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mercoledì 12 dicembre 2018
People have ceased to ask me about... me
Il bello di certe persone è che non si finisce mai di conoscerle.
L'ho incontrato anni fa, per caso, ma mi era sempre rimasto un po' indifferente: non dico antipatico eh, nemmeno simpatico però. Lo sguardo buono ma sfuggevole, il sorriso timidamente appena abbozzato quando ci incrociavamo, il suo fare un po' solitario che lo portava a rifuggire i gruppi numerosi. Che poi la cosa bella era che, tutte le volte che ci parlavo venivano fuori sempre conversazioni interessanti, segno che cose da dire e idee da condividere ne aveva, le teneva per sé forse. Al tempo pensavo che mai e poi mai avrei voluto scambiarmi con lui, mi era sempre apparso un po' solo e infelice, il mio esatto opposto in quel momento. Poi come spesso succede si cresce anche quando si pensa di essere già maturi, la vita ci cambia in modi non comprensibili, ci adattiamo al flusso degli eventi, ci pieghiamo per sopravvivere anche, ci trasformiamo. Ed ecco che, dopo anni che non ci vedevamo, l'ho incontrato nuovamente, ed è stato come guardarsi allo specchio: di colpo io ero come lui, ci siamo salutati con lo stesso identico sorriso timido e abbozzato, ci siamo scambiati due parole di circostanza, eppoi discorso dopo discorso è passata un'ora senza che nemmeno me ne rendessi conto. Il cielo grigio e monotono di una fredda giornata di metà dicembre si sposava perfettamente con il freddo pungente di un vento che sembrava portarsi la neve di lì a poco: appoggiati ad un muricciolo abbiamo ripercorso tutti gli anni durante i quali ci eravamo persi. Abbiamo parlato di come siamo chiusi in noi stessi, di come abbiamo costruito una fortezza nella quale abbiamo incluso solo alcune persone scelte, lasciando fuori tutte le altre, alle quali timidamente sorridiamo, per poi passare oltre. Abbiamo parlato di qualche acciacco che ci sta martoriando ma che non ci ha ancora bloccato dal fare quello che ci piace e che ci regala gioia, pace e libertà; ci siamo confessati la lacrima facile che abbiamo sviluppato nel vedere certi film che una volta avremmo rifuggito come la peste (quanti pianti su "Il favoloso mondo di Amélie"!); ci siamo confessati che a volte ci sentiamo soli, che proviamo nostalgia. Ma è una nostalgia strana, è sia di cose già vissute che di cose che non abbiamo vissuto affatto, ma che ci mancano in qualche modo. Non ci siamo definiti infelici eh, solo, ecco, tremendamente nostalgici e malinconici: ma non siamo riusciti a capire se sia un male o un bene, in fondo per adesso stiamo bene così.
Ci siamo salutati, promettendoci di non perderci di nuovo, poi ognuno per la sua strada: a un certo punto mi sono voltato per vedere dove stesse andando, ma era sparito nel nulla, volatilizzato, come se non fosse mai esistito. Mi sono detto che forse è normale per lui, sparire così senza che nessuno se ne accorga, ma sono comunque convinto che ci rincontreremo presto.
Vengono da La Spezia i Morose, e non sono poi una novità per me, avendo avuto modo di apprezzare e amare a suo tempo "On the Back of Each Day", il successore del qui presente "People have ceased to ask me about You". Proprio con questo album i Nostri sviluppano quel genere tutto loro che poi sarà riproposto anche successivamente, un mix di cantautorato, folk apocalittico à la Black Heart Procession, minimalismo di reminiscenze Nick Drake, post rock e slowcore. Se ne ottiene un disco tardo invernale, riflessivo, malinconico ma non triste: per qualcuno sarà magari spallamento e nenia-rock, ma sono convinto che in certi momenti, o in giornate fredde e nuvolose di fine autunno, un disco del genere può essere un valido specchio per fermarci e riflettere un po' su noi stessi. Con un timido sorriso.
Un Plaisir funeste
https://www.debaser.it/au-506319/people-have-ceased-to-ask-me-about-you/recensione
venerdì 23 novembre 2018
2018: a (metal) retrospective
Il 2018 che sta per chiudersi è stato un anno musicalmente ricchissimo per me. Soprattutto nella seconda metà sono usciti molti dischi che sono entrati subito di diritto tra i miei favoriti: ventate d'aria fresca in un panorama che stava diventando per i miei gusti un po' troppo statico. Con ogni probabilità si tratta della lista più lunga da quando ho aperto questo blog (o almeno da quando pubblico questa sorta di retrospettiva)... Ma va bene così, la buona musica non è mai abbastanza!
E sì, lo so, manca poco più di un mese alla fine dell'anno, e magari spunta ancora qualcosa di nuovo e di interessante, ma non ce la facevo a trattenere ulteriormente questa listona!!!
Crippled Black Phoenix - "Great Escape"
I CBP sono un supergruppo tra le cui fila militano (o hanno militato) membri di band importanti nel panorama musicale come Mogwai o Electric Wizard, anche se il grosso del progetto ruota attorno al polistrumentista Justin Greaves. In ogni disco dei Nostri confluiscono le varie esperienze dei componenti, e questo disco non fa eccezione. Semplificando siamo di fronte a un album di prog elegante, raffinato ma assolutamente non manieristico o cervellotico. Echi di Pink Floyd, Porcupine Tree, Pain of Salvation e Anathema dei primi 2000 si alternano senza soluzione di continuità nelle varie tracce, unendosi ad una verve tipica del post rock più malinconico e ad accenni di folk. Ne esce un disco affascinante, non di facile assimilazione ma in grado di regalare grosse soddisfazioni una volta che lo si è padroneggiato.
Winterfylleth - "The Hallowing of Heirdom"
Tra le più belle rivelazioni dell'anno! Gli inglesi hanno spogliato la loro musica di qualsiasi reminiscenza black dando alle stampe un commovente omaggio folk alla loro terra, alla natura e alle tradizioni. Il disco trasuda romanticismo (in termini letterari), ha un'eleganza assoluta e non annoia: chiunque ami l'Inghilterra e soprattutto la sua natura, le sue campagne e i suoi boschi non potrà non amare questo disco!
Esben and the Witch - "Nowhere"
Aspettavo con una certa ansia il nuovo lavoro degli anglo/tedeschi, e dopo un attimo di sbandamento non ne sono rimasto deluso, tutt'altro!
"Nowhere" prende in parte le mosse da "Older Terrors" ma si muove in maniera più intima e subdola. Le fiabe di mostri che i nostri sembravano raccontarci nel precedente lavoro sono forse adesso meno inquietanti delle storie che Rachel e soci vogliono comunicarci con questo disco, più reali, più mature e urtanti, sebbene musicalmente siamo forse di fronte ad un disco meno potente del predecessore, ma egualmente affascinante e prorompente.
