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giovedì 24 novembre 2011

La vita che tremola negli alberi morti

Il freddo si stava avvicinando lo sentivano. Lo sentivano nelle loro stanche ossa, nelle loro dita a malapena coperte da guanti logori, nei loro piedi, rinvoltolati in quelle che una volta erano scarpe. Non era il primo anno che erano su quella strada, e anche se non sapevano che mese fosse sapevano che il freddo sarebbe arrivato. Il tempo, questo sconosciuto: i giorni si erano accumulati alle loro spalle, e senza un punto di riferimento sembravano tutti uguali gli uni agli altri, e anche il cielo, sempre plumbeo, e il paesaggio, grigio e brullo, non aiutavano a differenziare i momenti che si assommavano, stancamente, nelle loro vite.
Di tanto in tanto qualche albero crollava, spoglio scheletro senza vita di quella che una volta era una creatura rigogliosa, metafora di ciò che stava accadendo, piano piano, a ogni uomo su quella terra che ormai sembrava aver voltato le spalle al genere umano. L'uomo non riusciva a riposare, i suoi sonni erano turbati da incubi che gli ricordavano di come tutto era iniziato: i fuochi nella notte, la follia. E il giorno non era di certo meglio, passato a girovagare tra relitti di automobili, città fantasma e carcasse di esseri viventi sparse un po' ovunque. Dilagava la violenza primordiale, il cannibalismo era l'unico nutrimento di tanti “uomini”, anche se era ormai più logico parlare di bestie. E loro due resistevano strenuamente, andavano lungo quella strada, talvolta mano nella mano, lui e suo figlio, e portavano una luce nel loro cuore, una speranza, un bagliore che il padre avrebbe cercato di difendere a ogni modo. E quando pensava a questo accarezzava la sua vecchia pistola, e pensava a quegli unici due colpi in canna, e si chiedeva se, quando sarebbe stato il momento, il suo figlioletto sarebbe stato in grado di esploderli.
Cala la nebbia ed eccoli lì, mano nella mano, a camminare parlando del mare, e di come una volta era azzurro. Trascinano i piedi sempre di più, e via via che si perdono nell'orizzonte brumoso la fiamma pare svanire, ma eccola che riappare, tremolante, segno che può esserci vita ovunque, anche in quelli che apparentemente sembrano esseri alberi e legni marci destinati a sparire da un giorno all'altro.
Sempre lì siamo, il post black metal, ma non solo. I Falls of Rauros sembrano avere uno spiccato gusto per la melodia e la malinconia, che trasudano dai frequenti stacchi di quiete che infarciscono ogni loro brano. Tra rallentamenti acustici e ferali accelerazioni, tra doppie casse impazzite e dolci chitarre, quello che si staglia di fronte ai nostri occhi (o nelle nostre menti) è un paesaggio solo a prima vista desolato, nel quale l'uomo ha rinunciato a vivere secondo le leggi "logiche” e si è affidato più ai suoi primordiali istinti di sopravvivenza. “The Light That Dwells in Rotten Wood” è uno splendido scorcio solo inizialmente inaccessibile, una vetta che, una volta conquistata, ci lascia estasiati di fronte a nebbiosi e infiniti panorami. E perdonateli se ogni tanto si perdono in qualche digressione di troppo o sembrano non venire al dunque: come una fitta nebbia che avvolge tutto e rende tutto uniforme così le struggenti melodie intessute da questi ragazzi sapranno riassorbire eventuali lacune.

http://www.debaser.it/recensionidb/ID_35944/Falls_Of_Rauros_The_Light_That_Dwells_in_Rotten_Wood.htm

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