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lunedì 21 maggio 2012

Back to the roots


Proseguo con il mio trend che mi porta a rivalutare le care vecchie buone abitudini.
Settimana scorsa ho riesumato il lettore CD portatile, che ho cominciato a portarmi fieramente in giro. Certo, è un po' scomodo come dimensioni e per il fatto che ti puoi portare dietro solo un disco alla volta (a meno che non viaggi con uno zaino ovvio), ma ha tutto un altro sapore... Sa di compiti in classe di italiano e di disegno, quando il prof ti consentiva di usarlo se stavi ricopiando sulla bella copia o se stavi ripassando. Sa di gita scolastica, era una delle prime cose che tiravi fuori dallo zaino non appena seduto sul sedile del pulmann. Sa di vasca in città, fermata d'obbligo al negozio di musica (quando ancora poteva essere definito tale), acquisto di rito del CD sconosciuto e subito ascolto mentre si passeggia per le vie del centro. E' un suono meglio definito, più caldo e familiare, che mi sento in dovere di recuperare.
Ieri invece ho riesumato, per il consueto taglio dell'erba del condominio, la falce. Quella mezzaluna ormai arrugginita, con quel manico di legno che credo sarà stato rimesso insieme prima da mio nonno poi da mio babbo almeno cinquanta volte, quella lama sbocconcellata che a tutt'oggi taglia come se fosse nuova. "Se la porti a un mercatino delle pulci e la vendi ti danno cinque euro, buttalo via quel troiaio!" mi dicevano ieri le persone che, con me, erano alle prese con "l'ars potatoria". Io gliel'avrei lanciata dietro invece, per fargli vedere se era un troiaio davvero oppure no... Intanto io, con i miei metodi, quindi falciando le piante e gli steli più grossi e ripassando poi con il decespugliatore, sono andato liscio e non ho mai rotto il filo della macchina, loro invece, con la loro "simpatica strafottenza", hanno passato più tempo a "togliere il filo, rimettere il filo, macchina ingolfata" ecc che a lavorare. Alal faccia vostra, cazzoni parolai! E per la cronaca, quante volte c'avrò tagliato l'erba da piccino con quella falce, cercando di imitare il mio nonno, quante sudate, e quante sgridate che mi sono beccato quando, dopo quattro falciate, l'abbandonavo nel campo perché mi ero già divertito, incorrendo quindi nelle bestemmie e nelle ire dei miei!
Oggi infine ho riscoperto invece l'abbinamento "ciaccino al prosciutto cotto e mozzarella della Casalinga con Estathé". Roba che non facevo dalla terza media almeno, la tipica colazione del campione, da sfoderare in gita (assieme al lettore CD!), durante l'intervallo, o nei pomeriggi dopo scuola, quando sudati fradici per aver corso dietro il pallone e esserci magari sbucciato qualche ginocchio, ci s'affacciava a quel bancone e la richiesta era una sola: "un ciaccino e un Estathé!" ...che tra l'altro è anche parecchio buono!
Ogni tanto c'è bisogno di queste cose, magari un po' romantiche, ma che ti fanno guardare indietro, sorridere magari, e pensare che quelle (e altre) sono le tue basi, alcune delle sicurezze con le quali sei cresciuto, e che non c'è vergogna nel tirarle fuori ogni tanto, e vantarsene, perché no.


