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mercoledì 27 marzo 2019

Asocialità e musica

Per noi asociali la musica è una benedizione divina.
Nell'ora scarsa di pausa che spezza la tua giornata lavorativa fuggi dall'ufficio alla ricerca di un po' di pace, giusto per ascoltare un po' i tuoi pensieri anziché quelli degli altri. Il "problema" si pone quando arrivi all'unico bar aperto in paese, vuoi prendere un caffè ma è pieno zeppo di colleghi. Incroci i loro sguardi, sorridi timidamente per salutarli, ma non vuoi parlare, non ce la fai proprio, non te la senti, non vuoi rompere il tuo flusso di pensieri, vuoi crogiolarti ancora per qualche minuto nella tua malinconia, nei tuoi ricordi, nel tuo isolamento.

Eppoi parte questo pezzo, e ti sembra di essere in un film.



Il pianoforte, la chitarra, le melodie ti cullano, vedi le bocche dei colleghi aprirsi al dialogo ma quello che senti è solo musica, senti finalmente quello che vuoi sentire, solo quello,
e ti piace.
Tutto si muove come in slowmotion, solo tu riesci a muoverti come se nulla fosse, fluttui in un mare che non ti tocca, ci sei ma non ci sei, ne sei immerso ma è come se tu ne fossi impermeabile,
e ti piace.
Ultimamente penso davvero che sarei una persona diversa senza la musica, più povera, più uguale a tante altre, e invece, per fortuna, riesco ancora a ritrovarmi.

venerdì 22 marzo 2019

So the story goes, and there will be fireworks, eventually



Da cosa ci rendiamo conto che siamo diventati "grandi"?
E' iniziato tutto con un sogno, nel quale, dopo quasi venti anni, riuscivo ad organizzare una cena di classe con i vecchi compagni delle superiori. La sera ci dovevamo incontrare nella Piazza della città, arrivando li vedo, sparpagliati qui e là, ne saluto uno, poi un altro, poi vedo il mio vecchio compagno di banco e ci abbracciamo di corsa dandoci qualche cazzotto nelle costole, come facevamo da ragazzi, in maniera bonaria. E' una sensazione strana, bellissima, calda, molto da teen movie se vogliamo, ma è appagante. Alla fine è un sogno, quello che vorremmo che fosse e che spesso invece non è.
Ci accorgiamo che siamo "grandi" quando, passando con la macchina di fronte alla casa dove siamo cresciuti, una marea di ricordi ti invadono la mente. Quando passavi i pomeriggi a giocare a calcio fuori, o a giocare alla Playstation, o quando interrompevi i compiti alle 16:30 per guardare Holly e Benji, o quando dovevi prepararti per la seconda prova di maturità, quella di matematica, ma poi se ne usciva tuo babbo con una boccia di vinsanto trovata chissà dove, e allora ciao compiti... In tutto due costanti, amici e una innocenza e una giusta noncuranza del domani, perché, appunto, era domani, e oggi c'erano altre cose da fare.
