Entrò dalla finestra e si posò sulla sponda del letto: era notte e nessuno la vide o sentì entrare, ma di fatto non c'erano poi molte persone in giro. Tese il capo verso la porta e sentì solo il russare della persona che dormiva nella stanza vicina, i grilli in giardino e il respiro lento, affannoso, che spesso cedeva il passo ad una lugubre apnea, della donna, distesa immobile sul letto.
Da secoli aveva svolto quel compito, e stasera sulla carta non avrebbe dovuto fare differenza, eppure c'era qualcosa di strano, provava compassione per quella personcina, logorata da un male tremendo che la mangiava da dentro; percepiva ancora attorno al suo letto il calore delle lacrime dei familiari che si erano avvicendati nel corso dei giorni per salutarla, e decise di attendere ancora un po' prima di portarla con sé. Dal capezzale volò su una trave al di sopra del letto, in un angolino buio, e lì si rannicchiò e attese la venuta del giorno.
Il sole non tardò ad arrivare e con esso i primi familiari, che iniziavano il solito incessante stanco e triste viavai: lei li guardava, uno dopo l'altro, vedeva nei loro cuori, percepiva le loro storie, sentiva le loro intenzioni e capiva subito se erano sincere oppure no. C'era il marito, desolato e vinto dalla tristezza, i fratelli e sorelle della malata, che cercavano di mascherare al meglio, secondo il loro carattere, la tristezza che li lancinava; c'erano i suoi nipoti accompagnati dai rispettivi
compagni (mariti e mogli), e tutti, anche chi non era parente stretto ma che era comunque parte di quell'abbraccio immaginario di persone, tutti soffrivano a modo loro, tutti vedendola ansimare e cercare aria ripensavano ai momenti che avevano condiviso.
La civetta attese un po', poi sentì che il tempo stava scivolando dalle dita della donna, dita sempre più fredde per via di una morte sempre più pressante: il volto si faceva ogni minuto più scavato, l'apnea sempre più prolungata, il battito del cuore sempre più flebile. Nel momento in cui il sole era più alto, forse per lei il momento peggiore visto che a quell'ora normalmente se ne stava ben rintanata nel fitto del bosco, sfruttò uno dei rari attimi in cui la donna era stata lasciata sola per scendere dalla sua trave e volarle vicino al volto, abbastanza vicino da toccarla con le sue piume. In quell'attimo il respiro dell'allettata si fece profondo, e poi il nulla la avvolse: ma l'anima, quella no, quella era ben salda e impressa negli occhi della traghettatrice alata, che volò veloce fuori dalla finestra e scomparve nel vicino bosco.
Il primo a rientrare fu il marito, che accortosi della dipartita della moglie, chiamò tutti i parenti, che piano piano fecero il loro ingresso nella camera per porre il loro ultimo saluto alle spoglie ormai fredde. Loro non lo sapevano ma tramite gli occhi scuri del pennuto che aveva salvato la sua anima la donna li stava guardando e ringraziando uno ad uno, anche solo per aver condiviso con lei gli ultimi attimi di una vita che avrebbe potuto essere più lunga, ma che le aveva dato gioie sufficienti ad andarsene con la pace nel cuore.
Sono passati più di quattro anni dall'ultimo lavoro degli americani Alda, quel “Tahoma” che, per chi segue le vicende della (ormai non più) nuova ondata di black targato USA, costituisce uno dei capisaldi del Cascadian Black Metal. Supportati da un'etichetta ben radicata nel suolo americano e ben calzante da un punto di vista etico e di pensiero, i Nostri si riafacciano sul mercato con “Passage”, un disco che prende spunto da alcuni momenti del suo predecessore per evolversi verso forme più riflessive e ragionate. “Tahoma” era ancestrale e feroce in certi momenti, mentre il nuovo lavoro, pur non rinunciando affatto al lato sanguigno e selvaggio del black, pone maggiormente in risalto i saliscendi emotivi che nel precedente lavoro costituivano invece il ponte tra una sezione più marcatamente “metal” ed una più folk. Mi viene quasi da dire che, nel modo di suonare, i nostri si siano spinti quasi ai confini del post rock (che comunque, a ben pensarci, costituisce da sempre a mio avviso una delle radici del black cascadiano), partendo da arpeggi acustici che si assommano, crescono, strabordano e deflagrano in riff elettrici dal coinvolgente piglio emozionale.
Tirando le somme, meglio o peggio di “Tahoma”? Pareggio, due facce della stessa medaglia, i punti deboli di un lavoro sono stati corretti dall'altro e viceversa. Va riconosciuto il gran cuore di questi ragazzi, che pur non stravolgendo nulla in un genere che ormai, seppur giovane, ha già detto molto della sua personalità, hanno saputo regalare ai loro fan e più in generale agli ascoltatori della scena un lavor intimo e notturno, ragionato, riflessivo e appagante, forse meno immediato del precedente, ma che saprà sicuramente regalare emozioni a chi saprà farlo suo.
The Clearcut
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