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martedì 26 febbraio 2019

Romanticismo inglese/3



Ricordo di essermi svegliato abbastanza presto quella mattina. Ero in vacanza ma non mi importava, era una cosa che facevo volentieri.
Le vie di Glastonbury alle 6:00 di mattina erano ancora addormentate: nessuno in giro, giusto qualche senzatetto che dormiva sotto i portici della chiesa; l'aria era già fresca, frizzante, positivamente tesa, una caratteristica che ormai avevo imparato a conoscere e ad apprezzare, tipica di quel posto.
Mi incammino verso la Tor: superato il centro città e imboccata una via secondaria inizio a salire le scale ricavate nella terra, in cuffia le parole di un bardo inglese, mi parlano di leggende antiche, di nature incontrastate, di luoghi magici. Arrivo al cancello in cima alla scalinata, lo oltrepasso e inizio a salire la collina. Il cielo è splendidamente chiaro, intorno a me la tipica nebbiolina mattutina, mentre i belati delle pecore al pascolo fanno da contorno ai miei passi in solitaria. Arrivato a metà salita mi volto ad osservare il paesaggio: Glastonbury come Sleepy Hollow, una cittadina in una vallata affogata dalla bruma inglese, dormiente e pacifica. Ripresa la scalinata è un attimo arrivare ai piedi della Torre di San Michele: alzo gli occhi e la sua maestosità mi inebria. Si alza un leggero vento, i cardi dondolano, c'è una sensazione di elettricità nell'aria, di magia, di positività. Varcato l'ingresso della torre un raggio di sole mi sorprende e per un attimo mi acceca: quando riapro gli occhi ho davanti agli occhi la scena più bella di tutta la vacanza. Il sole che sorge in lontananza, i greggi di pecore sparpagliati lungo il pendio della collina, l'erba verde che asseconda il vento, e soprattutto la calma, la pace, la lontananza da tutto e da tutti e allo stesso tempo la comunione di anime e spiriti. Mi siedo dentro la Torre, in una delle panchine di pietra ricavate al suo interno, occhi chiusi, accarezzato ora dal vento, ora dal sole, e respiro. La magia del momento è amplificata dalla musica che ho in cuffia: è il bardo di prima, le sue parole calde, i cori che sostengono e abbracciano gli strumenti, tutto concorre nel rendere l'emozione del momento tangibile. Non succede nulla di speciale, alla fine sono solo una persona che se ne sta seduta con gli occhi chiusi dentro un'antica torre, aspettando il sorgere del sole e ascoltando musica, ma è questo "niente di speciale" che rende questi momenti così indimenticabili. E commoventi, quando mesi dopo ti trovi a riascoltare quella musica e a ripensare a quelle scene.
In un precedente scritto avevo parlato del debutto a firma Wolcensmen come di "un disco fatto di piccole cose, di piccoli gesti, di piccole emozioni e gioie, così come la natura inglese oggetto delle canzoni che lo compongono". Ebbene non posso che ripetere e enfatizzare questa descrizione. "Songs from the Mere" è un EP, una raccolta di pezzi che seguono il filo logico del precedente "Songs from the Fyrgen" allo stesso tempo però distanziandosene per certi aspetti. Musicalmente però le soluzioni scelte sono le medesime, chitarre arpeggiate, fiati, percussioni, tappeti di synth mai invasivi, cori, per un disco di neofolk/ambient da ascoltarsi tutto di un fiato.
Tutti coloro che hanno avuto esperienze non dissimili da quella descritta non avranno difficoltà a riviverle tra le tracce create dal Nostro. Per tutti gli altri un invito ad approcciarsi a questo lavoro con il cuore aperto e con la voglia di lasciarsi andare, per un attimo, ad atmosfere antiche e ricche di pathos.