Ti accorgi che sei cresciuto quando perdi un genitore e il suo ricordo ti assale nei momenti in cui meno te lo aspetti, o quando devi comprare casa e ti senti piccolo piccolo, inadatto alla vita e alle sue sfide. Quando basta poco per commuoversi, una canzone, un disco suonato nel momento in cui sei più fragile, in cui ti senti più nudo di fronte a tutto e tutti. Quelle canzoni sono carezze, sono pacche sulle spalle, sono persone che ti dicono "è la vita, ci sono passati tutti, ce l'hanno fatta tutti, è normale che sia così". Quelle canzoni così semplici, eppure così coinvolgenti, così vere, come se le avessi scritte te se solo avessi saputo scrivere un po' più decentemente.
Stai crescendo quando ti rendi conto che è molto più facile commuoversi per la nostalgia delle cose che hai vissuto, dei ricordi, piuttosto che piangere lacrime di felicità per le cose che sai che succederanno, magari a breve, ma delle quali hai ancora tanta paura. Hai abbandonato infanzia e adolescenza quando aumentano sì le responsabilità, ma soprattutto aumentano le paure, soprattutto quella di deludere chi ti ama, chi ti sta vicino, e di deludere anche te stesso, gli ideali con i quali sei cresciuto, le cose che ti hanno detto e che ti hanno formato.
Non si è per sempre bambini, e chi dice di esserlo è un cazzaro. Si può però cercare di rivivere per un attimo quelle sensazioni, ricordando, piangendo, guardando un film, ascoltando un disco, o semplicemente abbracciando un vecchio amico, anche se solo in sogno. Ed è bello come il disco di una band sconosciuta ai più, forse adesso sciolta, mi abbia fatto riflettere su queste cose.
Scozzesi di Glasgow i There Will Be Fireworks escono nel 2009 con il loro primo omonimo full lenght. Il disco grazie al quale li ho conosciuti, il già recensito "The Dark Dark Bright", è forse l'apice della loro (breve, va detto) carriera, ma già in questo lavoro ci sono picchi di emotività e di classe rilevanti. Il loro è un post rock non strumentale, con un cantato che ricorda ora un Damien Rice, ora i Brand New, mentre la struttura portante dei pezzi è un saliscendi di emozioni, pause, accelerazioni, corse e rifiatate, tanto care ai conoscitori degli Explosions in the Sky.
Come ho già avuto modo di segnalare nel precedente scritto i Nostri hanno l'innata capacità di saper emozionare in maniera semplice, con piccole cose dal sapore universale e condivisibile. Fanno quella specie di "magia" grazie alla quale, con una combinazione di note, riescono a farti pensare a cose anche lontane dal testo del pezzo che stai ascoltando in quel momento, e ti fanno sciogliere come neve al sole, ti permettono di parlare con te stesso.
Non so dove siano ora questi ragazzi, se la band sia ancora attiva o se si sono divisi, online si trova poco... Ma sarò sempre debitore nei confronti della loro musica, che sa esserti amica senza chiederti nulla in cambio.

