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mercoledì 30 novembre 2011

The mortal way


"You are mortal: it is the mortal way.
You attend the funeral, you bid the dead farewell.
You grieve.
Then you continue with your life.
And at times the fact of her absence will hit you like a blow to the chest,
and you will weep. But this will happen less and less as time goes on.
She is dead.
You are alive.
So live."


04.08.11

Il rincorrersi dei sogni

I sogni ricorrenti mi hanno sempre affascinato. Non ricordo di averne avuti da bambino, la cosa è iniziata più tardi nel tempo, da qualche anno a questa parte, e ogni tanto, certe notti, si riaffacciano nei miei pensieri, quasi per farmi visita, per ricordarmi che sono ancora lì.
Sono assieme ai miei ex compagni di classe, nel mio liceo, dobbiamo andare in palestra ma, non so per quale motivo, cerchiamo di passare dalla palestra femminile che ahinoi è chiusa; una volta arrivati il nostro professore ci da un Super Tele per giocare a pallone fuoti, informandoci che il pallone di cuoio è bandito, qualcuno giocandoci ha rotto il vetro di una macchina. Come spesso accade nei sogni la narrazione fa un salto temporale e ci ritroviamo in corridoio, lamentandoci del fatto che la nostra professoressa di matematica non ha ancora fatto un'ora di lezione: cosa per me tutt'altro che negativa, dato che in matematica non ci ho mai capito nulla, ma l'esame di maturità si avvicina, per cui urge fare lezione e prepararsi. Ecco che comincia a salire l'ansia, è palpabile e viva, un magone che ti blocca anche fisicamente e che riesci a percepire anche al di fuori del sogno. Un compagno di classe emerge quasi dal nulla, e dice che è naturale non saper nulla di matematica, dato che sono ormai diversi anni che non la facciamo più: ecco che tutto si blocca, le facce si congelano, i movimenti di tutti paralizzati, il sogno svanisce e io mi risveglio, ma quel magone, quel sasso sullo stomaco, quello ancora rimane, e continuerò a sentirlo a lungo nella giornata.
Altre volte mi viene a trovare il mio piccolo micio persiano, che mi ha lasciato da ormai quasi dieci anni: niente di particolare, flash nei quali lo accarezzo, lui fa le fusa, giochiamo un po' eppoi tutto finisce, all'improvviso, come era iniziato. Questo sogno mi lascia sempre una dolce nostalgia, mi piace pensare che il legame con questo micio sia così forte che non si spezzi nemmeno con la morte, e che mi voglia venire a trovare anche nel sogno, pur di vedermi. Cosa insolita poi, da un po' di tempo a questa parte (almeno da quando ho preso un cane) il micio non si è fatto più vedere: un po' mi manca, mi ero abituato alla sua presenza "onirica", qualcuno direbbe che si è reincarnato nel nuovo cucciolo; non so come funzionano queste cose sinceramente, ma credo che vadano prese così come vengono.


07.03.11

martedì 29 novembre 2011

La falce, la clessidra, e un mantello


" (...) Era già alla porta. Uscì come portato dal vento. Attraversò l'orto quasi di corsa, aprì il cancelletto, due cavalli partirono al  galoppo, sotto il cielo grigio, non già verso il paese, no, ma attraverso le praterie, su verso il nord, in direzione delle montagne. Galoppavano, galoppavano.
E allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso, che mai e poi mai i secoli sarebbero bastati a colmare, si aprì nel suo cuore. Capì la storia del mantello, la tristezza del figlio e soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada, in attesa, chi fosse quel misterioso personaggio fin troppo paziente. Così misericordioso e paziente da accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre), affinché potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuori del cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente affamato."

Tratto da "Il Mantello" - D. Buzzati

11.03.11

Il giardino

“Here comes the sun” diceva George Harrison.
Lui si volta ed eccola, uguale ad allora, non si sa come riapparsa dalle lontane terre del nord Europa, terre che Lui ha sempre avuto paura di visitare. Paesi inospitali diceva, poco interessanti In realtà paura di rivederla dopo tanto tempo, dopo tante liti, dopo una separazione così dolorosa la cui ferita non si è ancora rimarginata, nonostante i baci e le carezze altrui che col tempo hanno tentato di lenirla. Eccola dicevamo, si guardano ed è come se non fosse passato neanche un attimo dall’ultimo giorno felice che hanno passato assieme. Si guardano.
“Vuoi sposarmi?” dice Lui.
“Sì”, dice Lei, “è passato tanto tempo, un altro matrimonio alle spalle, ma sì, voglio sposarti!”
“Dove sei stata finora? Dove sono le tue amiche, la Rossa, le due More…”
“Altre vite, altre strade” dice Lei, scostando un po’ gli occhi, schiva, come faceva una volta, come da abitudine.