venerdì 18 maggio 2012

L'ulivo



Stanotte ero di nuovo a casa vecchia. Tutto era come lo avevo lasciato, più o meno, stessi mobili, stesso arredamento, stesse tende. L’odore, il profumo, era lo stesso, quella mistura dalla fragranza primaverile emanata da un erogatore attaccato alla presa di corrente
Se non sbaglio era notte: non ne sono certo al cento per cento, ma ricordo che ero lì per montare le decorazioni natalizie, e che qualcuno apriva la finestra, e che io con la coda dell’occhio intravedevo il buio dei campi, qualche luce in lontananza, e sentivo nell’aria l’odore di legna bruciata. Le decorazioni di Natale, dicevo.
L’albero era lì, al posto solito, addobbato come lo avevo sempre addobbato io, ma la mia attenzione era focalizzata sul grumo da strigare di lucine natalizie. Ricordo ancora la consistenza del cavo verde, spesso, avvolticciolato su se stesso, e ricordo l’odore della plastica che emanavano le lampadine stesse. Cercavo una prolunga ricordo, perché dovevo metterle in terrazza, attaccate alla ringhiera, ma il filo non era abbastanza lungo. Avevo paura che la finestra non si chiudesse, ma qualcuno che era lì, forse alle mie spalle, mi diceva di fare come facevano i miei genitori a casa loro, in quel modo il filo non avrebbe impedito la chiusura della finestra. “Il vicino non ha lucine” pensavo… Pazienza, tanto sono dei tristoni, le mie faranno luce anche per loro.
Per fissarle fuori avevo bisogno di alcuni attrezzi: la mia cassetta rossa dove li tengo era rimasta in macchina, per cui dovevo fare con quel che c’era. “Apri il mobile”, mi diceva la solita voce. E lì, dove io di solito tenevo piatti e bicchieri, c’erano ora tanti attrezzi perfettamente ordinati, disposti sia dentro il mobile stesso che attaccati allo sportello. Prendevo le fascette, le forbici, e mi soffermavo sulle chiavi inglesi: non che mi servissero. “Ti manca?” mi diceva la voce. “Molto”, rispondevo io. “Questi erano i suoi attrezzi…” “Lo so, mi ricordo.” E infatti ricordavo la cassetta da pesca azzurra che lui aveva convertito in cassetta degli attrezzi, ricordo quanto si chiudeva male, ricordo la mancanza cronica di qualcosa che dovevi sempre andare a reperire in qualche altra parte della casa. Io con quegli attrezzi ci giocavo di solito perché ero piccolo, andavo nel mobilino all’ingresso, lo aprivo, e un odore di chiuso, ma buono, investiva le mie narici.
Mi ricordo poco di lui purtroppo, solo flash, come quando gli facevo vedere i miei giocattoli in cucina, o come quando d’estate passai una notte in quella casa, così, “per andare in vacanza in campagna” come dicevo io… Come se casa dei miei fosse stata in città, e soprattutto, come se fosse stata lontana da lì… Un chilometro forse. Ma era la sensazione particolare che mi faceva stare in un altro mondo quasi.
Al tempo non davo importanza a questi momenti, ma fissando quegli attrezzi, quelle chiavi inglesi, tutto era riaffiorato vivido.
Mi manca quella casa, ma soprattutto mi manca lui. E il bello, ma anche il problema di tutto, è che la vita, volenti o nolenti, va avanti.