So the Story goes

https://www.debaser.it/there-will-be-fireworks/there-will-be-fireworks/recensione

martedì 19 marzo 2019

Il Giardino dell'Abbandono



Lo chiamavano il "Giardino dell'Abbandono" perché chi vi accedeva riusciva ad abbandonare tutte le sue paure, le preoccupazioni, le angosce. In questo giardino Proserpina era solita abbandonarsi a danze e risate con le sue sorelle, ingenuamente incurante del male, del dolore e della sofferenza che serpeggiavano all'esterno del Giardino, che tentavano invano di scavalcare le alte mura arrampicandosi come edera malvagia. Figlia di Cerere e Giove, mora, la pelle pallidissima infiammata da labbra e guance rosso sangue, gli occhi verdi smeraldo, svettava sulle sue sorelle per bellezza e grazia.
C'era una grotta in questo Giardino, nella quale le fanciulle non andavano mai: buia, umida, incorniciata dall'edera, sembrava emanare qualcosa di tremendo e arcano: era la porta degli Inferi, messa lì a monito della caducità della bellezza e della vita: il "Giardino dell'Abbandono" era un Eden per le creature non umane come Proserpina, ma per i comuni mortali assumeva i tratti di un luogo di passaggio, un momento di estrema libertà e vita immediatamente precedente l'abbandono dell'esistenza.
Dalla fredda grotta occhi rosso fuoco scrutavano bramosamente la vita nel giardino: Plutone, re degli Inferi, stanco della continua tenebra e del dolore nell'essere reietto in un mondo di tristezza e sofferenza, agognava la gioia e la felicità incarnate nelle fanciulle che popolavano il florido prato. Tra queste creature il Demone voleva Proserpina, si era innamorato della sua grazia, delle sue eteree fattezze, della sua leggiadria, la voleva a suo fianco per regnare all'Inferno, nella speranza che la ragazza potesse portare un po' di sole nella sua non-vita. E così un giorno uscì dalla grotta, sorprendendo la fanciulla che era seduta a raccogliere violette: la strinse in un abbraccio e incurante delle urla fuggì con lei nel suo Regno.
Nel regno delle Tenebre il Demone cercava di far sentire la ragazza a suo agio, le portava fiori, che però morivano dopo pochi istanti causa la mancanza di luce ed il troppo calore; le portava animali, che presto si fiaccavano per l'assenza di aria pulita; le portava cibi, che lei rifiutava perché sapeva che, una volta accettato qualcosa da mangiare dal regno degli Inferi, quella sarebbe stata per sempre la sua dimora.
E così il tempo passava, e Cerere, madre di Proserpina, non vedendola più iniziò a cercarla: la sua rabbia e angoscia aumentavano ogni giorno di più, smise di interessarsi al mondo, e così iniziarono carestie e siccità. L'umanità periva pian piano e Giove, per cercare di porre un freno a queste sofferenze, inviò il suo messo Mercurio a cercare la giovane: quando questi riuscì finalmente a trovarla non riconobbe nei suoi occhi la luce smeraldina che la contraddistinguevano. Per la troppa fame la fanciulla aveva infatti ceduto e aveva mangiato un chicco di melagrana, di fatto condannandosi ad essere sposa di Plutone e a non abbandonare più il regno delle Tenebre.
La furia di Cerere non si placò nel sapere la triste sorte riservata a sua figlia, e i giorni di carestia si trasformarono in mesi. Giove, arbitro della vicenda, impose quindi una condizione, che avrebbe di fatto messo d'accordo Plutone e Cerere: Proserpina avrebbe trascorso sei mesi nel mondo dei vivi, con sua madre nel Giardino dell'Abbandono, e sei mesi in quello dei morti, a regnare con Plutone negli Inferi.
Insieme sarebbe stata Regina dell'Estate e Padrona dell'Inverno, e quegli occhi color smeraldo non tornarono mai più a brillare come una volta, nemmeno quando erano illuminati dalla calda luce del sole.
"The Garden of Abandon" è la seconda prova a firma Monastery, monicker dietro il quale si nasconde Robb Kavjian dei 1476. Come nel precedente "Peculiar Storms" siamo di fronte a un album i cui riferimenti musicali possono essere ricercati nella musica ambient con inserti elettronici, folk e synth. Sebbene la critica faccia rientrare il genere proposto dall'Artista come "dungeon synth" sono totalmente assenti i connotati cupi e oscuri che caratterizzano gran parte dei questo genere: sarebbe quindi quasi più corretto parlare di "Fantasy Synth", a patto che esista questa etichetta.
Principale fonte di ispirazione di questo album è l'arte dei Preraffaelliti: il Nostro ha sviluppato una sorta di concept che dona una forma letteraria e musicale a questo affascinante movimento pittorico inglese, creando un mondo magico e delicato nel quale prendono vita personaggi storici, mitologici o delle favole. Valore aggiunto sono l'artwork del disco e i testi scritti a commento di ogni pezzo, necessari per rendere al meglio l'atmosfera che si vuole ricreare con la musica proposta.
Si tratta di un ascolto adattissimo a questa stagione, quando i rigori invernali lasciano il passo alle miti temperature primaverili, e la Natura si sta risvegliando pronta a raccontarci le storie meravigliose che ha sognato durante i suoi mesi di riposo.