Di colpo tutto il mondo attorno a loro cambia. Eccolo Lui, di fronte a un altare, in un giardino, nebbiolina intorno, fiori ovunque, di fronte a Lui un prete che, ne è certo, ha rivisto in qualche film commedia anni Ottanta. Poi arriva Lei, passi lenti e calibrati, un vestito bianco lungo che la avvolge, una scena che lui aspettava di vedere da anni ormai, e che ora finalmente si concretizzava.
Si guardano, negli occhi di Lei Lui rivede una vita presente passata e futura, ed è felice. Lei gli sorride.
Eppoi tutto finisce.

08.06.11

domenica 27 novembre 2011

Il libro dell'amore



Lo sapevo che sarebbe andata così, che mi sarei affezionato a questi personaggi, a queste facce che col tempo, stagione dopo stagione, sono diventati molto più che semplici attori di una sit-com. Sono diventati amici, sono le personificazioni dei miei sogni, dei miei pensieri, di ciò che spero possa avvenire e di ciò che, so già, non accadrà mai. Ho pianto nel vedere questo filmato lo ammetto, e mi sono sentito un po' vuoto, come quando saluti tanti buoni amici, o se vogliamo, tante parti di te stesso: e anche adesso, tra il ticchettio delle mie dita sulla tastiera, sento gli occhi gonfiarsi e la malinconia riaffiorare.

Il libro dell'amore

18.04.11

venerdì 25 novembre 2011

Soppesare le anime con la sabbia


Questo disco non esiste.
Questa figura sulla scogliera non si è mai buttata tra le onde del mare in tempesta, la sua vita non ha mai avuto una fine brusca e triste. Brusca e triste come solo può essere la fine portata da un suicidio ben lontano dall'essere titanico. Un suicidio che è, di fatto, l'ultima cosa che ti rimane prima del nulla, un'ala angelica che ti strappa alla vita verso altri luoghi. Questo buio non esiste. E infatti qua e là dalla pece del drone pare riaffiorare la luce, spiragli e barlumi di speranza che durano poco, hanno vita breve, di fatto come li percepisci già sono stati riassorbiti dalla massa di nubi che pulsano sopra la tua testa. Questo drone non esiste. E infatti è shoegaze, è doom, è atmosferico, ma è disperato, granitico e fosco come solo il drone sa essere.
Questo disco parla di suicidio, parla dell'apocalisse, parla di carni lacerate, di spazi estesi, parla di Delirio, Disperazione e Desiderio, parla di Sogno, e della sorella Morte, la cui voce pare ergersi sopra le altre dei suoi fratelli e sorelle. Questo disco è suicidio ma è anche amore, è una promessa lasciata cadere in un vulcano in eruzione e lì lasciata a sciogliersi miseramente. Questo disco non esiste, ma vive e risuona nelle mie orecchie come una delle più emozionanti cose che ho sentito in tempi recenti.


