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mercoledì 23 dicembre 2015

Toys in the Attic

Ieri ho postato su Facebook un video di una pubblicità degli anni Novanta sui Cavalieri dello Zodiaco, nello specifico sui giocattoli creati sulla base del cartone: anche io li avevo da piccolo, e adoravo la serie.
In seguito a questo mio video è partita una conversazione con un mio amico, nella quale abbiamo rivangato i regali più significativi ricevuti nei Natali passati, quando eravamo piccoli... Food for thoughts per una mente nostalgica come la mia!
Subito mi sono tornate alla mente una serie di immagini legate a giocattoli e a festività passate a giocarci, e questo post vuole essere un elogio a tante cose perse fisicamente ma che, per fortuna, ti rimangono impresse nella mente e ti riscaldano il cuore e le ossa quando ci ripensi, come un vecchio film.

Virgo, Cavaliere d'oro dei Cavalieri dello Zodiaco

I giocattoli dei Cavalieri dello Zodiaco ti facevano girare sempre le scatole per montarli, con quelle armature pesantissime che non stavano mai insieme, e che non erano fatte per giocarci, era quasi meglio tenerli per esposizione, o se proprio ci volevi giocare montargli solo qualche pezzo. Virgo è stato il primo, ricordo che ci giocavo sempre disteso sulla moquette di camera dei miei, e il loro cassettone fungeva da Tempio e fortezza inattaccabile!

Il Samurai Bianco dei Cinque Samurai

Evoluzione del Samurai Rosso (che era il più figo) il Samurai Bianco fu a dire il vero un regalo della Befana... Lo preferivo ai Cavalieri dello Zodiaco per via dell'armatura di plastica che si fissava meglio e che permetteva più giochi e movimenti!

Il Camion dei Mask

Adoravo i Mask! Ne avevo molti a casa, ma il camion fu ovviamente la ciliegina sulla torta... Epiche battaglie tra quel mezzo e tutti gli altri giocattoli, ricordo che in quei pochi cm di giocattolo ci infilavo un monte di omini!

Commander, a.k.a. Optimus Prime, dei Transformers

Anche qui, giocattolo agognatissimo, c'è poco altro da dire, la soddisfazione nell'averlo fu enorme!

Il Castello di Mighty Max

Questo giocattolo ricordo mi coinvolse un casino... Anche in questo caso ci giocavo spesso in camera dei miei, stimolava tantissimo la fantasia e riuscivo a creare ogni volta avventure nuove!

Il Camper delle Micromachines

Anche qui, come sopra, ci avrò passato giornate intere a giocare con quella città in miniatura!

La Navicella degli Starcom

Ricordo che l'avevo vista al figlio della maestra dell'asilo, e la chiesi a Babbo Natale... Di questo giocattolo ho ricordi confusi perché ero discretamente piccolo, ma ripensandola ricordo distintamente il rumore che faceva quando alcuni suoi componenti si aprivano meccanicamente, quello zhzhzhzhzhzhzhzhzhzh che pareva non finire più, che ogni tanto si bloccava e che necessitava di una spintina mia per ripartire!

Il Sega Master System 2

A dire il vero avevo chiesto il Sega Mega Drive, ma mi sa che costava troppo ai tempi perché mi trovai sotto l'albero questa consolle. Inizialmente mi lasciò un po' di stucco e deluso, ma poi ricordo di averci trascorso ore infinite con quelle cassette, giocando anche con i miei genitori ad Alex Kid e facendomi tradurre i testi delle conversazioni dalla mia mamma, visto che non sapevo ancora l'inglese!

Percival, antesignano del robot Emilio

...e qui si chiude in bellezza! Lo ricordo come fosse oggi: mio nonno travestito da Babbo Natale con, letteralmente, una carretta di regali (tra cui questo) che passa davanti al cancello di casa mia, e i miei che mi dicono di fermarlo perché altrimenti sarebbe andato oltre... Io per paura lo lascio passare salvo poi rincorrerlo per fargli notare che si era dimenticato di me... Che spettacolo!
Il robot era mitico, alto poco meno di me, con il telecomando, ricordo che aveva un vassoio con il quale portare cose e dei comandi da impartirgli, splendido...

Pensando a tutte queste cose, e ripensando a come mi sentivo in quei momenti, mi tornano in mente i (pochi per fortuna) genitori che hanno già detto ai propri figli che Babbo Natale non esiste, togliendo loro praticamente tutta la magia di questa festa e rendendoli, sotto questo punto di vista, praticamente già adulti... E mi viene anche da pensare a quanto la qualità dei giocattoli sia peggiorata dagli anni Novanta ad oggi, o meglio, quanto sia cambiata sia per un maggiore apporto della tecnologia (di fatto magari oggi non vuoi un Transformer ma un IPad per giocare al gioco dei Transformers, per assurdo), sia per una riduzione della capacità di fantasticare nei bambini. Questo aspetto è probabilmente collegato all'altro: mancando l'imput "fisico" (il giocattolino) ti manca magari anche la voglia di crearci una storia dietro... Per dire, il tempio di Virgo che io mi costruivo con il cassettone dei miei, oggi non avrebbe senso, perché magari un bambino chiederebbe anche il giocattolo vero e proprio del tempio per dare al tutto un'idea più concreta e tangibile.
Non so, forse sono discorsi fatti da un eterno nostalgico, ma resto fermamente convinto del fatto che la mia infanzia sia stata arricchita immensamente dai vari giochi che ho ricevuto e dalla fantasia che ho messo in campo per giocarci, e sebbene sia stato effettivamente un po' viziato non mi sento viziato adesso, e credo di aver tratto solo il meglio da quei momenti, che tornano a galla quando meno te lo aspetti e che ti fanno affrontare le prossime feste con occhi più sereni e un cuore più predisposto alla felicità e alla gentilezza.

martedì 15 dicembre 2015

2015: a (metal) retrospective

Dicembre, come al solito è tempo di fermarsi un attimo e guardare cosa mi ha lasciato questo 2015 dal punto di vista musicale.
Va detto che l'anno che si sta per chiudere ha bilanciato perfettamente il 2014, annata un po' stitica e deludente, che mi aveva lasciato un po' l'amaro in bocca con un uscite sulla carta appetibili che si erano dimostrate alla fine un po' sciape. Il 2015, da parte sua, mi ha saputo regalare invece ottimi album, che vado a riportare qui di seguito, al solito senza particolare ordine.