Raum Kingdom - "Everything & Nothing"
La band irlandese si era fatta conoscere con un EP molto promettente, e le attese sono state mantenute con il loro primo full. Siamo di fronte ad una band di onesto ma allo stesso tempo molto personale post metal, che viaggia su atmosfere sì rarefatte ma alla bisogna anche feroci, il tutto mantenendo un piglio solenne e quasi sacrale. Molto spesso mi sono tornate alla mente certe atmosfere tipiche degli Amenra, merito sia delle intelaiature melodiche intense e coinvolgenti, sia della bellissima voce del cantante, in grado di passare da un soffice clean a un violento scream di matrice hc. Molto personali e appaganti, consigliati soprattutto a chi cerca una variante (non un clone!) del gruppo belga sopra citato.
Eneferens - "The Bleakness of our Consistant"
Eccoci di fronte ad un'altra sorpresa! Il progetto Eneferens (si tratta infatti di una one man band) mischia in maniera abilissima molti generi non solo di metal, creando una miscela assolutamente affascinante e ben fatta, nella quale i vari riferimenti sono sì distinguibili ma non costituiscono un patchwork senza senso. Il Nostro è riuscito a dare una precisa forma alle sue idee, confezionando un disco di black atmosferico molto melodico e "orecchiabile". Un po' come recentemente avevano fatto anche gli Ashbringer (made in USA, pure loro), Eneferens unisce abilmente black, death, doom, folk, leggeri echi di prog e addirittura post metal, per dare vita a un disco freddo nelle atmosfere ma caldissimo e coinvolgente dal lato emotivo.
Wayfarer - "World's Blood"
Abbandonati i retaggi pagan black gli americani Wayfarer si dedicano ad un personalissimo post black metal dalle forti tinte cinematografiche, con specifico focus sulla potenza della natura della loro zona (il Colorado) e sul sangue versato un paio di secoli fa dai popoli che abitavano quelle terre prima della colonizzazione. E' come se le atmosfere post apocalittiche dei GY!BE si muovessero su scenari di far west ormai in declino, con come base una solenne colonna sonora di post black metal. Tribalismo, riff tirati e coinvolgenti, una prestazione vocale sofferta ma sentita fanno di questo disco uno delle migliori uscite dell'anno!
Red Apollo - "The Laurels of Serenity"
I tedeschi Red Apollo sono artefici dell'ennesima prestazione maiuscola! Siamo in territori di post metal (quello tedesco, che molto spesso unisce al genere echi più o meno forti di crust e post hc), ma in questo caso i Nostri sembrano alleggerire i toni (sembrano!), con pezzi che hanno un piglio quasi post rock nel modo in cui crescono e deflagrano, e molto spazio è stato lasciato alle melodie. Le tracce sono eterogenee e ben pensate, e dimostrano insieme l'amore del gruppo per queste sonorità ma allo stesso tempo la loro perizia tecnica e l'abilità nel rendere una proposta distinguibile in un panorama da anni sovraccarico.
Solstice (UK) - "White Horse Hill"
Ecco un altro disco che attendevo impazientemente! Non mi definisco amante delle sonorità epic doom, ma ho sempre avuto un debole per i britannici Solstice. Capaci di melodie dalla forte componente insieme epica, tragica e titanica, i Nostri mi hanno sempre affascinato sin da quel capolavoro di "New Dark Age". Con questo album gli albionici ci ammaliano con un riffing epico, una voce a tratti toccante e tantissima atmosfera, con un "fare doom" che è tipicamente britannico. Graditissimo ritorno!
Vouna - "s/t"
Dal fitto dei boschi della Cascadia emerge sul finire del mese scorso Vouna, una one man (o meglio, "woman") band di assoluto rilievo. Dietro questo progetto si nasconde infatti Yianna Bekris di Olympia, Washington, che coadiuvata per l'occasione dai fratelli Weaver (Wolves in the Throne Room) ha realizzato quello che viene descritto come un disco di lento funeral doom, in realtà più dalle parti di un black/doom rarefatto, che fa uso di synth e passaggi acustici. Sono tracce dal sound catartico, solenne e rurale, ma anche lacerante quando prendono piede le chitarre... Un riferimento il più possibile vicino a Vouna possono essere pezzi dei WITTR come "Dea Artio", "Cleansing" o "A Looming Resonance", con i quali Vouna condivide atmosfere sciamaniche e andamento ritualistico. Un progetto di valore, dal livello molto alto che potrebbe regalarci in futuro altre belle sorprese.
Ancst - "Ghost of timeless Void"
In questo 2018 mi sono avvicinato per la prima volta in maniera razionale ai tedeschi Ancst, ed è stato un incontro coi fiocchi! Estremamente prolifica la band è fautrice di un suono riconducibile al filone (neo)crust e post black tedesco, ma ad ogni uscita cerca di rinnovarsi aggiungendo elementi debitori da altre sonorità, che anche se non stravolgono i vari album li rendono in qualche modo più particolari. Travolgenti!
Panopticon - "The Scars of Men on the once nameless Wilderness pt2"
Lo ammetto, non sono mai stato un estimatore di Austin Lunn e del suo progetto Panopticon: troppo difficile da assimilare per me, un black troppo spesso sfaccettato e particolare per essere compreso pienamente. Poi in questo 2018 esce il doppio “The Scars of Man on the Once Nameless Wilderness”, e resto ammaliato dalla bellezza del secondo dei dei dischi che compongono questo lavoro. Lasciato in un angolo il black, qui Panopticon spoglia la sua musica di ogni rimando al mondo del metal, regalandoci dieci pezzi che sono di fatto un tributo al folk americano, allo slowcore e al (dark) country. C’è intimità in questo disco, introspezione, e questa manciata di canzoni si meritano tutta la pace e la tranquillità di questo mondo per permetterci di pensare, di riflettere, semplicemente di prenderci un attimo per noi stessi. Un piccolo capolavoro.
Marnero - "Quando vedrai le Navi in Fiamme sarà giunta l'Ora"
Altra (ennesima!) sorpresa del 2018 sono gli italianissimi (di Bologna) Marnero, ensemble hc/posthc (per semplificare) che ho avuto la fortuna di apprezzare live durante un concerto. I Nostri sono come detto fautori di un posthc dalla grande emozionalità, potente, travolgente, che non lascia respiro, un po' come un mare oscuro in burrasca le cui onde ti travolgono continuamente. Gli attimi di pace, le fughe melodiche e le progressioni tipiche del post rock, sono largamente controbilanciate da un'urgenza narrativa e verbale notevole: versi su versi sono recitati con foga, mentre muri di chitarre si elevano e collassano continuamente. Si tratta di un lavoro notevole, che può non essere apprezzato da tutti, ma se hai la fortuna e la pazienza di capirlo si impossessa di te e non ti lascia più!