Lady of the Depe

https://www.debaser.it/wolcensmen/songs-from-the-mere/recensione

martedì 19 febbraio 2019

Marooned



Ero piccolo, avrò avuto massimo dieci/undici anni.
I pomeriggi avevo l'abitudine di scendere in garage, dove mio babbo lavorava, e di passare del tempo nella Fiat 131 di famiglia, il "macchinone" come lo chiamavo io, l'auto che usavamo per i viaggi lunghi quando per esempio andavamo al mare d'estate. Una volta dentro accendevo lo stereo e mi mettevo a giocherellare con le tante cassette che il mio babbo era solito tenere lì dentro. Accanito fan del tape trading lui, credo che di originali ne avrà avuti tre o quattro, tutto il resto erano nastri copiati, fossero esse compilation di musica registrata dalla radio o copie di album originali. Ricordo che mio babbo era solito fare una cosa molto carina, che anche io negli anni a venire ho rifatto, non sapendo che forse, inconsciamente, me l'aveva passata lui: faceva le copertine. Prendeva immagini ritagliate da giornali, o foto sue, le riassemblava con colla e forbici, le ritagliava nel formato corretto e le attaccava al cartoncino della custodia della cassetta. Così non sapevi mai cosa avevi tra le mani, se una compilation o una copia di un album, e lo scoprivi solo aprendo la custodia della cassetta.
Tra tutte le cassettine una mi colpiva sempre tantissimo: ritraeva due teste che si osservavano, a bocca aperta, occhi sgranati, in un campo. Nessuna scritta, nessuna parola, l'atmosfera era sospesa, indefinita, sognante e arcana. Non lo so perché mi affascinava moltissimo questa cover, era confortante e inquietante al tempo stesso, esprimeva allo stesso tempo calore e freddo.
Passano gli anni, crescevo prendendo la mia strada, sbagliando, facendo scelte giuste, e allo stesso tempo quel babbo mi osservava andare per la mia via, rimettendomi in carreggiata se c'era bisogno, ma tutto sommato rimanendo sempre nell'ombra. Negli anni affino i miei gusti musicali, accresco la mia "libreria", ma il caso vuole che alla fine, più o meno consciamente, un giorno mi imbatto nuovamente in quella copertina, o meglio, in quell'album. Stavolta sapevo perfettamente di cosa si trattava, nel tempo avevo iniziato a conoscere, apprezzare, fino a innamorarmi dei Pink Floyd, e il giorno che rividi nuovamente quella copertina, e vi associai i testi e la musica che questa rappresentava, riuscii finalmente a dare un senso a quella percezione che avevo di inquietudine e freddo.
Passano altri anni, quel babbo che era stato sempre al mio fianco non c'è più, ma ovviamente continua a rivivere nei miei ricordi, nelle sue/nostre cose, e nelle canzoni. Ieri avevo messo su, distrattamente, "The Division Bell" dei Pink Floyd, disco che mi è sempre piaciuto, sebbene non lo ritenessi pietra miliare della discografia degli inglesi. Ne ho sempre apprezzato i suoni, la dolcezza con la quale Gilmour suona la chitarra, il calore consolatorio della sua voce, le atmosfere miti, rassicuranti, tratteggiate dalle tastiere di Wright, e quell'alone nostalgico che animava tutto il lavoro. "High Hopes" è stata per molto tempo il mio pezzo preferito, ma ieri, ascoltando "Marooned", ho avuto un brivido.
marooned: adjective UK, /məˈruːnd/ US - /məˈruːnd/, left in a place from which you cannot escape.
Ho dato un senso all'inquietudine che ultimamente mi sta assalendo, al senso di "mancanza" di qualcosa, di un pezzo di cuore probabilmente. E come vuole il concept alla base del disco anche io percepisco assenza di comunicazione, lontananza, mancanza, "silence that speaks so much louder than words" prendendo in prestito le parole di un altro brano Floydiano. Il brano, strumentale, è un monologo chitarristico gilmouriano, un pianto lontano che si adagia dolce su tappeto di tastiere offerto da Wrigh: tantissima atmosfera che permette ad ognuno di noi di vagare e perdersi nella propria anima.
Si cresce, si cambiano gusti, le canzoni che una volta ritenevi fondamentali per la tua crescita cedono il posto ad altre, ma è bello constatare come alla base di tante cose ci sia sempre la musica a tenere vivi i ricordi.
Nota a margine:
Non si tratta di una recensione di un album ("The Division Bell"), non si tratta di fatto di una recensione anche se alla base c'è una canzone ("Marooned" dei Pink Floyd). Vuole semmai essere una riflessione appoggiata a una piccola recensione (se mai ce ne fosse ancora bisogno di parlare e incensare i Floyd), un tentativo di dire che la musica va ascoltata con il cuore, va sentita, va legata ai ricordi e non lasciata a sottofondo passivo. E' una molla fortissima, una ancora indistruttibile che ci permetterà sempre, ovunque, di restare in contatto con il nostro passato e allo stesso tempo avere indicazioni sul nostro futuro.