sabato 12 maggio 2012

La Natura è la Chiesa di Satana



Quando non ci riesce a descrivere cosa ci fa paura, forse riusciamo a dire dove abbiamo paura. E' il bosco, sono quelle facce terribili e straziate che ci appaiono tra albero e albero, mentre il treno corre veloce.
“Eden” lo chiamano, ma di paradiso ha ben poco. Nel bosco il buio arriva presto, l'unico riparo sembra essere la vecchia baita di legno contornata dalle querce, ma non si deve entrare, si deve restare fuori, distendersi nell'erba, esserne parte, e attendere, in questo stato di sospensione, la paura. E quando essa arriva non è come te l'aspetti, non sei pronto ad accettarla, sebbene ti abbiano insegnato a padroneggiare le tue emozioni. E' fisica, ha la forma di una cerva che partorisce un cerbiatto morto, di una volpe che si nutre delle sue carni, di un albero morto dentro che non vedrà più altre primavere. Sei nella Natura, sguazzi nel suo regno, dove tutto pare essere fatto per morire senza ragione, come le ghiande che cadono incessanti sul tetto di legno della baita, come l'uccellino appena nato che si sporge troppo dal nido e cade, il suo corpicino dilaniato dalle formiche che sembravano attenderlo fameliche a terra. L'uccellino cade e muore così come è accaduto a tuo figlio, il cui pianto pare adesso riecheggiare in tutto il bosco, quasi a voler distruggere la tua mente già sull'orlo della follia. Non è tuo figlio che piange, sono le creature della Natura, è il loro urlo quello che senti, il pianto di tutte le cose che sono destinate a morire. Quando ti dicono che la Natura è la Chiesa di Satana rabbrividisci, la tua razionalità vacilla paurosamente, sembri quasi sul punto di crederci ma poi no, non può essere vero, sono solo favole, anche le ghiande non piangono, sono solo i tuoi pensieri che distorcono la realtà, certo non il contrario.
Il Caos pare regnare in quella piccola porzione di paradiso apparente, che si rivela essere solo la punta di una piramide in cui la follia pare crescere in maniera esponenziale, giorno dopo giorno, in cui vecchie storie di stregoneria e atroci delitti paiono uscire dai libri e scorrazzare selvagge tra le piante decadenti. La Natura, l'erba, le foglie, non sono loro quelle da temere, è la stessa Natura umana, l'indole dell'uomo, è lei il Male più grande e distruttore, che non muore mai, come quella maledetta cornacchia, sotterrata eppure sempre in grado di gracchiare con vigore.
L'epilogo può essere solo uno, e i Tre Mendicanti sveleranno ogni verità: al loro arrivo qualcuno dovrà morire, e la Morte, la follia, e la Natura, troveranno una nuova ragion d'essere.
Nuove band emergono dal sottobosco black metal che si è sviluppato, ormai da qualche anno, nella regione statunitense denominata “Cascadia”. Stavolta parliamo degli Addaura, ensemble di Seattle che si sta facendo largamente conoscere per merito del suo ultimo parto, “Burning For The Ancient”. Sebbene lo spettro dei WITTR aleggi abbastanza pesantemente nelle stanze musicali create da questi ragazzi, il risultato è ben sopra ogni più rosea aspettativa, evitando di incorrere nel difetto forse più grosso che possono avere tanti questi gruppi, la mancanza di originalità. I Nostri ci ammaliano con quattro lunghi pezzi di black metal veloce, dall'impianto fortemente sciamanico e rituale, in grado di ipnotizzare letteralmente l'ascoltatore circondandolo da spirali musicali che, per concezione, rimandano addirittura al post rock (quindi uno stesso riff di base ripetuto e accresciuto alla bisogna). Completa il tutto uno scream lancinante ma mai troppo disturbante e delle parentesi atmosferiche che stordiscono forse più della bufera sonora che le precede o le segue.
Come da consuetudine anche qui solo LP e cassette disponibili (forse un CD in futuro, chi può dirlo): questo però non deve bloccare la voglia di ascoltare questi ragazzi, soprattutto da parte di chi ha un debole per i Wolves In The Throne Room e per la scena nella quale si muovono (e che hanno di fatto contribuito a creare). Ritualistici e d'atmosfera, una gran bella sorpresa.