Holy Fawn - "Death Spells"
In chiusura o quasi metto questa band di recentissima scoperta, che mi ha stregato e che non mi sta dando tregua da almeno due settimane. Americani, gli Holy Fawn hanno messo in piedi un disco impressionante per intensità e forza, con influenze che vanno dal dream pop al post rock, dallo shoegaze al post black metal, dal postpunk con riverberi darkwave all’emocore. Un momento percepisci gli I Love You but I’ve chosen Darkness, un attimo dopo i Thursday o certe esplosioni tipiche degli Envy, mitigate magari da una voce che tanto ricorda i Sigur Ros. Poi arriva una folata di vento gelido e sopraggiunge Clouds Collide con tutta la sua carica emotiva unita al post black metal; ma c’è della dolcezza in questa malinconia, ci sono il dream pop e lo shoegaze degli ultimi Klimt 1918 a mitigare il gelo con tiepide e rassicuranti carezze di calore. Per il momento in cui l'ho scoperto si tratta di un disco perfetto per questo momento dell’anno (fine autunno/inverno), travolgente se si stanno vivendo momenti della propria vita in cui i fantasmi giocano a nascondino con i propri ricordi, un album intimo ma allo stesso tempo adatto a tutti. Si tratta insomma di una vera e propria gemma, che non dovete assolutamente lasciarvi sfuggire.
Avast - "Mother Culture"
Da non confondersi con l'antivirus per pc con lo stesso nome, i norvegesi Avast sul finire del mese scorso ha dato alle stampe il suo primo full, "Mother Culture", concettualmente basato sulla nascita e progressivo degrado della nostra civiltà, parallelo allo sfruttamento ed esaurimento delle risorse del pianeta. Un disco drammatico, violento e quasi crudele, con sonorità che richiamano al blackgaze dei vari Ghost Bath, Numenorean e Deafheaven, con una poetica alla base che è un po' la marcia in più di questa band!
...e infine, menzione d'onore! Nel 2016 il progetto Wolcensmen (dietro il quale si nasconde il chitarrista dei Winterfylleth Dan Capp) ha dato alle stampe il debutto autoprodotto “Songs from the Fyrgen”, ma in questo 2018 è stato finalmente ristampato e ridistribuito da un'etichetta così da dargli tutta la visibilità che si merita. Siamo nuovamente in territori folk, diciamo che è un po' una faccia di una medaglia sulla quale, nell'altro lato, sono raffigurati i Winterfylleth con il loro ultimo lavoro. Anche in questo lavoro sentiamo limpida fierezza, umiltà, amore per le proprie origini e per il proprio passato: con dolcezza il Nostro descrive una natura armoniosa e al tempo stesso apra, una terra piena di contrasti, di colori solo apparentemente pallidi, di sapori da scoprire pian piano. Un riferimento potrebbe essere cercato in certe cose fatte dagli Empyrium o appunto nei Winterfylleth, anche se qui forse l'accento è più marcato verso un neofolk/pagan. Ora che è facilmente reperibile non deve mancare nella vostra raccolta se siete fan di queste sonorità!
Per questo 2018 direi che è tutto! E' stata una carrellata molto lunga attraverso generi musicali diversi eppure molto spesso intrecciati gli uni con gli altri. Personalmente sento di aver avuto la fortuna di poter apprezzare bellissimi lavori durante tutto questo anno, molti dei quali, ne sono certo, resteranno a lungo nella mia personale top 20 (come minimo)! Ci vediamo tra un anno con la prossima retrospettiva!
E sì, lo so, manca poco più di un mese alla fine dell'anno, e magari spunta ancora qualcosa di nuovo e di interessante, ma non ce la facevo a trattenere ulteriormente questa listona!!!
Crippled Black Phoenix - "Great Escape"
I CBP sono un supergruppo tra le cui fila militano (o hanno militato) membri di band importanti nel panorama musicale come Mogwai o Electric Wizard, anche se il grosso del progetto ruota attorno al polistrumentista Justin Greaves. In ogni disco dei Nostri confluiscono le varie esperienze dei componenti, e questo disco non fa eccezione. Semplificando siamo di fronte a un album di prog elegante, raffinato ma assolutamente non manieristico o cervellotico. Echi di Pink Floyd, Porcupine Tree, Pain of Salvation e Anathema dei primi 2000 si alternano senza soluzione di continuità nelle varie tracce, unendosi ad una verve tipica del post rock più malinconico e ad accenni di folk. Ne esce un disco affascinante, non di facile assimilazione ma in grado di regalare grosse soddisfazioni una volta che lo si è padroneggiato.
Winterfylleth - "The Hallowing of Heirdom"
Tra le più belle rivelazioni dell'anno! Gli inglesi hanno spogliato la loro musica di qualsiasi reminiscenza black dando alle stampe un commovente omaggio folk alla loro terra, alla natura e alle tradizioni. Il disco trasuda romanticismo (in termini letterari), ha un'eleganza assoluta e non annoia: chiunque ami l'Inghilterra e soprattutto la sua natura, le sue campagne e i suoi boschi non potrà non amare questo disco!
Esben and the Witch - "Nowhere"
Aspettavo con una certa ansia il nuovo lavoro degli anglo/tedeschi, e dopo un attimo di sbandamento non ne sono rimasto deluso, tutt'altro!
"Nowhere" prende in parte le mosse da "Older Terrors" ma si muove in maniera più intima e subdola. Le fiabe di mostri che i nostri sembravano raccontarci nel precedente lavoro sono forse adesso meno inquietanti delle storie che Rachel e soci vogliono comunicarci con questo disco, più reali, più mature e urtanti, sebbene musicalmente siamo forse di fronte ad un disco meno potente del predecessore, ma egualmente affascinante e prorompente.
Raum Kingdom - "Everything & Nothing"
La band irlandese si era fatta conoscere con un EP molto promettente, e le attese sono state mantenute con il loro primo full. Siamo di fronte ad una band di onesto ma allo stesso tempo molto personale post metal, che viaggia su atmosfere sì rarefatte ma alla bisogna anche feroci, il tutto mantenendo un piglio solenne e quasi sacrale. Molto spesso mi sono tornate alla mente certe atmosfere tipiche degli Amenra, merito sia delle intelaiature melodiche intense e coinvolgenti, sia della bellissima voce del cantante, in grado di passare da un soffice clean a un violento scream di matrice hc. Molto personali e appaganti, consigliati soprattutto a chi cerca una variante (non un clone!) del gruppo belga sopra citato.
Eneferens - "The Bleakness of our Consistant"
Eccoci di fronte ad un'altra sorpresa! Il progetto Eneferens (si tratta infatti di una one man band) mischia in maniera abilissima molti generi non solo di metal, creando una miscela assolutamente affascinante e ben fatta, nella quale i vari riferimenti sono sì distinguibili ma non costituiscono un patchwork senza senso. Il Nostro è riuscito a dare una precisa forma alle sue idee, confezionando un disco di black atmosferico molto melodico e "orecchiabile". Un po' come recentemente avevano fatto anche gli Ashbringer (made in USA, pure loro), Eneferens unisce abilmente black, death, doom, folk, leggeri echi di prog e addirittura post metal, per dare vita a un disco freddo nelle atmosfere ma caldissimo e coinvolgente dal lato emotivo.