Marooned

https://www.debaser.it/pink-floyd/marooned/recensione

mercoledì 6 febbraio 2019

Viaggi musicali



Amo viaggiare perché mi aiuta a scoprirmi, a conoscermi, a reinventarmi. Ogni viaggio, anche se si tratta di soli dieci giorni, è un'occasione di crescita, se entri in sintonia con il posto nel quale ti trovi riesci alle volte a scoprire lati di te che non conoscevi, ed a svilupparli. Così ogni viaggio è figlio di quello precedente, porta con sé il tuo "io" trasformato e mutato, è quindi un'evoluzione.
La Musica è a suo modo anche lei un viaggio, mentale stavolta: con il tempo, album dopo album, cresci, maturi, ti evolvi, apprezzi cose che non avresti mai apprezzato prima o, di contro, detesti quanto avevi ascoltato fino a l'altro ieri.
E quando lo spostarsi fisico e mentale si uniscono, quando addirittura il secondo ti permette di rivivere le emozioni del primo, accade una specie di magia. Allora ti sembra di essere lì, su quel traghetto che nell'estate del 2012 solcava con te a bordo il freddo mare norvegese, in quella tratta apparentemente infinita che separava Flåm da Bergen. Seduto a poppa osservavo la terra allontanarsi pian piano, il verde delle montagne che si alternava a flash rossi e blu della bandiera norvegese che, garrendo al vento, talvolta si frapponeva tra me e la terraferma. La giornata era splendida, il cielo limpido sembrava riflettere l'azzurro del mare, e non viceversa; non era freddo, almeno per gli standard norvegesi, vero è però che sul ponte della nave il vento si faceva sentire. Me ne stavo seduto semplicemente a fissare le onde incresparsi e le coste boscose darsi il cambio una dopo l'altra, seduto con le gambe incrociate e le mani in tasca, senza pensare a niente, con solo il mio fido lettore MP3 e la musica di sottofondo. La pace era tale che a un certo punto mi ero anche addormentato, o almeno, ero in uno stato di dormiveglia piacevole, rilassante, in accordo con il mondo e con quanto mi circondava, fosse esso una foresta, una cascata, il mare o un fiordo.
Alcune ore dopo il traghetto attraccava a Bergen, ed io non mi ero mai spostato da quella panchina a poppa della nave. Scendendo la scaletta in legno e metallo mi sentivo diverso, cambiato, arricchito. Quel viaggio nel viaggio mi aveva cambiato, solo che al tempo ancora non lo sapevo. Per fortuna oggi i frutti di quel cambiamento sono ancora qui con me, li rinnovo ogni volta, li porto sempre con me, li rinverdisco e li arricchisco, e li ringrazio per avermi reso un po' migliore.
E quando meno me lo aspetto, anche quando sono comodamente seduto su una panchina in un parco a leggere, con in cuffia un disco, ecco che questi ricordi affiorano, riallacciandosi con quello che sto ascoltando in quel momento. Una folata di vento freddo in una limpida e soleggiata giornata d'inverno, ed è di nuovo magia.
Mi sono avvicinato a Osi and the Jupiter solo pochi giorni fa, ma ne sono rimasto folgorato: dietro questo progetto si cela la mente dello statunitense Sean Deth, che nel settembre 2017 pubblica il presente "Uthuling Hyl".
Da un rapido sguardo alla cover e alle suggestioni dell'artwork possiamo pensare di essere di fronte ad un emulo dei Wardruna: diciamo che per un 30% è così, ma la proposta del Nostro prende per fortuna le distanze dal sopra menzionato gruppo. Si tratta di un album di folk ambient, con percussioni tribali e sciamaniche che, unite ad elementi di drone e synth vanno a tessere atmosfere mistiche ed ipnotiche, che conciliano la meditazione e l'introspezione. Nella pagina Bandcamp di Osi and the Jupiter si legge che sin dalla sua nascita "the project has been spiritual connection between nature and the will of the old Gods – channelled through various representations of life, death and rebirth, this connection speaks through these musical creations, resonating as wordless tributes to these nebulous yet fundamental concepts". Non c'è quindi connotazione geografica, a seconda delle esperienze dell'ascoltatore può richiamare i fiordi norvegesi o le foreste del nordamerica, i canti tribali dei popoli del freddo nord europeo o lo sciamanesimo dei nativi. Ci vuole la combinazione ottimale di eventi e situazioni affinché si riesca ad entrare in sintonia con questi nove pezzi, ma una volta che la connessione si è creata se ne ottiene un viaggio di gran bellezza e magia, intimo, riflessivo e calmante.
Musicalmente forse non è un disco per tutti, eppure per l'universalità del modo con il quale parla ai nostri spiriti mi sento di dire che ognuno di noi potrebbe riuscire a trovare una parte di sé in questo percorso musicale.

https://osifolk.bandcamp.com/album/uthuling-hyl

https://www.debaser.it/osi-and-the-jupiter/uthuling-hyl/recensione