho bruciati dopo poche centinaia di chilometri, nel deserto del Mojave... Li ho lasciati lì assieme alla carcassa della mia fida Datsun, e mi sono incamminato, e ho fatto autostop, e ho dormito all'aperto... Ho conosciuto tante persone, alcune pazze scatenate, alcune sole seppur in compagnia... Mi sono quasi innamorato figurati, e ho perfino trovato una persona che avrei voluto chiamare padre, ma non mi sono mai fermato, non era quello che volevo... E ogni notte che mi trovavo a dormire in una casa pensavo che non era quello il soffitto che volevo per i miei sogni, era sì un passo avanti rispetto alla città dove sono nato e cresciuto, ma ancora ero lontano dal traguardo.”
E alla fine sei arrivato in Alaska?
“Oh sì che ci sono arrivato, e Dio solo sa come mi sono sentito! La felicità, quella vera, il cuore che esplode perché non riesce a contenere tutte quelle meraviglie, la comunione perfetta con la Natura, con gli animali, in un posto dove cielo e terra si abbracciano... Ero libero, ero anche solo sì, le notti erano lunghe e solitarie, ma avevo i miei libri, avevo il mio rifugio (avresti dovuto vederlo il Magic Bus, come lo chiamavo io, quel rottame di bus che mi ha accolto per notti e settimane intere!).
E quindi come è andata, sei rimasto lì?
“Beh alla fine non è andata come speravo... Ho scoperto che la troppa felicità uccide se non la si condivide, ho capito che forse avevo osato troppo, mi sono fregato con le mie mani diciamo, ho gettato al vento l'unica possibilità che avevo di nutrirmi durante un freddo inverno e mi sono praticamente condannato a morte mangiando delle piante velenose. Che io sia maledetto! Le avrò viste mille volte, come avrò fatto a sbagliarmi, se ancora ci penso mi mangio le mani...”
Ma adesso dove sei Chris?
“Ah sempre lì, nel bus! Sdraiato in terra, avvolto in un giaccone ormai grande il triplo della mia stazza, morto soffocato! Supertramp fino alla fine, ho deciso di morire con il sorriso sulle labbra, e diavolo se ci sono riuscito, anche se a quei poveri cacciatori che mi hanno trovato è sembrato più un ghigno... Oh ma sono stato bene eh, ho fatto quello che volevo, ho vissuto come volevo... Ora però scusami ma devo scappare, c'è ancora tanto da esplorare qui intorno... Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore. Addio e che Dio vi benedica!”
Figli naturali del Cascadian Black Metal, i canadesi Harrow (da Victoria, British Columbia) incarnano alla perfezione il prototipo ideale di musica che un gruppo che vuole etichettarsi come “cascadiano” (che cosa brutta ho scritto!) deve suonare. A dirla tutta definiscono il loro sound come “Atavistic Metal” ma non aggiungerei altre etichette bizzarre, anche se in effetti hanno davvero la capacità di connettere l'ascoltatore con mondi antichi dominati dalla Natura, luoghi in cui l'uomo era ancora una controfigura in uno spettacolo nel quale gli attori principali erano i miti, le leggende, gli animali, le stagioni ed il tempo.
Da un punto di vista musicale c'è poco da dire: chi ama il genere andrà letteralmente in un brodo di giuggiole. Trasportati dalla voce e dalle superbe linee chitarrristiche di Ian non si fa fatica a farsi ipnotizzare da questi quattro lunghi pezzi, nei quali ancestrali trame acustiche si intrecciano con feroci assalti black, pur sempre guidati da una melodia di fondo che rende il tutto estremamente fruibile e godibile, anche per chi magari non è avvezzo al black metal. Come ho poi avuto modo di dire anche in occasione dell'ultima uscita degli Alda, il post rock si dimostra ormai una base indispensabile nella costruzione di questi pezzi, se è vero che la parte da leone la costituiscono i vari climax emotivi che animano ogni singolo pezzo.
Questo “Fallow Fields” va preso a scatola chiusa, senza pensarci due volte: assieme a “Passage” degli Alda costituisce una splendida gemma di Cascadian Black Metal, a tratti superando addirittura iin pathos i “maestri” del genere. Non c'è altro da dire, bisogna solo correre ed immergersi al più presto in questa musica maestosa e sciamanica.