Wayfarer - "World's Blood"
Abbandonati i retaggi pagan black gli americani Wayfarer si dedicano ad un personalissimo post black metal dalle forti tinte cinematografiche, con specifico focus sulla potenza della natura della loro zona (il Colorado) e sul sangue versato un paio di secoli fa dai popoli che abitavano quelle terre prima della colonizzazione. E' come se le atmosfere post apocalittiche dei GY!BE si muovessero su scenari di far west ormai in declino, con come base una solenne colonna sonora di post black metal. Tribalismo, riff tirati e coinvolgenti, una prestazione vocale sofferta ma sentita fanno di questo disco uno delle migliori uscite dell'anno!
Red Apollo - "The Laurels of Serenity"
I tedeschi Red Apollo sono artefici dell'ennesima prestazione maiuscola! Siamo in territori di post metal (quello tedesco, che molto spesso unisce al genere echi più o meno forti di crust e post hc), ma in questo caso i Nostri sembrano alleggerire i toni (sembrano!), con pezzi che hanno un piglio quasi post rock nel modo in cui crescono e deflagrano, e molto spazio è stato lasciato alle melodie. Le tracce sono eterogenee e ben pensate, e dimostrano insieme l'amore del gruppo per queste sonorità ma allo stesso tempo la loro perizia tecnica e l'abilità nel rendere una proposta distinguibile in un panorama da anni sovraccarico.
Solstice (UK) - "White Horse Hill"
Ecco un altro disco che attendevo impazientemente! Non mi definisco amante delle sonorità epic doom, ma ho sempre avuto un debole per i britannici Solstice. Capaci di melodie dalla forte componente insieme epica, tragica e titanica, i Nostri mi hanno sempre affascinato sin da quel capolavoro di "New Dark Age". Con questo album gli albionici ci ammaliano con un riffing epico, una voce a tratti toccante e tantissima atmosfera, con un "fare doom" che è tipicamente britannico. Graditissimo ritorno!
Vouna - "s/t"
Dal fitto dei boschi della Cascadia emerge sul finire del mese scorso Vouna, una one man (o meglio, "woman") band di assoluto rilievo. Dietro questo progetto si nasconde infatti Yianna Bekris di Olympia, Washington, che coadiuvata per l'occasione dai fratelli Weaver (Wolves in the Throne Room) ha realizzato quello che viene descritto come un disco di lento funeral doom, in realtà più dalle parti di un black/doom rarefatto, che fa uso di synth e passaggi acustici. Sono tracce dal sound catartico, solenne e rurale, ma anche lacerante quando prendono piede le chitarre... Un riferimento il più possibile vicino a Vouna possono essere pezzi dei WITTR come "Dea Artio", "Cleansing" o "A Looming Resonance", con i quali Vouna condivide atmosfere sciamaniche e andamento ritualistico. Un progetto di valore, dal livello molto alto che potrebbe regalarci in futuro altre belle sorprese.
Ancst - "Ghost of timeless Void"
In questo 2018 mi sono avvicinato per la prima volta in maniera razionale ai tedeschi Ancst, ed è stato un incontro coi fiocchi! Estremamente prolifica la band è fautrice di un suono riconducibile al filone (neo)crust e post black tedesco, ma ad ogni uscita cerca di rinnovarsi aggiungendo elementi debitori da altre sonorità, che anche se non stravolgono i vari album li rendono in qualche modo più particolari. Travolgenti!
Panopticon - "The Scars of Men on the once nameless Wilderness pt2"
Lo ammetto, non sono mai stato un estimatore di Austin Lunn e del suo progetto Panopticon: troppo difficile da assimilare per me, un black troppo spesso sfaccettato e particolare per essere compreso pienamente. Poi in questo 2018 esce il doppio “The Scars of Man on the Once Nameless Wilderness”, e resto ammaliato dalla bellezza del secondo dei dei dischi che compongono questo lavoro. Lasciato in un angolo il black, qui Panopticon spoglia la sua musica di ogni rimando al mondo del metal, regalandoci dieci pezzi che sono di fatto un tributo al folk americano, allo slowcore e al (dark) country. C’è intimità in questo disco, introspezione, e questa manciata di canzoni si meritano tutta la pace e la tranquillità di questo mondo per permetterci di pensare, di riflettere, semplicemente di prenderci un attimo per noi stessi. Un piccolo capolavoro.
Marnero - "Quando vedrai le Navi in Fiamme sarà giunta l'Ora"
Altra (ennesima!) sorpresa del 2018 sono gli italianissimi (di Bologna) Marnero, ensemble hc/posthc (per semplificare) che ho avuto la fortuna di apprezzare live durante un concerto. I Nostri sono come detto fautori di un posthc dalla grande emozionalità, potente, travolgente, che non lascia respiro, un po' come un mare oscuro in burrasca le cui onde ti travolgono continuamente. Gli attimi di pace, le fughe melodiche e le progressioni tipiche del post rock, sono largamente controbilanciate da un'urgenza narrativa e verbale notevole: versi su versi sono recitati con foga, mentre muri di chitarre si elevano e collassano continuamente. Si tratta di un lavoro notevole, che può non essere apprezzato da tutti, ma se hai la fortuna e la pazienza di capirlo si impossessa di te e non ti lascia più!
Holy Fawn - "Death Spells"
In chiusura o quasi metto questa band di recentissima scoperta, che mi ha stregato e che non mi sta dando tregua da almeno due settimane. Americani, gli Holy Fawn hanno messo in piedi un disco impressionante per intensità e forza, con influenze che vanno dal dream pop al post rock, dallo shoegaze al post black metal, dal postpunk con riverberi darkwave all’emocore. Un momento percepisci gli I Love You but I’ve chosen Darkness, un attimo dopo i Thursday o certe esplosioni tipiche degli Envy, mitigate magari da una voce che tanto ricorda i Sigur Ros. Poi arriva una folata di vento gelido e sopraggiunge Clouds Collide con tutta la sua carica emotiva unita al post black metal; ma c’è della dolcezza in questa malinconia, ci sono il dream pop e lo shoegaze degli ultimi Klimt 1918 a mitigare il gelo con tiepide e rassicuranti carezze di calore. Per il momento in cui l'ho scoperto si tratta di un disco perfetto per questo momento dell’anno (fine autunno/inverno), travolgente se si stanno vivendo momenti della propria vita in cui i fantasmi giocano a nascondino con i propri ricordi, un album intimo ma allo stesso tempo adatto a tutti. Si tratta insomma di una vera e propria gemma, che non dovete assolutamente lasciarvi sfuggire.