Alda - "Passage"
Mi aspettavo molto da questo gruppo: ":Tahoma" è stato indubbiamente un fulmine a ciel sereno nell'allora nascente panorama del Cascadian BM, elevando gli Alda a nome di punta della scena. "Passage" è arrivato dopo lunga attesa, e seppur riproponendo una formula ormai largamente collaudata dai Nostri, ha saputo confermare quanto di buono ci si poteva aspettare da loro. A dire il vero ha confermato fin troppo: la sua attinenza al percorso degli Alda è se vogliamo anche il suo tallone di Achille, il disco non stupisce, e anche se sa stregare non ha la stessa forza di riproporsi del suo predecessore, rispetto al quale si piazza un gradino sotto. Ciò nonostante si sta parlando di un disco che tanti gruppi firmerebbero per poter suonare.



Anomalie - "Refugium"
Lavoro "scoperto" qualche settimana fa, che ha letteralmente lasciato il segno. Dietro gli Anomalie si cela uno dei membri degli Harakiri for the Sky, band che emerge chiaramente tra le note di questo lavoro, ma non solo; ben percepibili sono anche echi di Katatonia più melodici, Thranenkind, ultimi Nachtmystium... Siamo di fronte a un post black metal dal piglio malinconico ma allo stesso tempo titanico, un lavoro che scorre senza problemi per tutta la sua durata. Un difetto? Forse il cantato un po' monocorde, punto debole anche dei già citati Harakiri e Thranenkind, dal fare molto post HC, un latrato rabbioso che alla lunga può stufare magari, ma se si è abituati al genere o si amano i due gruppi sopra citati non costituirà di certo un ostacolo.



Dead to a Dying World - "Litany"
Signori, siamo forse di fronte al disco che maggiormente mi ha stregato. Gli americani hanno fatto qualcosa di magico con questo album, miscelando la ferocia dei Wolves in the Throne Room con il post rock finalmente post rock (e non una sua imitazione) ed aggiungendo momenti sciamanici à la Dead Can Dance. Nella ferocia ci sono momenti di luce catartica, come le bellissime parentesi in clean di The Hunt Eternal, un gioiello che mi ha riportato alla mente quanto fatto dai Light Bearer nel loro primo lavoro o dagli USA out of Vietnam. In mezzo a tutto questo un cantato feroce, un bellissimo scream black che sa diventare fiero e orgoglioso (mi ricorda tanto i Saor talvolta) e sa alternarsi ad un soave cantato femminile, accompagnati da momenti nei quali la fanno da padrone sezioni di archi a dir poco meravigliose. Forse la vera sorpresa dell'anno, un lavoro che non può stancare.



Deafheaven - "New Bermuda"
Capiamoci subito: non sono mai stato un grosso estimatore dei Deafheaven. Se "Roads of Judah" mi aveva inizialmente preso, calando però nel tempo, "Sunbather" mi era rimasto assolutamente insipido e confuso. Ma con "New Bermuda" i nostri fanno quello che non ti aspetti (o forse, che ti aspetti da un gruppo che sapevi sarebbe esploso "a modo" prima o poi), rimettendo insieme tutte le proprie radici musicali, dando loro un senso compiuto e creando un lavoro finalmente emotivo, affascinante e coinvolgente. Finalmente c'è la melodia del post rock, con i suoi crescendo maestosi, che ben si sposa con il black mai troppo spinto degli americani, ben supportato da un cantante in formissima, che per l'occasione sembra aver cambiato anche registro vocalico, affidandosi ad uno scream acerbo molto simile a quanto fatto dagli Abigail Williams in "The Becoming". Finalmente, come dicevo, tutto pare avere un senso, le canzoni hanno acquisito una forma, ti accolgono con suadenti riff, ti devastano con deflagrazioni black, per poi lasciarti inebetito. Un esempio? Ascoltate anche solo "Come Back"...
PS: il titolo della canzone nel video è sbagliato...



Downfall of Nur - "Umbras de Barbagia"
La nostrana Avantgarde ha tirato fuori dal cilindro una serie di album da novanta in questo 2015, roba in alcuni casi davvero notevole, e questo disco è un esempio.
One-man band a metà strada tra Argentina e Sardegna, il progetto si pone di rievocare i fasti della civiltà Nuragica proponendo un black atmosferico ed evocativo, reminiscente di Primordial e Saor. La facilità con la quale il lavoro sa emozionare e conquistare è incredibile, c'è poco da fare: mettetevi comodi e godetevi questo capolavoro.



Drawn into Descent - "Drawn into Descent"
Altro lavoro venuto fuori dal nulla che subito ho piazzato in questa lista. I belgi si rifanno molto al post black rarefatto e malinconico di scuola francese ed australiana, senza indugiare troppo sul loro aspetto sognante ma puntando su un incupimento dei suoni e su dei tempi dilatati, nei quali è possibile apprezzare l'ottimo lavoro svolto dalle chitarre e dalla voce, uno scream mai lagnoso ma toccante e molto emotivo. Nulla di nuovo sotto il sole se vogliamo dirla tutta, ma avercene di uscite così!


Harrow - "Fallow Fields"
Altro miracolo in casa Avantgarde: gli Harrow fanno Cascadian BM, ma che Cascadian! Mi piace definirli l'unione perfetta tra il misticismo sciamanico dei Fauna, la ferocia degli Addaura ed il senso della melodia e dell'emotività degli Alda. Chi conosce questi gruppi saprà sicuramente cosa aspettarsi, e credetemi non rimarrà tradito da quello che reputo essere uno tra i migliori lavori in campo Cascadian finora fatti.



Ashbringer - "Vacant"
I capolavori Avantgarde, atto III. Di nuovo USA, le coordinate non sono molto distante dal Cascadian, dalla ferocia dei WITTR e dal black bagnato di folk dei primi Agalloch e Gallowbraid, ma c'è anche altro nella musica del giovane Nick, mente dietro al gruppo, tante influenze riconducibili a vari altri filoni del black (e non solo) che non sono in grado di rintracciare, ma che tutte assieme creano qualcosa di magico. Il modo di fare musica di questo ragazzo, la maturità con la quale tesse trame melodiche, hanno davvero dell'incredibile, difficilmente troverete un debutto dotato di tale intensità (o meglio, se scorrete poco più su, la stessa Avantgarde ha prodotto anche i Downfall of Nur che, in quanto a debutto, non scherzano affatto!!!). Un solo difetto: la troppa carne al fuoco alle volte fa perdere di coesione al lavoro, soprattutto nella seconda parte, ma è un dettaglio minimo che scomparirà sicuramente nei prossimi dischi a firma Ashbringer.