The Garden of Abandon

https://www.debaser.it/monastery/the-garden-of-abandon/recensione

martedì 26 febbraio 2019

Romanticismo inglese/3



Ricordo di essermi svegliato abbastanza presto quella mattina. Ero in vacanza ma non mi importava, era una cosa che facevo volentieri.
Le vie di Glastonbury alle 6:00 di mattina erano ancora addormentate: nessuno in giro, giusto qualche senzatetto che dormiva sotto i portici della chiesa; l'aria era già fresca, frizzante, positivamente tesa, una caratteristica che ormai avevo imparato a conoscere e ad apprezzare, tipica di quel posto.
Mi incammino verso la Tor: superato il centro città e imboccata una via secondaria inizio a salire le scale ricavate nella terra, in cuffia le parole di un bardo inglese, mi parlano di leggende antiche, di nature incontrastate, di luoghi magici. Arrivo al cancello in cima alla scalinata, lo oltrepasso e inizio a salire la collina. Il cielo è splendidamente chiaro, intorno a me la tipica nebbiolina mattutina, mentre i belati delle pecore al pascolo fanno da contorno ai miei passi in solitaria. Arrivato a metà salita mi volto ad osservare il paesaggio: Glastonbury come Sleepy Hollow, una cittadina in una vallata affogata dalla bruma inglese, dormiente e pacifica. Ripresa la scalinata è un attimo arrivare ai piedi della Torre di San Michele: alzo gli occhi e la sua maestosità mi inebria. Si alza un leggero vento, i cardi dondolano, c'è una sensazione di elettricità nell'aria, di magia, di positività. Varcato l'ingresso della torre un raggio di sole mi sorprende e per un attimo mi acceca: quando riapro gli occhi ho davanti agli occhi la scena più bella di tutta la vacanza. Il sole che sorge in lontananza, i greggi di pecore sparpagliati lungo il pendio della collina, l'erba verde che asseconda il vento, e soprattutto la calma, la pace, la lontananza da tutto e da tutti e allo stesso tempo la comunione di anime e spiriti. Mi siedo dentro la Torre, in una delle panchine di pietra ricavate al suo interno, occhi chiusi, accarezzato ora dal vento, ora dal sole, e respiro. La magia del momento è amplificata dalla musica che ho in cuffia: è il bardo di prima, le sue parole calde, i cori che sostengono e abbracciano gli strumenti, tutto concorre nel rendere l'emozione del momento tangibile. Non succede nulla di speciale, alla fine sono solo una persona che se ne sta seduta con gli occhi chiusi dentro un'antica torre, aspettando il sorgere del sole e ascoltando musica, ma è questo "niente di speciale" che rende questi momenti così indimenticabili. E commoventi, quando mesi dopo ti trovi a riascoltare quella musica e a ripensare a quelle scene.
In un precedente scritto avevo parlato del debutto a firma Wolcensmen come di "un disco fatto di piccole cose, di piccoli gesti, di piccole emozioni e gioie, così come la natura inglese oggetto delle canzoni che lo compongono". Ebbene non posso che ripetere e enfatizzare questa descrizione. "Songs from the Mere" è un EP, una raccolta di pezzi che seguono il filo logico del precedente "Songs from the Fyrgen" allo stesso tempo però distanziandosene per certi aspetti. Musicalmente però le soluzioni scelte sono le medesime, chitarre arpeggiate, fiati, percussioni, tappeti di synth mai invasivi, cori, per un disco di neofolk/ambient da ascoltarsi tutto di un fiato.
Tutti coloro che hanno avuto esperienze non dissimili da quella descritta non avranno difficoltà a riviverle tra le tracce create dal Nostro. Per tutti gli altri un invito ad approcciarsi a questo lavoro con il cuore aperto e con la voglia di lasciarsi andare, per un attimo, ad atmosfere antiche e ricche di pathos.