26.05.11

giovedì 24 novembre 2011

La vita che tremola negli alberi morti

Il freddo si stava avvicinando lo sentivano. Lo sentivano nelle loro stanche ossa, nelle loro dita a malapena coperte da guanti logori, nei loro piedi, rinvoltolati in quelle che una volta erano scarpe. Non era il primo anno che erano su quella strada, e anche se non sapevano che mese fosse sapevano che il freddo sarebbe arrivato. Il tempo, questo sconosciuto: i giorni si erano accumulati alle loro spalle, e senza un punto di riferimento sembravano tutti uguali gli uni agli altri, e anche il cielo, sempre plumbeo, e il paesaggio, grigio e brullo, non aiutavano a differenziare i momenti che si assommavano, stancamente, nelle loro vite.
Di tanto in tanto qualche albero crollava, spoglio scheletro senza vita di quella che una volta era una creatura rigogliosa, metafora di ciò che stava accadendo, piano piano, a ogni uomo su quella terra che ormai sembrava aver voltato le spalle al genere umano. L'uomo non riusciva a riposare, i suoi sonni erano turbati da incubi che gli ricordavano di come tutto era iniziato: i fuochi nella notte, la follia. E il giorno non era di certo meglio, passato a girovagare tra relitti di automobili, città fantasma e carcasse di esseri viventi sparse un po' ovunque. Dilagava la violenza primordiale, il cannibalismo era l'unico nutrimento di tanti “uomini”, anche se era ormai più logico parlare di bestie. E loro due resistevano strenuamente, andavano lungo quella strada, talvolta mano nella mano, lui e suo figlio, e portavano una luce nel loro cuore, una speranza, un bagliore che il padre avrebbe cercato di difendere a ogni modo. E quando pensava a questo accarezzava la sua vecchia pistola, e pensava a quegli unici due colpi in canna, e si chiedeva se, quando sarebbe stato il momento, il suo figlioletto sarebbe stato in grado di esploderli.
Cala la nebbia ed eccoli lì, mano nella mano, a camminare parlando del mare, e di come una volta era azzurro. Trascinano i piedi sempre di più, e via via che si perdono nell'orizzonte brumoso la fiamma pare svanire, ma eccola che riappare, tremolante, segno che può esserci vita ovunque, anche in quelli che apparentemente sembrano esseri alberi e legni marci destinati a sparire da un giorno all'altro.
Sempre lì siamo, il post black metal, ma non solo. I Falls of Rauros sembrano avere uno spiccato gusto per la melodia e la malinconia, che trasudano dai frequenti stacchi di quiete che infarciscono ogni loro brano. Tra rallentamenti acustici e ferali accelerazioni, tra doppie casse impazzite e dolci chitarre, quello che si staglia di fronte ai nostri occhi (o nelle nostre menti) è un paesaggio solo a prima vista desolato, nel quale l'uomo ha rinunciato a vivere secondo le leggi "logiche” e si è affidato più ai suoi primordiali istinti di sopravvivenza. “The Light That Dwells in Rotten Wood” è uno splendido scorcio solo inizialmente inaccessibile, una vetta che, una volta conquistata, ci lascia estasiati di fronte a nebbiosi e infiniti panorami. E perdonateli se ogni tanto si perdono in qualche digressione di troppo o sembrano non venire al dunque: come una fitta nebbia che avvolge tutto e rende tutto uniforme così le struggenti melodie intessute da questi ragazzi sapranno riassorbire eventuali lacune.

http://www.debaser.it/recensionidb/ID_35944/Falls_Of_Rauros_The_Light_That_Dwells_in_Rotten_Wood.htm

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...e T. S. Eliot



(...) At the violet hour, when the eyes and back
Turn upward from the desk, when the human engine waits
Like a taxi throbbing waiting
I Tiresias, though blind, throbbing between two lives
Old man with wrinkled female breasts, can see
At the violet hour, the evening hour that strives
Homeward, and brings the sailor home from sea
The typist home at teatime, clears her breakfast, lights
Her stove, and lays out food in tins
Out of the window perilously spread
Her drying combinations touched by the sun's last rays
On the divan are piled (at night her bed)
Stockings, slippers, camisoles, and stays
I Tiresias, old man with wrinkled dugs
Perceived the scene, and foretold the rest -
I too awaited the expected guest
He, the young man carbuncular, arrives
A small house agent's clerk, with one bold stare
One of the low on whom assurance sits
As a silk hat on a Bradford millionaire
The time is now propitious, as he guesses
The meal is ended, she is bored and tired
Endeavours to engage her in caresses
Which still are unreproved, if undesired
Flushed and decided, he assaults at once;
Exploring hands encounter no defence;
His vanity requires no response
And makes a welcome of indifference
(And I Tiresias have foresuffered all
Enacted on this same divan or bed;
I who have sat by Thebes below the wall
And walked among the lowest of the dead.)
Bestows one final patronising kiss
And gropes his way, finding the stairs unlit
She turns and looks a moment in the glass
Hardly aware of her departed lover;
Her brain allows one half-formed thought to pass:
"Well now that's done: and I'm glad it's over."
When lovely woman stoops to folly and
Paces about her room again, alone
She smoothes her hair with automatic hand
And puts a record on the gramophone. (...)

W. Blake...


Little Lamb, who made thee?
Dost thou know who made thee?
Gave thee life, and bid thee feed
By the stream and o'er the mead;
Gave thee clothing of delight,
Softest clothing, woolly, bright;
Gave thee such a tender voice,
Making all the vales rejoice!
Little Lamb, who made thee?
Dost thou know who made thee?
Little Lamb, I'll tell thee,
Little Lamb, I'll tell thee:
He is called by thy name,
For He calls Himself a Lamb.
He is meek, and He is mild;
He became a little child.
I a child, and thou a lamb,
We are called by His name.
Little Lamb, God bless thee!
Little Lamb, God bless thee!