Regarde les Hommes Tomber - "Exile"
Tornano i francesi con il loro secondo lavoro, e come accaduto con il debutto omonimo non fanno prigionieri, asfaltando letteralmente l'ascoltatore che si sottopone al loro disco.
I Nostri non cambiano di una virgola la loro proposta, cambiano semmai solo il cantante, che sposta ancor più l'ago della bilancia verso il black (dove nel debutto c'erano ancora reminiscenze di post hardcore), ma l'atmosfera da apocalisse incombente rimane la stessa. Ritmiche feroci e martellanti unite ad un senso di sconfitta e di disperazione rendono questo "Exile" un disco a mio avviso imprescindibile per gli amanti di sonorità apocalittiche e tese.




So Hideous - "Laurestine"
Disco strano questo dei So Hideous, stranamente rarefatto e inconsistente, seppure la materia che tratta sia tutt'altro che sognante. I Nostri suonano ancora un post black molto orchestrale, teatrale e disperato, ma stavolta hanno puntato ancor più sulle orchestrazioni, che accrescono la drammaticità del tutto.
Probabilmente unici nella loro proposta, gli americani hanno prodotto quello che forse è il loro lavoro meglio riuscito, una colonna sonora perfetta per tragedie shakesperiane o drammi holliwoodiani, o più semplicemente un immenso monolite di epica sofferenza e teatrale drammaticità (e sono da considerarsi complimenti!).



Enisum - "Arpitanian Lands"
Gli Enisum sono un gruppo piemontese che da ormai un paio di dischi a questa parte ha deciso di seguire la strada del Cascadian BM, trasportandolo però nelle Alpi nostrane. Il primo risultato di questa trasposizione è stato "Samoth Nara", ma il decisivo passo in avanti in termini qualitativi avviene a mio avviso con questo lavoro.
La formula è quella tipica degli Alda, quindi crescendo emotivi che uniscono parti acustiche a sferzate black, ma in questo disco i Nostri sono cresciuti, proponendo soluzioni più variegate sia nella voce (non più solo scream ma anche growl e voci femminili), nella lingua usata (siamo passati all'inglese), sia nella varietà dei momenti che si alternano in ogni canzone, ora meno prevedibili rispetto al precedente lavoro.
Tanto cuore e emotività in questo "Arpitanian Lands", bravi.



Ecco, credo sia tutto, ma non ci giurerei. La qualità media dei lavori da me ascoltati in questo 2015 è alta, non è stato facile citare i migliori, ma non escludo che da un giorno all'altro possa spuntare qualche altro lavoro che mi era inizialmente sfuggito, e che potrebbe meritarsi anche un posto in questa lista... Che anche già così mi sembra più che sufficiente per confermare che questa annata è stata davvero eccezionale!

Al prossimo anno!

venerdì 13 novembre 2015

A Dying World



La ragazza non vedeva gli occhi dell'uomo, coperti com'erano dall'obiettivo di vetro della macchina fotografica, e non percepiva i suoi tremori di passione, non riusciva a intravedere le gocce di sudore che gli colavano sulla fronte, coperta com'era dal telone nero dell'apparecchio. Eppure quell'uomo, quella sagoma scheletrica che la sua famiglia aveva contattato per le foto di rito, allorché l'età del suo ingresso in società si avvicinava, quell'uomo soffriva le pene dell'inferno ogni volta che la ragazza sorrideva alla macchina, ogni volta che si metteva in posa, ogni volta che tratteneva il fiato (complice quel bustino stretto) per risultare più bella in foto, come se ce ne fosse bisogno poi!
Quel giorno sembrò diverso però: dopo l'ultima foto la giovane sembrò sorridergli quasi, sembrava quasi essersi accorta che il battito del cuore di quella figura accelerava di colpo a ogni suo battito di ciglia, gli sembrò più vicina insomma. Salutata la ragazza ed i genitori, l'uomo uscì di casa loro quando la luce dei lampioni ad olio era già accesa da qualche ora, e nelle strade della città le persone eleganti e rispettabili stavano inavvertitamente dandosi il cambio con la popolazione meno appariscente ma senza dubbio più numerosa, i pezzenti, i mendicanti, le prostitute. L'uomo fece qualche passo salvo poi bloccarsi perché una voce lo aveva chiamato: "aspetta!" aveva urlato la ragazza, e quando si voltò la vide corrergli incontro, ma fu un'idea egoistica e da sognatore la sua. La ragazza lo urtò e gli passò oltre, per abbracciare un giovane che stava camminando nel senso opposto: il suo ragazzo, bello, elegante, con un vestito lungo, stava andando a trovarla, e lui, povero scheletro ambulante, era solo un ostacolo tra i due, un'ombra neppure notata.
Sconfitto, affranto, si ritirò a casa, nella sua camera oscura, dove sviluppò le foto fatte. La più bella se la tenne stretta al cuore, la portò in uno stanzino, accese un lumino e subito prese colore un altare interamente cosparso di foto della giovane, fiocchi per capelli, boccette di profumo quasi finite, fazzoletti... La venerava come una dea, sperando che un giorno lei si sarebbe accorta di lui, ma quel giorno non sarebbe mai arrivato, ormai ne aveva avuto la certezza.
Con un colpo deciso del treppiede della macchina fotografica, poggiato lì vicino, distrusse tutto quell'altarino; colpì il lumino a gas e dette fuoco alle foto e ai vari cimeli, poi afferrò un pezzo di vetro e con un colpo secco si recise un polso: che senso aveva vivere ormai? Colmo com'era di rabbia non gli venne però in mente di affidare le sue ultime parole ad un dio, ma maledisse con tutto se stesso la ragazza, la sua bellezza e il suo cuore.
La casupola ci mise poco a bruciare, ma le guardie furono sorprese del fatto che, a rogo spento, non fosse stato rinvenuto alcun resto. Non fu invece sorpresa la ragazza, che anzi non vedendo il fotografo varcare la soglia di casa sua come di consueto avvisò i genitori di cercarne un altro, visto che la festa per il suo ingresso in società si avvicinava e dovevano essere fatte le pubblicazioni.
Era seduta di fronte al suo specchio e si spazzolava i capelli, e assorta com'era dalla vacuità dei suoi pensieri nemmeno si accorse di un'ombra che era sinistramente caduta sopra di lei: quando sentì il freddo del coltello che le lacerava la gola fu tardi, e solo mentre perdeva per sempre i sensi intravide quell'ombra, che le ricordava qualcuno che aveva incrociato forse una volta nella sua vita, qualcuno di scheletrico, magro, terribilmente insignificante.