Avast - "Mother Culture"
Da non confondersi con l'antivirus per pc con lo stesso nome, i norvegesi Avast sul finire del mese scorso ha dato alle stampe il suo primo full, "Mother Culture", concettualmente basato sulla nascita e progressivo degrado della nostra civiltà, parallelo allo sfruttamento ed esaurimento delle risorse del pianeta. Un disco drammatico, violento e quasi crudele, con sonorità che richiamano al blackgaze dei vari Ghost Bath, Numenorean e Deafheaven, con una poetica alla base che è un po' la marcia in più di questa band!
...e infine, menzione d'onore! Nel 2016 il progetto Wolcensmen (dietro il quale si nasconde il chitarrista dei Winterfylleth Dan Capp) ha dato alle stampe il debutto autoprodotto “Songs from the Fyrgen”, ma in questo 2018 è stato finalmente ristampato e ridistribuito da un'etichetta così da dargli tutta la visibilità che si merita. Siamo nuovamente in territori folk, diciamo che è un po' una faccia di una medaglia sulla quale, nell'altro lato, sono raffigurati i Winterfylleth con il loro ultimo lavoro. Anche in questo lavoro sentiamo limpida fierezza, umiltà, amore per le proprie origini e per il proprio passato: con dolcezza il Nostro descrive una natura armoniosa e al tempo stesso apra, una terra piena di contrasti, di colori solo apparentemente pallidi, di sapori da scoprire pian piano. Un riferimento potrebbe essere cercato in certe cose fatte dagli Empyrium o appunto nei Winterfylleth, anche se qui forse l'accento è più marcato verso un neofolk/pagan. Ora che è facilmente reperibile non deve mancare nella vostra raccolta se siete fan di queste sonorità!
Per questo 2018 direi che è tutto! E' stata una carrellata molto lunga attraverso generi musicali diversi eppure molto spesso intrecciati gli uni con gli altri. Personalmente sento di aver avuto la fortuna di poter apprezzare bellissimi lavori durante tutto questo anno, molti dei quali, ne sono certo, resteranno a lungo nella mia personale top 20 (come minimo)! Ci vediamo tra un anno con la prossima retrospettiva!
martedì 20 novembre 2018
Looming Resonances
Ho scelto questa grotta perché non lontana dall'accampamento Chinook che mi ha ospitato ed addestrato alle pratiche sciamaniche durante tutti questi mesi: non me la sentivo di interrompere il legame con loro, sebbene l'esperienza che sto per intraprendere deve essere affrontata da solo. Inoltre riesco ancora a sentire in lontananza i loro tamburi rituali, le cui pulsazioni si sono ormai da tempo sostituite ai battiti del mio cuore.
Spostate le fronde che bloccano l'apertura inizio a scendere nel freddo ed umido cunicolo sotterraneo: con me solo una piccola torcia ad illuminare i miei passi; dietro di me la luce del sole si allontana sempre di più, e con essa ogni rumore. Via via che scendo abbandono alle mie spalle gli odori del muschio che tappezza le fredde pareti e del terriccio, soffice pavimento, presto sostituito dalla nuda roccia. In poco tempo raggiungo il punto più profondo della grotta, un nido oscuro, asettico, assolutamente lontano dalle interferenze umane eppure così vicino a quelle della Terra. Mi siedo, spengo la piccola torcia, e attendo che il digiuno che mi sono imposto faccia il suo effetto ed alteri le mie percezioni: chi sto aspettando necessita di un'attenzione particolare, non umana, non completamente razionale.
Occhi chiusi, il respiro tranquillo del mio corpo come unico flebile rumore, resto in ascolto non con l'udito ma con la pelle, con le palpebre chiuse, con il viso proteso verso il buio. Le mie guance sono sfiorate da una morbida carezza, accompagnata da un fruscìo rapido, ma questo suono, questo tocco di seta, svanisce presto, non si ferma. Avverto poi in lontananza, da qualche parte della grotta, quasi ci fosse un cunicolo ancora più sotto, uno scalpitare che man mano si avvicina, ma anche questo mi urta quasi con una folata di vento per poi scomparire.
Poi nel buio più totale è come se una luce rischiarasse la parete di fronte a me. Si fa via via più definita la sagoma di una donna, bellissima, nuda, capelli lunghi e neri. Mi guarda, mi fa cenno con la mano di avvicinarmi, ma i suoi occhi brillano in maniera innaturale: non mi alzo, non la seguo, con una fermezza non da me cerco di cancellarla dalla mia mente. La vedo adesso più cattiva, ghignante, e con un sibilo, con delle parole dette tra i denti digrignati (capisco solo "ki-sikil-lil-la-ke") svanisce.
Ormai deluso dalle vane attese faccio per alzarmi e tornarmene sui miei passi quando qualcosa accade: le mie mani sono sfiorate da quello che sembra essere un ramo, dalla consistenza ossea e molto robusto, che si muove. Qualcosa respira sulla mia mano, un muso di animale sembra, e capisco che quello che avevo inizialmente identificato come ramo sono in realtà corna. Avverto calore, gioia, sensazione di fratellanza (per quanto possa capirne io di fratelli, essendo figlio unico), ma è un attimo, e il tutto svanisce. Solo che stavolta, lo so, si tratta di quello che stavo aspettando: la mia fatica è stata premiata. Apro gli occhi, accendo la piccola torcia, e la grotta è come l'avevo lasciata, forse impercettibilmente più calda. Apro lo zaino, mangio qualcosa per rimettermi in forze, poi mi alzo e mi incammino nuovamente verso la luce del sole, risalendo la mia grotta. Sono entrato da solo, esco con un fratello.
Dietro Vouna si nasconde una sola persona, Yianna Bekris di Olympia, Washington. Questa città ha dato i natali in ambito metal a una band particolarmente collegata a questo progetto, i Wolves in the Throne Room, e infatti i fratelli Weaver hanno collaborato con l'artista nella realizzazione di queste cinque tracce, suonando alcuni strumenti o registrando il tutto. Ma il concept, l'idea madre, il songwriting e in generale le briglie di Vouna restano saldamente in mano alla Bekris. Annunciato come disco di lento funeral doom, siamo in realtà più dalle parti di un black/doom molto rarefatto, con largo uso di synth e passaggi acustici, catartico nel suo incedere solenne e rurale, ma anche lacerante quando prendono piede le chitarre (dal suono innegabilmente legato ai fratelli Weaver). ll paragone più diretto può essere fatto con pezzi dei WITTR come "Dea Artio", "Cleansing" o "A Looming Resonance", con i quali Vouna condivide atmofere sciamaniche e andamento ritualistico. All'interno dei pezzi le strutture giocano molto su climax ascendenti e su riff che si assommano gli uni sugli altri: quella che inizialmente può sembrare ripetizione è in realtà funzionale al pathos del pezzo.