giovedì 3 maggio 2012

La farfalla di fumo



Non sentì la morte arrivare, ma solo un boato terrificante. Più forte di cento ruggiti di orso, tremendo come solo l'ira di un Dio sa essere, la valanga si mosse improvvisa dalle apparentemente lontane vette dei monti Sawatch, e in un attimo Leotie sentì tremare la terra sotto i suoi piedi. Cominciò a correre verso la valle, cercando affannatamente con i suoi occhi vispi un punto, una grotta, un nascondiglio sotto il quale ripararsi. Mentre correva nella sua mente, lucida e razionale nonostante i piedi affondassero implacabilmente nella neve e le rocce si stessero sgretolando dietro di lui, cominciarono piano piano a riaffacciarsi alcuni momenti della sua vita.
Incontrollabili, come la corrente del Grande Fiume che bagnava i boschi dimora della sua tribù, le immagini si affollarono dentro i suoi occhi, assieme a sensazioni, sapori e odori che credeva ormai dimenticati. Eccolo, da piccolo, mentre caccia i salmoni con il nonno, o mentre gioca alla guerra con suo fratello (che della guerra fu poi vittima, solo alcuni anni dopo); si rivede attorno al fuoco, seduto, riesce ancora a percepire il calore delle fiamme e l'odore della resina che esce dai tronchi mentre scoppiettano tra le fiamme danzanti. Calore che si trasforma poi improvvisamente in bruciore eppoi dolore, quello della ferita che gli aveva procurato, pochi anni prima, il terribile orso che aveva dovuto affrontare quando si era messo alla ricerca del suo Spirito Guida. La zampata del terribile animale aveva lasciato un segno sul suo braccio, una cicatrice che tutt'ora, nonostante cinque anni fossero ormai passati, gli provocava un dolore ormai fraterno, al cambio della stagione. Eppure quel dolore gli aveva permesso di entrare in perfetta sintonia con se stesso e con ciò che lo circondava, gli aveva permesso di materializzare il tutto nella forma di un animale, la Farfalla, che, si diceva, lo avrebbe protetto a lungo. Ricorda il suo scetticismo iniziale quando comprese quale sarebbe stato il suo Totem: la Farfalla è gracile, ha vita breve, è un animale minore, si diceva... Ma ora aveva capito tutto: di vita breve certo (di fatto anche Leotie aveva solo 20 anni), votata però alla continua trasformazione, alla trascendenza, a qualcosa di più al quale ben pochi altri Spiriti potevano aspirare.
Una volta compreso questo rallentò la corsa e si voltò verso la valanga, la quale ormai era solo a poche centinaia di metri da lui. Si guardò intorno, solo sparuti stecchi emergevano dalla bianca coltre di neve a terra, e la valle era ancora molto lontana. Chiuse gli occhi, le braccia aperte, un respiro lungo: come detto, non sentì la morte arrivare, ma solo un abissale boato.
Lo sciamano quella sera si sedette vicino al fuoco, con la tribù disposta tutto intorno alle fiamme. Lacrime erano state versate, e tutt'ora le guance di molte persone, di tutte le età, continuavano a essere solcate da caldi rivoli. L'anziano prese da una sacchetta di pelle una manciata di polvere (solo lui ne conosceva la natura) e la gettò sul fuoco. Dalla punta della fiamma più alta si alzò un filo di fumo, la cui sagoma, modificata da un alito di Vento dell'Est, prese le fattezze di una farfalla. Fu un attimo e tutto scomparve, un attimo che portò però un dolce e consolatorio sorriso sulla bocca della tribù affranta.

This has become the weight of all
This is the precipice, the breaking of the spirit
This is the weight of fate
Carried into the ocean of chaos
 In the waning light we bloom
 In the bitterness of mourning
 We release this pain
 Safe passage to you, our friend
 Though were you've wandered we cannot follow
 When the spring rises you shall be reborn.

Originari dello Stato di Washington gli Alda sono l'ennesima band appartenente al cosìddetto "Cascadian Black Metal", genere, se così possiamo definirlo, che deve i suoi natali, volenti o nolenti, ai Wolves In The Throne Room, ma che schiera tra le sue file band dall'indubbio talento. E gli Alda, con questo ":Tahoma:", vi rientrano egregiamente, prendendo anzi a spallate altri gruppi caratterizzati da poca consistenza e originalità. I Nostri svolgono un lavoro impeccabile nell'intessere armonie folk delicate e dall'odore di legno bruciato, armonie che si ramificano e si fondono in sfuriate e scream tipicamente black, feroci ma in un certo modo poetiche e toccanti. Un po' come hanno fatto gli Agalloch con "Pale Folklore" (e con i brani prima di esso) gli Alda sanno toccare l'ascoltatore e coinvolgerlo nelle loro storie sebbene usino uno "strumento" come il black metal, solo apparentemente ostico, freddo e impenetrabile (ma che tanti gruppi statunitensi ci stanno dimostrando essere tra i più utili se unito a determinate tematiche).
Senza dubbio un nome da tenere d'occhio, per quanto mi riguarda un disco da avere (per ora è presente solo la versione in cassetta e in vinile, ma pare essere in cantiere una nel più comune formato CD).