Non ricordo nemmeno come mi sono imbattuto nei Dead to a Dying World, ma è stato un incontro davvero fortunato. In un autunno in cui sembrava sembravo non trovare soddisfazione particolare in nessun ascolto, in un momento in cui le uscite che attendevo con più ansia alla fine mi lasciavano l'amaro in bocca (salvo rari casi), in un momento di stasi insomma spuntano questi texani a sconvolgermi la giornata. Capire cosa ci offrono è complicato: il loro suono è ondivago, fatto dall'urgenza tipica del crust e del post hardcore unita alla furia del black che si spinge però molto spesso in cavalcate epiche dall'ampio respiro tipiche del post metal/post rock, che si infrangono in rallentamenti doom per poi crescere nuovamente di intensità. Voci pulite (poche, ma quando ci sono fanno letteralmente venire i brividi), scream e growl si alternano al cantato, in un pandemonio sonoro veramente coinvolgente. Qualche gruppo di riferimento? Vi cito direttamente l'etichetta, Alerta Anrtifascista Records: traete da soli le conclusioni, sappiate solo che i Nostri rientrano perfettamente nei canoni tipici del roster di questa label. C'è poi, udite udite, qualche influsso wave: nei momenti di calma potreste sentirci anche l'eco dei Dead Can Dance.
"Litany" è pervaso da un senso di epica disperazione, di rovina, di apocalissi imminente, c'è una rabbia che si contorce su se stessa, che vede la luce solo per qualche attimo salvo poi ripiombare nella disperazione cupa. Non c'è la natura deificata dei cascadiani, il loro senso rituale e catartico (anche se quella batteria nei momenti in cui pare "rotolare" con quel suono tipicamente "Cult of Luna" è molto ipnotica); manca il degrado urbano e postpunk di molti gruppi post black, così come manca la tristezza e la malinconia fine a se stessa. Qui come detto è la disperazione titanica a farla da padrone, un senso di perdita che ho percepito forse solo con i Dying Sun.
Insomma, ascoltatelo e capirete da soli cosa non riesco a dire a parole: un ascolto anche della sola "The Hunt Eternal" e tutto vi sarà chiaro.
Da provare!

Eventide

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mercoledì 21 ottobre 2015

Aikido, la tua ragazza


Iniziare a ripraticare Aikido dopo circa due anni di lontananza è stato ed è tutt'ora impresa assai dura.
Non mi sono mai considerato un eccelso aikidoka (in linea generale non mi sono mai sentito realmente portato in niente nella vita, ma questo è un altro discorso), ma riuscivo comunque a cavarmela piuttosto bene in molti aspetti. L'Aikido, l'ho sempre detto, è come la tua ragazza: quando ho praticato altro (perché impossibilitato a seguirlo, in seguito ad un infortunio) non mi sentivo a mio agio, mi mancava sempre qualcosa, c'era affetto e attenzione verso quello che facevo, questo sì, ma mancava quella scintilla, quell'amore che solo l'Aikido aveva saputo darmi. Logico che, quando ho avuto la possibilità di ricominciare (perché mi sentivo a posto fisicamente), non me la sono lasciata sfuggire.
E' passato un mese e qualcosa dal mio inizio, ma ancora fatico a ritrovare il ritmo: vero, tante cose sono cambiate, quanto insegnato adesso è diverso in buona misura da quanto sapevo fare io, eppure fatico in maniera esagerata, e ciò porta demotivazione, stress, incazzature, alternate da qualche sporadica soddisfazione.
Ma a ben pensarci anche questo può accadere con la tua ragazza: a volte non la capisci, ha reazioni che non prevedi, è volubile, ti fa innervosire e ti fa pensare "ma chi me lo ha fatto fare"... Alle volte invidi chi è più felice di te (o capace, fuor di metafora), invidi chi è più avanti di te nella relazione e sembra aver capito tutto, lo invidi anche perché vivi con il rimorso di esserti dovuto fermare ed aver perso tempo prezioso, mentre gli altri sono andati avanti lasciandoti indietro. Ma continui ad amarlo, c'è poco da fare, perché anche quando si litiga, anche quando non ci si capisce, anche quando uno va da una parte e uno dall'altra, anche in questi momentacci ci sono sempre piccole scintille di soddisfazione che ti fanno sperare che forse le cose potranno cambiare, e che potrete tornare a stare bene come un tempo.
L'Aikido è donna, ne sono convinto, e come si sa devi farti coinvolgere ed abbracciare, accettarlo no matter what, conscio che è la donna giusta per te, e che non ci sarà altro che saprà darti le stesse soddisfazioni... Almeno lo speri. 