Lady of the Depe

https://www.debaser.it/wolcensmen/songs-from-the-mere/recensione

martedì 19 febbraio 2019

Marooned



Ero piccolo, avrò avuto massimo dieci/undici anni.
I pomeriggi avevo l'abitudine di scendere in garage, dove mio babbo lavorava, e di passare del tempo nella Fiat 131 di famiglia, il "macchinone" come lo chiamavo io, l'auto che usavamo per i viaggi lunghi quando per esempio andavamo al mare d'estate. Una volta dentro accendevo lo stereo e mi mettevo a giocherellare con le tante cassette che il mio babbo era solito tenere lì dentro. Accanito fan del tape trading lui, credo che di originali ne avrà avuti tre o quattro, tutto il resto erano nastri copiati, fossero esse compilation di musica registrata dalla radio o copie di album originali. Ricordo che mio babbo era solito fare una cosa molto carina, che anche io negli anni a venire ho rifatto, non sapendo che forse, inconsciamente, me l'aveva passata lui: faceva le copertine. Prendeva immagini ritagliate da giornali, o foto sue, le riassemblava con colla e forbici, le ritagliava nel formato corretto e le attaccava al cartoncino della custodia della cassetta. Così non sapevi mai cosa avevi tra le mani, se una compilation o una copia di un album, e lo scoprivi solo aprendo la custodia della cassetta.
Tra tutte le cassettine una mi colpiva sempre tantissimo: ritraeva due teste che si osservavano, a bocca aperta, occhi sgranati, in un campo. Nessuna scritta, nessuna parola, l'atmosfera era sospesa, indefinita, sognante e arcana. Non lo so perché mi affascinava moltissimo questa cover, era confortante e inquietante al tempo stesso, esprimeva allo stesso tempo calore e freddo.
Passano gli anni, crescevo prendendo la mia strada, sbagliando, facendo scelte giuste, e allo stesso tempo quel babbo mi osservava andare per la mia via, rimettendomi in carreggiata se c'era bisogno, ma tutto sommato rimanendo sempre nell'ombra. Negli anni affino i miei gusti musicali, accresco la mia "libreria", ma il caso vuole che alla fine, più o meno consciamente, un giorno mi imbatto nuovamente in quella copertina, o meglio, in quell'album. Stavolta sapevo perfettamente di cosa si trattava, nel tempo avevo iniziato a conoscere, apprezzare, fino a innamorarmi dei Pink Floyd, e il giorno che rividi nuovamente quella copertina, e vi associai i testi e la musica che questa rappresentava, riuscii finalmente a dare un senso a quella percezione che avevo di inquietudine e freddo.
Passano altri anni, quel babbo che era stato sempre al mio fianco non c'è più, ma ovviamente continua a rivivere nei miei ricordi, nelle sue/nostre cose, e nelle canzoni. Ieri avevo messo su, distrattamente, "The Division Bell" dei Pink Floyd, disco che mi è sempre piaciuto, sebbene non lo ritenessi pietra miliare della discografia degli inglesi. Ne ho sempre apprezzato i suoni, la dolcezza con la quale Gilmour suona la chitarra, il calore consolatorio della sua voce, le atmosfere miti, rassicuranti, tratteggiate dalle tastiere di Wright, e quell'alone nostalgico che animava tutto il lavoro. "High Hopes" è stata per molto tempo il mio pezzo preferito, ma ieri, ascoltando "Marooned", ho avuto un brivido.
marooned: adjective UK, /məˈruːnd/ US - /məˈruːnd/, left in a place from which you cannot escape.
Ho dato un senso all'inquietudine che ultimamente mi sta assalendo, al senso di "mancanza" di qualcosa, di un pezzo di cuore probabilmente. E come vuole il concept alla base del disco anche io percepisco assenza di comunicazione, lontananza, mancanza, "silence that speaks so much louder than words" prendendo in prestito le parole di un altro brano Floydiano. Il brano, strumentale, è un monologo chitarristico gilmouriano, un pianto lontano che si adagia dolce su tappeto di tastiere offerto da Wrigh: tantissima atmosfera che permette ad ognuno di noi di vagare e perdersi nella propria anima.
Si cresce, si cambiano gusti, le canzoni che una volta ritenevi fondamentali per la tua crescita cedono il posto ad altre, ma è bello constatare come alla base di tante cose ci sia sempre la musica a tenere vivi i ricordi.
Nota a margine:
Non si tratta di una recensione di un album ("The Division Bell"), non si tratta di fatto di una recensione anche se alla base c'è una canzone ("Marooned" dei Pink Floyd). Vuole semmai essere una riflessione appoggiata a una piccola recensione (se mai ce ne fosse ancora bisogno di parlare e incensare i Floyd), un tentativo di dire che la musica va ascoltata con il cuore, va sentita, va legata ai ricordi e non lasciata a sottofondo passivo. E' una molla fortissima, una ancora indistruttibile che ci permetterà sempre, ovunque, di restare in contatto con il nostro passato e allo stesso tempo avere indicazioni sul nostro futuro.