Fallow Fields

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domenica 30 agosto 2015

Trapassi


Entrò dalla finestra e si posò sulla sponda del letto: era notte e nessuno la vide o sentì entrare, ma di fatto non c'erano poi molte persone in giro. Tese il capo verso la porta e sentì solo il russare della persona che dormiva nella stanza vicina, i grilli in giardino e il respiro lento, affannoso, che spesso cedeva il passo ad una lugubre apnea, della donna, distesa immobile sul letto.
Da secoli aveva svolto quel compito, e stasera sulla carta non avrebbe dovuto fare differenza, eppure c'era qualcosa di strano, provava compassione per quella personcina, logorata da un male tremendo che la mangiava da dentro; percepiva ancora attorno al suo letto il calore delle lacrime dei familiari che si erano avvicendati nel corso dei giorni per salutarla, e decise di attendere ancora un po' prima di portarla con sé. Dal capezzale volò su una trave al di sopra del letto, in un angolino buio, e lì si rannicchiò e attese la venuta del giorno.
Il sole non tardò ad arrivare e con esso i primi familiari, che iniziavano il solito incessante stanco e triste viavai: lei li guardava, uno dopo l'altro, vedeva nei loro cuori, percepiva le loro storie, sentiva le loro intenzioni e capiva subito se erano sincere oppure no. C'era il marito, desolato e vinto dalla tristezza, i fratelli e sorelle della malata, che cercavano di mascherare al meglio, secondo il loro carattere, la tristezza che li lancinava; c'erano i suoi nipoti accompagnati dai rispettivi
 compagni (mariti e mogli), e tutti, anche chi non era parente stretto ma che era comunque parte di quell'abbraccio immaginario di persone, tutti soffrivano a modo loro, tutti vedendola ansimare e cercare aria ripensavano ai momenti che avevano condiviso.
La civetta attese un po', poi sentì che il tempo stava scivolando dalle dita della donna, dita sempre più fredde per via di una morte sempre più pressante: il volto si faceva ogni minuto più scavato, l'apnea sempre più prolungata, il battito del cuore sempre più flebile. Nel momento in cui il sole era più alto, forse per lei il momento peggiore visto che a quell'ora normalmente se ne stava ben rintanata nel fitto del bosco, sfruttò uno dei rari attimi in cui la donna era stata lasciata  sola per scendere dalla sua trave e volarle vicino al volto, abbastanza vicino da toccarla con le sue piume. In quell'attimo il respiro dell'allettata si fece profondo, e poi il nulla la avvolse: ma l'anima, quella no, quella era ben salda e impressa negli occhi della traghettatrice alata, che volò veloce fuori dalla finestra e scomparve nel vicino bosco.
Il primo a rientrare fu il marito, che accortosi della dipartita della moglie, chiamò tutti i parenti, che piano piano fecero il loro ingresso nella camera per porre il loro ultimo saluto alle spoglie ormai fredde. Loro non lo sapevano ma tramite gli occhi scuri del pennuto che aveva salvato la sua anima la donna li stava guardando e ringraziando uno ad uno, anche solo per aver condiviso con lei gli ultimi attimi di una vita che avrebbe potuto essere più lunga, ma che le aveva dato gioie sufficienti ad andarsene con la pace nel cuore.
Sono passati più di quattro anni dall'ultimo lavoro degli americani Alda, quel “Tahoma” che, per chi segue le vicende della (ormai non più) nuova ondata di black targato USA, costituisce uno dei capisaldi del Cascadian Black Metal. Supportati da un'etichetta ben radicata nel suolo americano e ben calzante da un punto di vista etico e di pensiero, i Nostri si riafacciano sul mercato con “Passage”, un disco che prende spunto da alcuni momenti del suo predecessore per evolversi verso forme più riflessive e ragionate. “Tahoma” era ancestrale e feroce in certi momenti, mentre il nuovo lavoro, pur non rinunciando affatto al lato sanguigno e selvaggio del black, pone maggiormente in risalto i saliscendi emotivi che nel precedente lavoro costituivano invece il ponte tra una sezione più marcatamente “metal” ed una più folk. Mi viene quasi da dire che, nel modo di suonare, i nostri si siano spinti quasi ai confini del post rock (che comunque, a ben pensarci, costituisce da sempre a mio avviso una delle radici del black cascadiano), partendo da arpeggi acustici che si assommano, crescono, strabordano e deflagrano in riff elettrici dal coinvolgente piglio emozionale.
Tirando le somme, meglio o peggio di “Tahoma”? Pareggio, due facce della stessa medaglia, i punti deboli di un lavoro sono stati corretti dall'altro e viceversa. Va riconosciuto il gran cuore di questi ragazzi, che pur non stravolgendo nulla in un genere che ormai, seppur giovane, ha già detto molto della sua personalità, hanno saputo regalare ai loro fan e più in generale agli ascoltatori della scena un lavor intimo e notturno, ragionato, riflessivo e appagante, forse meno immediato del precedente, ma che saprà sicuramente regalare emozioni a chi saprà farlo suo.

The Clearcut

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