giovedì 24 settembre 2015

Untitled



Era l'ultimo giorno d'estate, una giornata strana, fredda: il ragazzo, spettinato e con il rossetto sbavato sulle labbra, se ne stava seduto su un muretto nel suo giardino, un luogo che lui aveva sempre amato considerare come fuori dal mondo, uno spazio appartato, sospeso quasi, tutto suo. In questo "non-luogo" gli uccelli erano soliti cantare, appollaiati sui loro alberi, ed i loro richiami erano quasi una ninnananna, se ti mettevi tranquillo ad ascoltarli riuscivi quasi ad addormentarti.
Ma, come detto, quella giornata era strana: gli uccelli non cantavano, anzi proprio non ve ne era traccia, ma il giovane non se ne era neppure reso conto, assorto com'era nei suoi pensieri. Stringeva in mano delle fotografie, scatti sbiaditi e sfocati nei quali erano sempre ben distinguibili due persone, lui e quella che sicuramente era la sua ragazza, o comunque una ragazza importante per lui. In una foto erano stretti l'uno all'altra, vicini, felici, i corpi così uniti da sembrare quasi gemelli siamesi... In un'altra la vedevi correre in un vasto prato, quasi una pianura... Il giovane le sfogliava con uno sguardo tra il perso e il malinconico, provava una sensazione strana, come quella che si sente quando si ha nostalgia di casa... Ecco, quella ragazza era quasi una casa per lui, un riparo sicuro in momenti duri: lei lo aveva visto in crisi, lo aveva visto cadere e lo aveva rialzato, avevano attraversato assieme parentesi buie, nelle quali sembravano non riuscire mai a riemergere da un mare fatto di scure acque profondissime, ma ce l'avevano sempre fatta.
Poi un giorno, ad una festa, lei prese la sua mano e gli chiese di ballare: non l'aveva mai fatto, a dirla tutta lui era quasi convinto che non le piacesse ballare, e quella richiesta lo turbò un po' anche se accettò subito. Erano vicini, si facevano cullare dalla musica, ma lo sguardo di lei era triste, non c'era più quella luce familiare che l'aveva animata durante tutti gli anni passati. I suoi occhi erano spenti, comunicavano in silenzio, urlavano una tristezza con il rumore più forte che lui avesse mai potuto sentire, erano disturbanti quasi, e non ce la faceva a sostenerne il peso. Quella danza lenta durò poco ma sembrava estendersi per almeno cento anni, e quando si lasciarono provò un brivido di freddo, lo stesso freddo che a tratti provava anche in quella giornata di fine estate, seduto sul muricciolo nel giardino sospeso. Quando le loro mani si separarono pensò "questo è il primo ballo che facciamo, ma non ce ne saranno altri, sarà l'ultimo ballo"... E che strano che le note sulle quali si stavano muovendo fossero quelle di una canzone d'amore...
Di tanto in tanto il ragazzo scuoteva la testa, come a voler liberare gli occhi dall'immagine di lei... "E se la rivedessi...", pensava... "Se solo potessi di nuovo riabbracciarla...", sospirava... Ma poi scuoteva la testa come a volersi convincere che non potevano esserci più "se" ormai, quella era la realtà, e in quella avrebbe dovuto vivere; doveva smettere di guardare quelle foto che stringeva in mano altrimenti quella carta, quei ricordi, si sarebbero presto tramutati negli unici sentimenti che avrebbe potuto avere, e il freddo di quella giornata avrebbe preso posto nel suo cuore. Sentiva il suo animo a pezzi, disintegrato, ma quella sofferenza doveva cessare in un modo o nell'altro, doveva essere ridotta a qualcosa di breve durata, a breve termine, non voleva trovarsi tra vent'anni, trentanovenne, ancora in quello stato. Allungò una mano verso un cespuglio di rose, la infilò dentro con forza: voleva vedere se riusciva ancora a sentire almeno il dolore fisico, come diceva il buon Cash... Quando la tolse era tutta rigata di sangue, e qualche goccia era rimasta sui petali. "Fiori di sangue" pensò, "come il disco dei Cure...". Bene, almeno un po' di dolore riusciva a sentirlo, forse c'era ancora speranza. Se solo si fosse mosso qualcosa, se solo avesse avuto un qualche stimolo per ripartire... E quel tempo così immobile, grigio e insensibile non aiutava certo, e anzi lo faceva impazzire: avrebbe pregato per avere un po' di pioggia, almeno lo avrebbe distolto dal freddo torpore nel quale stava cadendo.
Senza un briciolo di forza, pigramente, si lasciò scivolare giù dal muretto sul quale era seduto e si incamminò verso casa.
Decise che il modo migliore per scordarsi di tutto, per sfogarsi, sarebbe stato imbracciare la sua chitarra e buttare giù qualche nota, e scrivere qualche ricordo a casaccio, per esorcizzare la sua tristezza ed i suoi demoni. Pensò anche a un nome per tutto ciò, "Untitled", senza titolo: perché l'amore, quello che stava vivendo, aveva già un nome che riassumeva tutte le sue emozioni, e non aveva senso cercare di dargliene uno diverso.

Registrato durante un concerto tenutosi a Berlino nel 2002, in "Trilogy" i Cure ripropongono dal vivo quella che Robert Smith ha definito la sua "trilogia dark", ossia gli album "Pornography", "Disintegration" e "Bloodflowers". Da un punto di vista tecnico i Nostri si muovono con la maestria di chi ha passato una vita assieme (giorno più giorno meno), suonando con un'intesa e un'empatia invidiabile (basta fare caso anche solo agli sguardi tra Smith - Gallup). Le atmosfere rese sono essenzialmente le stesse dei dischi, e chi ha amato questi lavori, chi ha vissuto ogni singola canzone in essi contenuta, non farà certo fatica a riprovare le stesse emozioni provate con gli album.
C'è poco altro da aggiungere: la qualità della musica contenuta in questi dischi la conoscete sicuramente, ed esistono miriadi di recensioni che li hanno descritti... Ma se volete provare qualcosa in più, se volete immergervi ancor più nel malinconico e disperato mondo descritto da Smith & Soci con quei tre capolavori, beh potete solo sedervi e godervi questo stupendo live, e ve ne innamorerete.

 Bloodflowers

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martedì 22 settembre 2015

Heion



E come se nulla fosse ieri ho percepito di nuovo quella bella sensazione, quella magia che erano mesi (quasi anni?) che non sentivo più.

Inginocchiato sul tatami guardavo le armonie che le due hakama disegnavano prima a terra, poi in aria, e mi rendevo conto di quanto stessero materializzando il continuo divenire di cielo e terra, nero e bianco, pesantezza e leggerezza, e ogni altra dicotomia possibile alla base di quell'Arte Marziale.

L'autunno è arrivato, le giornate si sono accorciate e alle otto di sera è praticamente buio. La luce calda, che si rifletteva nelle pareti ocra, fronteggiava il buio che si vedeva fuori dalla finestra aperta, e gli unici suoni che potevo sentire erano il rumore dei piedi che scivolavano, le cadute a terra e dei cani che abbaiavano in lontananza. Sulla parete, vigile, l'onnipresente foto di O'Sensei, che arricchiva e chiudeva un quadro semplice, essenziale nella sua armonia e perfettamente bilanciato.