Sebbene forse a tratti un po' acerbo il debutto di Vouna è un disco di valore, un progetto che va tenuto d'occhio perché potrebbe regalare in futuro graditissime sorprese. Non siamo ancora ai livelli raggiunti da una Chelsea Wolfe nelle sue ultime produzioni, ma il livello qualitativo è già dannatamente alto.
https://www.debaser.it/vouna/vouna/recensione
lunedì 19 novembre 2018
Hai paura del Bosco?
Ci sono boschi strani, cupi, ancestrali, rifugio per le nostre paure più arcane. Questi luoghi sono popolati da creature che di norma albergano solo nella nostra testa, nelle nostre paranoie, nei nostri incubi, esseri alimentati dalle nostre lacrime e dai nostri brividi, dai pianti di quando eravamo bambini ed avevamo paura a lasciare la mano calda e protettiva dei genitori, ma anche dalle incertezze che viviamo ogni giorno, "da grandi", lanciati in un mondo che non riusciamo a comprendere.
Questi boschi oscuri sono frondosi, non lasciano filtrare la luce, sono rigogliosi in maniera selvaggia e anarchica, con piante che si scavalcano per accaparrarsi uno spiraglio di sole. In essi niente è come sembra, per cui se ti incammini attraverso le fronde puoi imbatterti in una Cappuccetto Rosso cinica cacciatrice che, accortasi che la nonna è in realtà un famelico lupo mannnaro, non esita ad ucciderla brutalmente. Sadici nobili seviziano e torturano i propri sudditi anziché proteggerli dalle creature della foresta, mentre giovani avventurieri non esitano ad infierire le loro lame nei corpi tremanti di paura degli elfi che hanno sconfitto con subdoli tranelli.
Niente è come sembra abbiamo detto, per cui potresti addirittura provare anche pena per la Bestia che viene abbandonata dalla Bella dopo che la povera creatura è stata sedotta dalla ragazza salvo poi vedersi derubata della preziosa rosa, unica sua speranza di salvezza. I poveri lupi che allevano i bambini abbandonati nel bosco, per poi essere sterminati da quelle stesse creature, poi cresciute, che avevano salvato, o i vampiri che si innamorano delle proprie vittime e quando meno se lo aspettano vengono pugnalati dal cuore... Tutti questi poveri esseri alla fine sembrano quasi le vittime in questi boschi cupi, in cui tutto sembra essere sotto sopra.
Quello che ci spaventa di più spesso non è il mostro, il deforme, il solo apparentemente minaccioso. Il vero terrore, la paura, lo sconforto, queste sensazioni ci attanagliano con mani gelide quando a tradirci sono le nostre certezze, i nostri punti saldi, i nostri eroi che si rivelano essere sporchi arrivisti o cinici traditori. Quando, "da grandi", ti trovi da solo ad affrontare cose più grandi di te come la morte, l'incertezza verso il domani, i "se" che ogni giorno ti si presentano, in quei momenti pensi con nostalgia e malinconia a quei mostri brutti e paurosi che da bambino sono sempre stati i capri espiatori e i catalizzatori delle tue paure. Pensi a loro, e in fondo, forse, erano loro i "buoni", sono stati loro a farti crescere.
Certi boschi sono cupi, pericolosi, ma sanno mascherarsi bene, e per questo è ancora più difficile uscirne una volta che per sbaglio ci siamo addentrati tra gli alberi.
Sul finire di questo 2018 tornano gli Esben and the Witch (EATW), trio inglese con base in Germania che due anni fa ci aveva regalato lo splendido "Older Terrors". Il trio è capace di ricreare un'atmosfera magica e straniante, i cui ingredienti sono principalmente dream pop, post punk, gothic, post rock, e un certo oscuro cantautorato. Quello che ne otteniamo è, detto in poche parole, un viaggio negli incubi. Questo "Nowhere" sviluppa ulteriormente la formula creata nel precedente disco, parte da basi simili ma si muove verso direzioni leggermente diverse. Qui i Nostri dirigono il proprio tiro verso atmosfere più intime e ancor meno immediate: le paure, le angosce, a mio parere da sempre oggetto degli EATW, sono qui ancora più subdole, più striscianti, meno visibili. Il bosco attraverso il quale Rachel ci porta adesso è ancor più sinistro e pauroso se vogliamo. Con calma, ascolto dopo ascolto, veniamo catturati dalle melodie e dalle ritmiche travolgenti dei Nostri, che ci colpiscono ancora più in profondità, sollevando dubbi e timori ben nascosti. Diciamo che con "Older Terrors" i Nostri ci hanno raccontato delle fiabe tenebrose, ma con "Nowhere" ci mettono di fronte ai mostri veri, quelli davvero cattivi, quelli paurosi, e con successo ci trasportano in un mondo solo apparentemente meno oscuro, in realtà terribilmente annichilente.
Il disco necessita di molti ascolti per essere compreso, ma la lunghezza non proibitiva gioca in suo favore favorendone l'assimilazione. Gli Esben and the Witch si confermano ancora una volta come una delle band più estrose e "particolari" uscite negli ultimi anni.
Golden Purifier
https://www.debaser.it/esben-and-the-witch/nowhere/recensione
venerdì 16 novembre 2018
Un disco sull'assenza
Quanto sono forti le cose che non ci sono? Nel bilanciamento tra pieno e vuoto, che peso ha l’assenza nei confronti della presenza?
Sono in giardino, in una soleggiata mattina di fine novembre, il sole è alto e il cielo è sgombro, ma i raggi non riscaldano più (assenza di calore). Sono seduto sotto un albero, giocherello con le foglie marroni cadute dai rami, le prendo in mano, le stringo, si frantumano tra le mie dita. Il suono è piacevole, le foglie sono croccanti, ma sono morte (assenza di vita). Poi di colpo mi metto a pensare a una persona, al passato, a quando ero piccolo, e a quanto mi divertivo, d’autunno, a correre nel bosco e a sdraiarmi tra i mucchi di foglie dorate, mentre lo sguardo vigile ma divertito di questa persona vegliava su di me. Solo che questa persona adesso non c’è più, e il sorriso che ha animato il mio viso mentre ricordava si trasforma, il volto si fa serio: ti restano adesso solo ricordi (assenza di un affetto). Mi alzo, mi dirigo verso casa, e con un movimento quasi istintivo tocco l’edera le cui foglie, ora rosso fuoco, si attorcigliano attorno alla balconata. Mi aspetto che il colore acceso si traduca in calore, ma non è così: le foglie sono fredde, inumidite dalla nebbia mattutina, sembrano quasi di plastica, finte (assenza di calore, di vita, di aspettative).
Quando l’assenza ti colpisce con la sua presenza fa un rumore assordante perché si rivela in tutta la sua forza, ti fa capire quanto sia funzionale al tutto, quanto “quello che non c’è” sia importante quasi quanto “quello che c’è” se non addirittura di più. L’assenza ci fa apprezzare la presenza, il vuoto ci fa amare il pieno, il freddo alla lunga ci fa desiderare il caldo che riscaldi, per un po’, le nostre ossa.