Marooned

https://www.debaser.it/pink-floyd/marooned/recensione

mercoledì 6 febbraio 2019

Viaggi musicali



Amo viaggiare perché mi aiuta a scoprirmi, a conoscermi, a reinventarmi. Ogni viaggio, anche se si tratta di soli dieci giorni, è un'occasione di crescita, se entri in sintonia con il posto nel quale ti trovi riesci alle volte a scoprire lati di te che non conoscevi, ed a svilupparli. Così ogni viaggio è figlio di quello precedente, porta con sé il tuo "io" trasformato e mutato, è quindi un'evoluzione.
La Musica è a suo modo anche lei un viaggio, mentale stavolta: con il tempo, album dopo album, cresci, maturi, ti evolvi, apprezzi cose che non avresti mai apprezzato prima o, di contro, detesti quanto avevi ascoltato fino a l'altro ieri.
E quando lo spostarsi fisico e mentale si uniscono, quando addirittura il secondo ti permette di rivivere le emozioni del primo, accade una specie di magia. Allora ti sembra di essere lì, su quel traghetto che nell'estate del 2012 solcava con te a bordo il freddo mare norvegese, in quella tratta apparentemente infinita che separava Flåm da Bergen. Seduto a poppa osservavo la terra allontanarsi pian piano, il verde delle montagne che si alternava a flash rossi e blu della bandiera norvegese che, garrendo al vento, talvolta si frapponeva tra me e la terraferma. La giornata era splendida, il cielo limpido sembrava riflettere l'azzurro del mare, e non viceversa; non era freddo, almeno per gli standard norvegesi, vero è però che sul ponte della nave il vento si faceva sentire. Me ne stavo seduto semplicemente a fissare le onde incresparsi e le coste boscose darsi il cambio una dopo l'altra, seduto con le gambe incrociate e le mani in tasca, senza pensare a niente, con solo il mio fido lettore MP3 e la musica di sottofondo. La pace era tale che a un certo punto mi ero anche addormentato, o almeno, ero in uno stato di dormiveglia piacevole, rilassante, in accordo con il mondo e con quanto mi circondava, fosse esso una foresta, una cascata, il mare o un fiordo.
Alcune ore dopo il traghetto attraccava a Bergen, ed io non mi ero mai spostato da quella panchina a poppa della nave. Scendendo la scaletta in legno e metallo mi sentivo diverso, cambiato, arricchito. Quel viaggio nel viaggio mi aveva cambiato, solo che al tempo ancora non lo sapevo. Per fortuna oggi i frutti di quel cambiamento sono ancora qui con me, li rinnovo ogni volta, li porto sempre con me, li rinverdisco e li arricchisco, e li ringrazio per avermi reso un po' migliore.
E quando meno me lo aspetto, anche quando sono comodamente seduto su una panchina in un parco a leggere, con in cuffia un disco, ecco che questi ricordi affiorano, riallacciandosi con quello che sto ascoltando in quel momento. Una folata di vento freddo in una limpida e soleggiata giornata d'inverno, ed è di nuovo magia.
Mi sono avvicinato a Osi and the Jupiter solo pochi giorni fa, ma ne sono rimasto folgorato: dietro questo progetto si cela la mente dello statunitense Sean Deth, che nel settembre 2017 pubblica il presente "Uthuling Hyl".
Da un rapido sguardo alla cover e alle suggestioni dell'artwork possiamo pensare di essere di fronte ad un emulo dei Wardruna: diciamo che per un 30% è così, ma la proposta del Nostro prende per fortuna le distanze dal sopra menzionato gruppo. Si tratta di un album di folk ambient, con percussioni tribali e sciamaniche che, unite ad elementi di drone e synth vanno a tessere atmosfere mistiche ed ipnotiche, che conciliano la meditazione e l'introspezione. Nella pagina Bandcamp di Osi and the Jupiter si legge che sin dalla sua nascita "the project has been spiritual connection between nature and the will of the old Gods – channelled through various representations of life, death and rebirth, this connection speaks through these musical creations, resonating as wordless tributes to these nebulous yet fundamental concepts". Non c'è quindi connotazione geografica, a seconda delle esperienze dell'ascoltatore può richiamare i fiordi norvegesi o le foreste del nordamerica, i canti tribali dei popoli del freddo nord europeo o lo sciamanesimo dei nativi. Ci vuole la combinazione ottimale di eventi e situazioni affinché si riesca ad entrare in sintonia con questi nove pezzi, ma una volta che la connessione si è creata se ne ottiene un viaggio di gran bellezza e magia, intimo, riflessivo e calmante.
Musicalmente forse non è un disco per tutti, eppure per l'universalità del modo con il quale parla ai nostri spiriti mi sento di dire che ognuno di noi potrebbe riuscire a trovare una parte di sé in questo percorso musicale.

https://osifolk.bandcamp.com/album/uthuling-hyl

https://www.debaser.it/osi-and-the-jupiter/uthuling-hyl/recensione

venerdì 11 gennaio 2019

The Garden, venti anni dopo



Ho ritrovato una recensione che scrissi anni fa su "Sunday 8P.M." dei Faithless. E' stato bello rileggerla, è stato come rivedermi allo specchio ma più maturo, cresciuto per così dire.
Per paura di perderla voglio riportarla qui di seguito:

"Qualcosa di speciale, spirituale, mi lega a "Sunday 8 PM" dei Faithless. E' una sensazione di freddo, smarrimento, nostalgia, un perenne senso di assenza... Un po' ciò che si prova dopo che si è stati abbandonati da quello che si credeva essere l'Amore eterno, l'impotenza che ti attanaglia derivante da quel peso che improvvisamente è tutto sulle spalle di uno (quando prima era condiviso).
Lunghe passeggiate in notturna e in solitudine, il rimorso e il rimpianto tuoi compagni, eco fedele di passi sull'erba appena bagnata dalla rugiada, e, sporadica, la rabbia, che a tratti ti infiamma con punte di orgoglio. "The Garden", traccia posta in apertura al disco, ha sempre significato questo per me, una dolce culla autunnale prima dell'invernale "Bring My Family Back".
I ricordi più amari sono proprio delle bestiacce, tessere di domino affiancate le une alle altre in attesa che ne crolli anche solo una, per collassate tutte quante tirandosi dietro un carrozzone di memorie che magari non c'entrano nulla, ma che sanno quando è il momento giusto per saltare fuori, così, per fustigarti un po' di più (la dolcezza dell'autocommiserazione).
"Bring My Family Back" mi trascina in un gorgo fatto di sbiadite immagini, e anche oggi, a quasi dieci anni di distanza da quando, per la prima volta, ascoltai il presente disco, le sensazioni sono ancora le stesse: ferite che continuano a bruciare, lacrime calde che paiono riaffiorare come fumi trasportati da un uggioso vento novembrino.
Il dolore dell'essere stati lasciati dicevo, la solitudine. "My Lover's Gone" canta Dido, mentre sfogli lentamente lettere, cartoline ("Postcards") che hanno segnato importanti momenti della tua vita in due. Ora solo il vuoto, solo foto e cartoline, che, checché ne dica la gente, per quanto bei ricordi saranno per te sempre bocconi troppo amari da digerire completamente.
E quando l'ora si è fatta tarda, quando ormai quel giardino nel quale passeggi è divenuto una marea che ciclicamente ti investe e sommerge, quando ormai ti sembrano anni che sopravvivi alla tua stessa malinconia, decidi che è il momento di tornare a casa, di riprendere possesso della tua vita, di riunire i pezzi del puzzle ("Take The Long Way Home").
E' bello come la tua decisione, la tua forza d'animo, si sgretola come nulla non appena il sorriso di lei si riaffaccia nella tua mente. Perché te ne vai? "Why Go?" "Why go, when you can stay for a while?" Quegli occhi, quella bocca, quell corpo, ti richiamano, si prendono gioco della tua tanto sventolata (ma fittizia) rinnovata forza di animo, riducendoti di nuovo a una barchetta di carta in balia di onde impetuose.
E d'improvviso la rivelazione. Il tuo stesso male, la tua malinconia, la sofferenza e l'infelicità causate dall'essere stato abbandonato, saranno loro a curarti, loro guariranno le tue ferite, da esse ripartirai, non lottando contro di loro ma facendole tue, usandole per sopravvivere ("This is my church, this is where I heal my hurts").
Adesso riesci a vedere il giardino con nuovi occhi, quelli della dolce malinconia. Tutto intorno è placido, tranquillo, il cielo è pulito, non un alito di vento, le macchine sono lontane, non disturbano. Tutti paiono dormire in un'atmosfera metafisica come una città già deserta alle otto di domenica sera ("Sunday 8 PM"). E' questo nirvana, questa ritrovata serenità che ti fanno immaginare una scena che, in un'altra situazione, ti avrebbe ucciso, ma che ora si erge a manifesto della tua ritrovata personalità: lei e il suo nuovo lui, abbracciati, lei che gli accarezza i capelli, incurante del passato appena vissuto con te ("Killer's Lullaby").
Ormai il passato è alle spalle, o meglio è parte di te, ti ha fatto crescere, ti è servito per capire che, è vero, quel che non ammazza ingrassa.
La musica è strana, mai avrei immaginato che un disco di un genere lontano da quelli che di solito ascolto, "Sunday 8 PM" dei Faithless, avrebbe potuto scortarmi così fedelmente lungo un anno intero della mia vita, un periodo nero e travagliato certo, ma che a conti fatti forse avrebbe potuto essere peggiore, se non fosse stato (anche) per questo disco."