E se le ginocchia continuano ad assistermi (e un grazie va anche e soprattutto a chi mi ha guarito e a chi mi ha insegnato come viverci meglio) non credo che stavolta ci risepareremo... E anche se fosse, potendo, ritornerei comunque lì, in quell'armonia.

lunedì 31 agosto 2015

Supertramp


“Al diavolo voi, il vostro benessere, il vostro conformismo! Al diavolo le vostre maschere e la vostra falsità, non è così che voglio vivere!” gli ho detto, e me ne sono andato sbattendo la porta.
E cosa hai fatto poi Chris?
“Ho seguito il mio sogno, l'Alaska, ho viaggiato per chilometri e chilometri cercando di raggiungerla... Perché se davvero vuoi una cosa devi solo allungare la mano e prenderla! Questo mondo, questa società in cui viviamo, siamo tutti bestie strane, più abbiamo e più vogliamo, e io avevo tanto, ma ho deciso di buttare via tutto cercando qualcosa che mi riempisse cuore, polmoni e spirito, e mi regalasse un ricordo indelebile.”
Ma come hai fatto a viaggiare, senza soldi...
“Ah, i soldi, li ho bruciati dopo poche centinaia di chilometri, nel deserto del Mojave... Li ho lasciati lì assieme alla carcassa della mia fida Datsun, e mi sono incamminato, e ho fatto autostop, e ho dormito all'aperto... Ho conosciuto tante persone, alcune pazze scatenate, alcune sole seppur in compagnia... Mi sono quasi innamorato figurati, e ho perfino trovato una persona che avrei voluto chiamare padre, ma non mi sono mai fermato, non era quello che volevo... E ogni notte che mi trovavo a dormire in una casa pensavo che non era quello il soffitto che volevo per i miei sogni, era sì un passo avanti rispetto alla città dove sono nato e cresciuto, ma ancora ero lontano dal traguardo.”
E alla fine sei arrivato in Alaska?
“Oh sì che ci sono arrivato, e Dio solo sa come mi sono sentito! La felicità, quella vera, il cuore che esplode perché non riesce a contenere tutte quelle meraviglie, la comunione perfetta con la Natura, con gli animali, in un posto dove cielo e terra si abbracciano... Ero libero, ero anche solo sì, le notti erano lunghe e solitarie, ma avevo i miei libri, avevo il mio rifugio (avresti dovuto vederlo il Magic Bus, come lo chiamavo io, quel rottame di bus che mi ha accolto per notti e settimane intere!).
E quindi come è andata, sei rimasto lì?
“Beh alla fine non è andata come speravo... Ho scoperto che la troppa felicità uccide se non la si condivide, ho capito che forse avevo osato troppo, mi sono fregato con le mie mani diciamo, ho gettato al vento l'unica possibilità che avevo di nutrirmi durante un freddo inverno e mi sono praticamente condannato a morte mangiando delle piante velenose. Che io sia maledetto! Le avrò viste mille volte, come avrò fatto a sbagliarmi, se ancora ci penso mi mangio le mani...”
Ma adesso dove sei Chris?
“Ah sempre lì, nel bus! Sdraiato in terra, avvolto in un giaccone ormai grande il triplo della mia stazza, morto soffocato! Supertramp fino alla fine, ho deciso di morire con il sorriso sulle labbra, e diavolo se ci sono riuscito, anche se a quei poveri cacciatori che mi hanno trovato è sembrato più un ghigno... Oh ma sono stato bene eh, ho fatto quello che volevo, ho vissuto come volevo... Ora però scusami ma devo scappare, c'è ancora tanto da esplorare qui intorno... Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore. Addio e che Dio vi benedica!”
Figli naturali del Cascadian Black Metal, i canadesi Harrow (da Victoria, British Columbia) incarnano alla perfezione il prototipo ideale di musica che un gruppo che vuole etichettarsi come “cascadiano” (che cosa brutta ho scritto!) deve suonare. A dirla tutta definiscono il loro sound come “Atavistic Metal” ma non aggiungerei altre etichette bizzarre, anche se in effetti hanno davvero la capacità di connettere l'ascoltatore con mondi antichi dominati dalla Natura, luoghi in cui l'uomo era ancora una controfigura in uno spettacolo nel quale gli attori principali erano i miti, le leggende, gli animali, le stagioni ed il tempo.
Da un punto di vista musicale c'è poco da dire: chi ama il genere andrà letteralmente in un brodo di giuggiole. Trasportati dalla voce e dalle superbe linee chitarrristiche di Ian non si fa fatica a farsi ipnotizzare da questi quattro lunghi pezzi, nei quali ancestrali trame acustiche si intrecciano con feroci assalti black, pur sempre guidati da una melodia di fondo che rende il tutto estremamente fruibile e godibile, anche per chi magari non è avvezzo al black metal. Come ho poi avuto modo di dire anche in occasione dell'ultima uscita degli Alda, il post rock si dimostra ormai una base indispensabile nella costruzione di questi pezzi, se è vero che la parte da leone la costituiscono i vari climax emotivi che animano ogni singolo pezzo.
Questo “Fallow Fields” va preso a scatola chiusa, senza pensarci due volte: assieme a “Passage” degli Alda costituisce una splendida gemma di Cascadian Black Metal, a tratti superando addirittura iin pathos i “maestri” del genere. Non c'è altro da dire, bisogna solo correre ed immergersi al più presto in questa musica maestosa e sciamanica.