“Death Spells” degli americani Holy Fawn è un disco sull’assenza. Non che questo sia il concept dell’album, o almeno, questa ne è la mia interpretazione. E’ un disco che parla di fantasmi, che descrive le fredde mattinate tardo autunnali, quando gli ultimi raggi autunnali del sole sono un tiepido ricordo, li percepisci vagamente ma sono forse più nella tua testa che sulla tua pelle. E’ un disco adattissimo per pensare a sé stessi, per camminare senza meta, per fare pace con il mondo, o per assentarsi da esso, se necessario. Il gruppo è stato abilissimo nel distillare un “non-genere”, una proposta difficilmente assimilabile ad altri gruppi. In ordine sparso le influenze vanno dal dream pop al post rock, dallo shoegaze al post black metal, dal postpunk con riverberi darkwave all’emocore. Un momento percepisci gli I Love You but I’ve chosen Darkness, un attimo dopo i Thursday o certe esplosioni tipiche degli Envy. Poi arriva una folata di vento gelido e sopraggiunge Clouds Collide con tutta la sua carica emotiva unita al post black metal; ma c’è della dolcezza in questa malinconia, ci sono il dream pop e lo shoegaze degli ultimi Klimt 1918 a mitigare il gelo con tiepide e rassicuranti carezze di calore. Assenza di un genere musicale, ma non di intenti: i Nostri sanno dove vogliono andare a parare, ti entrano dritti nel petto, il basso pulsante si sostituisce al tuo cuore, i riff di chitarra fluiscono come sangue nelle tue vene, e i muscoli si contraggono ogni volta che lo scream ti sferza. E’, come detto, un disco perfetto per questo momento dell’anno, travolgente se si stanno vivendo momenti della propria vita in cui i fantasmi giocano a nascondino con i propri ricordi, un album intimo ma allo stesso tempo adatto a tutti.
In tutta questa assenza c’è una certezza, una presenza sicura: abbiamo tra le mani una vera e propria gemma, non lasciatevela sfuggire.
Drag Me into the Woods
https://www.debaser.it/holy-fawn/death-spells/recensione
venerdì 9 novembre 2018
Le cose che non ti ho mai chiesto/1
Diamo sempre per scontato di avere tempo per fare una domanda, per chiarire un dubbio, per parlare con una persona. Poi la persona sparisce, e tante cose che avresti voluto chiedere rimangono lì, sospese.
Cosa c'era alla Tognazza al posto del bar?
Anche a te quando frenavi la vespa faceva quel rumore strano? E ti ricordavi di averla truccata, che la marmitta non era quella originale? E ci sei mai caduto?
Cosa pensavi di me? Avrei potuto essere un figlio migliore, più affettuoso magari? Ti ho dato qualche soddisfazione? E quali delusioni ti ho dato?
Avrei voluto imparare di più da te: perché da "grande" non ho mai perso tempo dietro al tuo lavoro? Anche solo per imparare qualcosina in più di pratico.
Che musica ti piaceva ascoltare da giovane? Sai che sto cercando di recuperare tutte le tue passioni, così da farti rivivere con loro?
Cosa pensavi della musica che ascolto? E in generale delle mie passioni?
Come mai avevo quella faccia scazzifottita nella foto che mi facesti a casa di nonna, in terrazzo? Di che parlavamo?
Ti ricordi quando alle medie, in una delle giratine che facevamo in macchina la sera, mi davi consigli su come comportarmi con Ambra? Chissà che cosa mi hai detto!
E quando andammo a comprare l'impermeabile giallo? O quando litigai con nonna, e la sera mi portasti in giro per spiegarmi che quanto avevo fatto era sbagliato... Eppoi mi comprasti un giocattolino, perché in fondo non sei mai riuscito a stare arrabbiato con me.
Oggi è un anno, e le domande che avrei voluto farti sono ancora tante. Scusami se non sono stato il miglior figlio del mondo, sto provando a recuperare adesso, ti sto parlando, forse più di quanto non abbia mai fatto. E so che alla fine mi avrai già perdonato, perché mi hai sempre perdonato.
"Now the years are rolling by me
They are rockin' evenly
I am older than I once was
And younger than I'll be and that's not unusual.
No it isn't strange After changes upon changes
We are more or less the same
After changes we are more or less the same"
venerdì 17 agosto 2018
How long does a sunset last?
Quanto dura un tramonto? Per questa domanda c’è una risposta scientifica, basata su calcoli e formule esatte, fredde, ed una risposta più emotiva, soggettiva, calda perché basata sulle nostre emozioni.
Il mio tramonto stasera è stato lungo, lunghissimo. Quando mi sono reso conto che il sole stava terminando il suo giro giornaliero, quando ho incrociato per un attimo il suo sguardo sonnolento e benevolo, il mio tramonto ha avuto l’aspetto di una vecchia e sbiadita foto a colori, la foto di un nonno che tiene in braccio un bimbo appena nato. E poco importa se questo nonno stava fumando una sigaretta e il fumo andava negli occhi del bambino: erano gli anni Ottanta e non ci facevamo poi tante fisime. Man mano che il sole scendeva sempre più verso la linea dell’orizzonte quella foto prendeva la forma di altri ricordi: è passato qualche anno, quel bambino è un po’ cresciuto, è biondo e con gli occhi chiari, e siede felice su una macchinina che i suoi genitori gli hanno comprato, indossando una buffa maglia con una macchina fotografica stampata sopra. Gli occhi del bambino sono vivi, accesi, giocosi; il loro azzurro si trasforma, qualche anno dopo, in un blu che fa pendant con la felpa che sta indossando in un’altra foto. E’ autunno, ma la giornata è bella e soleggiata, e il bambino “fa il grosso” con il babbo che gli sta scattando la foto, solleva un legno appena tagliato appoggiandoselo sula spalla, mentre con l’altro braccio fa vedere quanto è muscoloso e forte. Il bambino vuole imitare il babbo, lo sfida spesso correndo, il babbo si fa raggiungere e si fa battere, perché nella risata di suo figlio c’è l’obbiettivo della sua vita. E il bambino guarda il babbo, lo imita, spera un giorno di essere come lui.
Il sole scende ancora un po’ e velocemente passano gli anni dell’infanzia, i Natali, i compleanni, le scuole, gli amici. Da qui in poi i raggi di sole, ormai bassi, sbattono nei fili d’erba e iniziano a sparpagliarsi in mille filamenti sconclusionati, sparsi come i ricordi che affiorano come una fontana, senza soluzione di continuità e senza ordine cronologico. Il bambino è cresciuto e si è sposato, eccolo che parla di fronte agli ospiti della sua cena, e eccolo che fissa l’alba seduto su un masso che si affaccia su un lago canadese. Gli occhi vivi e speranzosi del bimbo una volta seduto sulla macchinina giocattolo sono gli stessi del ragazzo ormai grande che, strabiliato, vede realizzarsi il suo sogno di andare in Scozia (non sapendo che sarebbe il primo di tanti viaggi!); gli occhi del bambino vedono un mondo, vedono una natura, quella inglese, che gli saprà dare tantissime soddisfazioni e tanta tranquillità, merito probabilmente di una moglie che ha l’Inghilterra nel sangue e che fa sì che, anche per lui, sia “casa”. Gli occhi del bambino, lucenti come gli ultimi raggi del sole che sta tramontando, passano in rassegna gli amici, le ragazze, i posti che ha visitato, le copertine dei dischi (tanti!) che ha ascoltato; rivedono le facce amiche, quelle meno amiche, rivedono i suoi fedeli compagni a quattro zampe, si illuminano ogni volta che le papille gustative si imbattono in una birra nuova dal sapore inaspettato.