Home away from home



Mancano ancora quasi due mesi, penso saranno giorni lunghissimi, ma poi sarà come un ritorno a casa. La mia città lontano dalla mia città, così mi piace chiamare Dùn Èideann: la conobbi per la prima volta nel 2007, e dopo tanti viaggi, tanti posti visti, tante bellezze visitate, conserva ancora un posto d'onore nei miei ricordi. Il negozio di orsetti-fai-da-te in Princess Street; il monumento eretto in onore di Walter Scott; il Waverly Bridge, ai cui angoli stavano sempre immancabili suonatori di cornamuse; i giardini attigui a Princess Street, col chiosco al centro; l'orologio floreale; la Ross Fountain; l'HMV e l'H&M; il Royal Mile e i suoi mille cunicoli, vie e viuzze; l'Avalanche Records; l'austero Castello; le vie ciottolate che conducono al suo cuore; il cimitero degli animali; il cannone che ogni dì segna le 13:00; i panorami mozzafiato; il Black Bull in Grassmarket e gli altri mille pub; il suono delle cornamuse ovunque nell'aria; il profumo d'erba bagnata e di stoffa per kilt appena lavorata; il chiacchiericcio incomprensibile e cantilenante; il piccolo Greyfriars Bobby e il suo cimitero; il negozio di vestiti del darkettone dal bellissimo accento posh; l'Arthur's Seat; Calton Hill e le sue dodici colonne; le sudate cime raggiunte a suon di bestemmie e fatica, poi rinfrancate da un'ottima birra sulla via del rientro; quel mare e quelle isolette in lontananza, che non ho potuto raggiungere ma che stavolta, spero, toccherò. Quattro anni fa Dùn Èideann fu per me questo, e molto altro che sicuramente mi sto dimenticando, ma tra non molti giorni finalmente potrò rinfrescare questi miei ricordi. E quando, dall'alto dell'aereo, comincerò a rivedere quel verde misto a marrone e grigio, metterò su questa canzone e mi abbandonerò tra le braccia della mia città lontano dalla mia città.

14.02.11

...qualche mese dopo...

Stamani alle 6:15 c'era già il sole. Il tempo di prepararmi per fare la solita passeggiata con la cucciola prima di andare a lavoro che erano le 6:15 e l'aria che filtrava attraverso le finestre del corridoio si era fatta rossastra, calda, tinteggiata com'era dalle tende color arancio. Scosto una tenda e col cane in braccio osservo quest'aria mattutina: sa di fresco, lo percepisco anche se non ho aperto la finestra, la mia cucciola in braccio osserva ipnotizzata il sole che lentamente si sta levando.
Esco dando un'occhiata di sfuggita al cielo limpidissimo, quasi estivo. Faccio due passi, sento sopra di me il verso di alcuni uccelli che si posano su un albero: alzo lo sguardo, per un attimo questo grido mi ha portato in un altro posto, un'altra città in un'altra nazione, un luogo a me carissimo. Riapro gli occhi e cerco la fonte di questo suono: peccato, non era lui...


...peccato, non trovarsi di nuovo lì...


"Slowly moving through this immensity
I fly, swimming in this darkblue sky
It's cold, I'm scared and besides rust
Even ice covers these doors"

21.04.11

Sull'amicizia

 



"Ho imparato che la miglior specie di amico è quel tipo con cui puoi star seduto in un portico o camminare insieme, senza dire una parola, e quando vai via senti che è come se fosse stata la migliore conversazione mai avuta."

12.02.11

mercoledì 23 novembre 2011

...e quando meno te l'aspetti, ti volti e vedi il cardo



Un annetto: tanto è durato il mio blog passato, prima che qualche testone decidesse di chiudere la piattaforma su cui si basava per darsi al commercio di suonerie e giochini vari (così pare).
Il cardo è però una bestiaccia, come la ginestra leopardiana non è che lo sradichi così facilmente... E quindi eccola di nuovo qui, la collina del cardo, la mia Thistle Hill, da un'altra parte però, e stavolta sperando di rimanerci.
Non ho molta voglia di importare i post vecchi, lo farò solo con alcuni, e quando mi andrà: è giusto così in fondo, aprii il blog per scrivere quello che volevo, e non voglio che qualcuno (in questo caso me stesso) mi obblighi a scrivere determinate cose solo per il "gusto" di ritrovarcele. Alcune di quelle pagine andranno perse? Pace, si vede che doveva andare così, si vede che erano solo sensazioni passeggere.
Che dire quindi, buona lettura e se vi va ditemi cosa vedete da questa collina: magari sarà lo stesso mondo che vedrò io, magari no, solo voi potrete dirmelo!