Fallow Fields

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domenica 30 agosto 2015

Trapassi


Entrò dalla finestra e si posò sulla sponda del letto: era notte e nessuno la vide o sentì entrare, ma di fatto non c'erano poi molte persone in giro. Tese il capo verso la porta e sentì solo il russare della persona che dormiva nella stanza vicina, i grilli in giardino e il respiro lento, affannoso, che spesso cedeva il passo ad una lugubre apnea, della donna, distesa immobile sul letto.
Da secoli aveva svolto quel compito, e stasera sulla carta non avrebbe dovuto fare differenza, eppure c'era qualcosa di strano, provava compassione per quella personcina, logorata da un male tremendo che la mangiava da dentro; percepiva ancora attorno al suo letto il calore delle lacrime dei familiari che si erano avvicendati nel corso dei giorni per salutarla, e decise di attendere ancora un po' prima di portarla con sé. Dal capezzale volò su una trave al di sopra del letto, in un angolino buio, e lì si rannicchiò e attese la venuta del giorno.
Il sole non tardò ad arrivare e con esso i primi familiari, che iniziavano il solito incessante stanco e triste viavai: lei li guardava, uno dopo l'altro, vedeva nei loro cuori, percepiva le loro storie, sentiva le loro intenzioni e capiva subito se erano sincere oppure no. C'era il marito, desolato e vinto dalla tristezza, i fratelli e sorelle della malata, che cercavano di mascherare al meglio, secondo il loro carattere, la tristezza che li lancinava; c'erano i suoi nipoti accompagnati dai rispettivi
 compagni (mariti e mogli), e tutti, anche chi non era parente stretto ma che era comunque parte di quell'abbraccio immaginario di persone, tutti soffrivano a modo loro, tutti vedendola ansimare e cercare aria ripensavano ai momenti che avevano condiviso.
La civetta attese un po', poi sentì che il tempo stava scivolando dalle dita della donna, dita sempre più fredde per via di una morte sempre più pressante: il volto si faceva ogni minuto più scavato, l'apnea sempre più prolungata, il battito del cuore sempre più flebile. Nel momento in cui il sole era più alto, forse per lei il momento peggiore visto che a quell'ora normalmente se ne stava ben rintanata nel fitto del bosco, sfruttò uno dei rari attimi in cui la donna era stata lasciata  sola per scendere dalla sua trave e volarle vicino al volto, abbastanza vicino da toccarla con le sue piume. In quell'attimo il respiro dell'allettata si fece profondo, e poi il nulla la avvolse: ma l'anima, quella no, quella era ben salda e impressa negli occhi della traghettatrice alata, che volò veloce fuori dalla finestra e scomparve nel vicino bosco.
Il primo a rientrare fu il marito, che accortosi della dipartita della moglie, chiamò tutti i parenti, che piano piano fecero il loro ingresso nella camera per porre il loro ultimo saluto alle spoglie ormai fredde. Loro non lo sapevano ma tramite gli occhi scuri del pennuto che aveva salvato la sua anima la donna li stava guardando e ringraziando uno ad uno, anche solo per aver condiviso con lei gli ultimi attimi di una vita che avrebbe potuto essere più lunga, ma che le aveva dato gioie sufficienti ad andarsene con la pace nel cuore.
Sono passati più di quattro anni dall'ultimo lavoro degli americani Alda, quel “Tahoma” che, per chi segue le vicende della (ormai non più) nuova ondata di black targato USA, costituisce uno dei capisaldi del Cascadian Black Metal. Supportati da un'etichetta ben radicata nel suolo americano e ben calzante da un punto di vista etico e di pensiero, i Nostri si riafacciano sul mercato con “Passage”, un disco che prende spunto da alcuni momenti del suo predecessore per evolversi verso forme più riflessive e ragionate. “Tahoma” era ancestrale e feroce in certi momenti, mentre il nuovo lavoro, pur non rinunciando affatto al lato sanguigno e selvaggio del black, pone maggiormente in risalto i saliscendi emotivi che nel precedente lavoro costituivano invece il ponte tra una sezione più marcatamente “metal” ed una più folk. Mi viene quasi da dire che, nel modo di suonare, i nostri si siano spinti quasi ai confini del post rock (che comunque, a ben pensarci, costituisce da sempre a mio avviso una delle radici del black cascadiano), partendo da arpeggi acustici che si assommano, crescono, strabordano e deflagrano in riff elettrici dal coinvolgente piglio emozionale.
Tirando le somme, meglio o peggio di “Tahoma”? Pareggio, due facce della stessa medaglia, i punti deboli di un lavoro sono stati corretti dall'altro e viceversa. Va riconosciuto il gran cuore di questi ragazzi, che pur non stravolgendo nulla in un genere che ormai, seppur giovane, ha già detto molto della sua personalità, hanno saputo regalare ai loro fan e più in generale agli ascoltatori della scena un lavor intimo e notturno, ragionato, riflessivo e appagante, forse meno immediato del precedente, ma che saprà sicuramente regalare emozioni a chi saprà farlo suo.

The Clearcut

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sabato 30 maggio 2015

Tempo di saluti nel Dojo...


Non è mai facile salutare un Dojo, anche perché non è solo un semplice edificio, spesso (e nella migliore delle ipotesi) è un mondo a sé, una dimensione diversa dove per un'ora e mezzo, due ore, dialoghi sì con il tuo Maestro e i tuoi compagni, ma soprattutto lavori su te stesso.
Non è facile perché rappresenta in un certo senso mesi di lavoro, sudate su un'Arte che ti ha fatto per ora bestemmiare tanto, ma che qualche soddisfazione te la stava già regalando.
Non è facile soprattutto perché il Dojo è fatto di persone, senza il gruppo non ci sarebbe, o meglio, il gruppo ricrea il Dojo ovunque esso si muova... E stavolta è proprio questo che mi ha fatto più male, salutare il gruppo, il Maestro, gli amici. E' vero, ho faticato tanto praticando Wado Ryu, mi sono dannato l'anima fino all'ultimo per capire le distanze, le posizioni, gli attacchi... Qualcosa l'ho afferrato alla fine, venendo da un altro stile la confusione era tanta ma come ha detto il Maestro stasera stavo inizando a mettere le cose assieme.
Però si sa, ogni tanto si devono fare delle scelte, e stavolta il seguire il cuore non bastava, perché il cuore portava in due direzioni diverse e opposte. Mi sono fidato dell'istinto quindi, dei ricordi, dei movimenti, delle sensazioni, ed ho deciso di prendere un'altra strada, di salutare, come detto, il Dojo. Che sia stata una scelta positiva o meno questo ancora non lo so, e come accade sempre sarà il tempo a farmi capire se ho sbagliato o meno. Mi lascio alle spalle una bellissima Arte Marziale, verso la quale non è sbocciato l'amore ma solo fiammate di sentimento miste a docce fredde... E mi lascio alle spalle delle persone bellissime, che senza chiedere nulla mi hanno accolto, integrato nel loro gruppo, reso naturalmente partecipe di tutto, che hanno saputo apprezzarmi per quello che sono, rispettarmi nei miei difetti, correggermi ed aiutarmi nei miei errori, e che credo che mi abbiano voluto bene, sebbene ci conosciamo da un annetto.
Stasera è stata l'ultima lezione, ed i loro discorsi, i discorsi del Maestro, non sono state frasi fatte, sono state parole sentite, mi è stato detto che per me la porta è aperta, e che sperano di riavermi tra loro. Io sono un po' un ingenuo, lo sono sempre stato, ma ho percepito subito che queste parole erano vere, che venivano da dentro, che non avevano un secondo fine ma che volevano trasmettere amicizia, senso di gruppo, lealtà, comprensione.
Non so se questa esperienza terminerà con stasera o se avrà un seguito, ma sono certo che, semmai un giorno dovrò nuovamente varcare quella porta, il Dojo e con lui i Wado Ryu, il Maestro e gli amici mi riaccoglieranno di nuovo tra loro, come se fosse passato solo un weekend dall'ultima lezione.


Grazie di tutto, a tutti... Arigatou gozaimashita

mercoledì 25 marzo 2015

Soddisfazioni

Il giorno in cui la Musica smetterà di darmi queste soddisfazioni una parte di me morirà... Ma fino a quel momento voglio godermi questi attimi!!!


giovedì 12 febbraio 2015

Pioggia... Mid-February tunes



In alcune, rarissime volte, le cose non sono solo materiali, ma trasudano una carica emotiva incredibile, che pare smaterializzarle e renderle più vicine ad un'idea. Così un disco, una scatoletta di plastica con dentro un libriccino ed un cerchietto argenteo sul quale sono state registrate quasi venti (madonna, venti, se ci penso mi prende male) anni fa dieci canzoni, nel momento in cui lo stringi tra le mani non è più un semplice album, diviene impalpabile, incarna tutta l'attesa che hai vissuto nel cercarlo, pazientemente, per più di dieci anni (era infatti il 2002/2003 forse quando entrai in contatto per la prima volta con suddetto lavoro), si trasforma insomma in pura emozione. E quando poi è assolutamente nuovo, la confezione mai scartata da nessuno, come se fosse appena uscito da un negozio, la sensazione di aver raggiunto un traguardo importantissimo, la soddisfazione che ti trasmette quel piccolo oggetto, tutto questo aumenta a dismisura.
Come un bambino piccolo la sera di Natale ti senti in fibrillazione, entusiasta di quell'acquisto, e anche se in realtà già conosci a mente quelle canzoni perché le possiedi già in MP3, nel momento in cui inserisci il CD nel lettore è come se suonassero nuove, diverse. E mentre sul disco la pioggia scorre e l'eleganza e la tristezza si fanno musica sfogli il booklet, e ti colpisce subito l'adesivo SIAE vecchio, di quelli bianchi bordati di rosso, ora sostituiti da quelli argentati: quant'era che non ne vedevi uno in un disco ancora incellophanato, che non fosse già tuo o non fosse già passato dalle mani di qualcuno! Quell'adesivo aumenta l'epicità della tua conquista, recando il nome di un'etichetta che sai essere non più attiva e che conoscevi proprio per quell'album, e riportando anche la sigla "Orlando C.", componente del gruppo nonché persona registrata "all'anagrafe" SIAE. Sfogli il booklet dicevo, e con avidità scorri i testi delle canzoni ed i ringraziamenti, che sembrano così naif, scritti da ragazzi che al tempo saranno stati, forse, ventenni, ignari del fatto che di lì a qualche anno avrebbero "rivaleggiato" musicalmente con le band che ringraziavano su quel libretto... Band che hanno condiviso il palco con loro, mostri sacri di una musica alla quale loro si sono avvicinati per poi impadronirsene, farla loro, e restituircela marchiata a fuoco dal loro stile, inconfondibile. Mi hanno chiesto che genere fosse... E chi lo sa! E loro forse lo sapevano? Credo che suonassero con il cuore, incuranti delle etichette: da bravi romani scazzoni credo se ne siano fregati di tutto e di tutti, buttando giù tutto ciò che il cuore comunicava loro. Nella loro storia, finanche in ogni loro singolo pezzo, sono passati dal doom al black al gothic al death al prog, con un fil rouge sempre ben presente, l'emotività. Hanno sempre saputo toccare il cuore dell'ascoltatore, ora con scream lancinanti, ora con un cantato tecnicamente imperfetto, ma incredibilmente adatto alla situazione: non ti sapresti immaginare una voce diversa su quei pezzi. Supportati da linee melodiche che sapevano passare dall'elegante e raffinato all'abrasivo e feroce, e da una sezione ritmica gestita da quello che credo sia il miglior batterista italiano in campo metal (e tra i migliori a livello mondiale), il Nostro era un gruppo perfetto, ancora in divenire su quel disco, ma con un futuro che si sarebbe fatto dorato di lì a poco. E quel senso di speranza, quella forza in divenire, è ben presente nel disco che tengo in mano adesso, anche se le emozioni che vuole comunicare con i suoi testi sono ben diversi. Un'atmosfera piovigginosa, uggiosa, da camera, perfettamente veicolata da quella foto in copertina e dall'incipit del primo brano...
Per queste e tante altre ragioni, anche più legate all'ambito tecnico (la qualità del suono e delle canzoni, il modo in cui sono state interpretate, ecc) questo disco è sempre stato per me una chimera, un lavoro che, sebbene come detto lo avessi ascoltato più e più volte, rimaneva ancora intangibile ed inafferrabile... E oggi ho capito perché, perché non vuole, almeno per me, essere un semplice disco, non chiede una materializzazione in qualcosa di tangibile, vuole rimanere un'idea, o meglio, un'emozione, perché sa che solo così potrà essere davvero legato a chi lo ascolta, solo così potrà essere sempre ricordato e soprattutto desiderato, e non abbandonato come alla fine accade per la maggior parte dei dischi.


Nota a margine: il disco in questione è "Arte Novecento" dei romani Novembre, che scoprii una sera su internet mentre cercavo su un forum di tablature per basso un qualche gruppo dai connotati generalmente "dark"... Mi furono indicati da qualcuno sicuramente non italiano, pensa tu che giro largo! Non riuscendo a recuperare in alcun modo il disco (al tempo i canali shopping online per me erano ancora perlopiù inesplorati) me lo feci scaricare da un amico, e stampai io stesso una copertina in bianco e nero, quella sì, fedele il più possibile all'originale. Il disco, edito dalla Polyphemus Records (etichetta siciliana ora non più esistente) è stato per me una chimera, come detto: ogni tanto mi rimettevo a cercarlo, ma inutilmente, o non esisteva, o nessuno lo vendeva, o se era in vendita aveva un prezzo esorbitante. Poi qualche giorno fa lo ritrovo, e con poche decine di euro e due giorni di attesa me lo ritrovo sulla scrivania, impacchettato nuovo fiammante, speditomi da quello che, secondo me, era il proprietario dell'etichetta. Un'altra favola d'amore a lieto fine...


"...e un bel giorno venne lei
 "Ho delle caramelle", disse. Fu oro e sole.
 Poi se ne andò nel diluvio
 Per sempre..."