Ma è quando il sole sta per lasciarlo, almeno per questa giornata, che gli occhi del bambino si velano di una sottile tristezza. Rivive un anno difficile fatto di dolorosi saluti, si stringono nella fatica di far finta che tutto vada bene, salvo poi rilasciare la loro stanchezza in un pianto consolatorio quando rivede una cassetta degli attrezzi, o ascolta una canzone, o imbraccia la macchina fotografica del babbo, o guida la sua vespa. Quel babbo che tanto aveva voluto imitare da piccolo, quel babbo che era un punto di arrivo per lui, sbagliato magari, imperfetto, criticabile e con tanti errori, ma pur sempre un esempio.
Ecco fatto, il sole se ne è andato, almeno per oggi. Il bambino ha lasciato il posto al ragazzo, ormai adulto. Quanto è durato questo tramonto? Quasi trentacinque anni, filtrati attraverso dieci canzoni per un’ora scarsa di durata. Il ragazzo ha rivissuto alcuni momenti della sua vita, ma è certo che un domani, semmai potrà avere voglia di riviverne altri, basterà solo premere “play” mentre saluta il sole che se ne va a dormire.
Non sono mai stato un grande estimatore di Austin Lunn e del suo progetto Panopticon: troppo difficile da assimilare per me, il suo black è sempre stato troppo sfaccettato e particolare per essere apprezzato e compreso pienamente. Poi nell’aprile di questo 2018 esce il doppio “The Scars of Man on the Once Nameless Wilderness”, e sebbene la prima parte di questo lavoro continui ad essere abbastanza difficile da digerire per le mie orecchie (il black atmosferico misto a bluegrass ormai marchio di fabbrica di Lunn), resto ammaliato dalla bellezza della seconda parte. Lasciato in un angolo il black, qui Panopticon spoglia la sua musica di ogni rimando al mondo del metal, regalandoci dieci pezzi che sono di fatto un tributo al folk americano, allo slowcore e al (dark) country, tutte componenti comunque da sempre parte integrante della sua musica. C’è tanta intimità in questo lavoro, tanta introspezione, non a caso il Nostro nella sua pagina Bandcamp indica “(…) Please don't listen to the album on your laptop speakers, it will sound like shit. Give it a shot on a long hike or by a fire with headphones”. Sì Lunn, hai ragione, questa manciata di canzoni si meritano tutta la pace e la tranquillità di questo mondo, solo così sono in grado di lavorare al meglio, solo così possono permetterci di pensare, di riflettere, semplicemente di prenderci un attimo per noi stessi, anche solo per salutare il sole o chi non c’è più.
“The Scars of Man on the Once Nameless Wilderness” è disponibile sia in formato unico che nelle due distinte parti. Sono spiacente se chi leggerà si aspettava una recensione anche della prima sezione, ma invoglio chiunque ami i generi sopra citati a dare un ascolto a questa piccola perla, sono certo che a soddisfazione sarà tanta.
At the foot of the Mountain
https://www.debaser.it/panopticon/the-scars-of-man-on-the-once-nameless-wilderness-part-2/recensione
AQUISTALO QUI
lunedì 4 giugno 2018
I was here for a moment, and then I was gone
“Il mio nome è Salmon, come il pesce; Susie Salmon. Avevo quattordici anni quando sono stata uccisa, il 6 dicembre 1973”.
E’ stata una cosa rapida, un flash, ho solo vaghi ricordi di quel momento. Le mani del mio assassino, luride, tremanti per l’eccitazione, la sua voce stridula che fino a pochi minuti prima si era dimostrata amichevole, da buon vicino di casa, la sua brutalità e ferocia animalesca che lo ha portato ad abusare di me e ad uccidermi. Per fortuna il dolore è durato un attimo, per lo meno quello fisico: adesso è l’anima che fa male, è il cuore (se ancora di cuore posso parlare), è lo spirito che geme vedendo dibattersi i miei genitori e mia sorella, mentre cercano consolazione in ciò che è successo. Ma provo anche rabbia, tantissima, nei confronti del mio assassino, e vorrei poter fare di tutto per vederlo soffrire come è successo a me, vederlo annaspare nella terra e nel fango cercando una via di fuga, vedere i suoi occhi sbarrati mentre la vita lo abbandona, come è successo con le sue altre vittime.
Per fortuna la rabbia mi assale solo in certi momenti: qui dove sono è bellissimo, trascorro le mie giornate nel gazebo in mezzo al lago, quello stesso gazebo dove avrei dovuto incontrarmi con Ray, se non fosse andata come di fatto poi è andata. Il cielo, i prati, tutto muta in accordo con i miei sentimenti, le foglie secche degli alberi si trasformano in splendidi uccelli, le onde del mare sono solcate dai modellini di navi in bottiglia, riproduzioni su larga scala di quelle che io e mio padre eravamo soliti costruire insieme, è il mio piccolo mondo, e si muove con me. Ogni tanto riesco a vedere i miei familiari, cerco di aiutarli a capire cosa mi è accaduto, cerco di indirizzarli verso il mio assassino, ma mi rendo conto che forse dovrei lasciar loro vivere la loro vita, anche se la caparbietà di mio padre e di mia sorella mi lasciano capire che forse c’è qualche speranza di rivalsa.
In questo mio mondo perfetto, in questo “limbo”, c’è solo una cosa che mi inquieta, una casa con un faro, scura e buia, in netto contrasto con la lucentezza del mondo che la circonda. La riconosco perfettamente, è la casa del mio assassino, è dove tanti omicidi si sono consumati, è dove tanti brutti ricordi albergano e vagano in cerca di vendetta. So che prima o poi dovrò farmi coraggio ed aprire quella porta, per affrontare una volta per tutte il mio mostro. Ma so anche che non sarò sola in questa impresa, potrò contare sui miei familiari, laggiù, che ancora non hanno perso le speranze. E riusciremo finalmente a punire quel verme che mi ha tolto la vita e la gioia così presto.
“My name is Salmon, like the fish. First name: Susie. I was fourteen years old when I was murdered on December 6th, 1973. I was here for a moment, and then I was gone. I wish you all, a long, and happy life.”
Uscito nel 2015 “All Things Shining” è, in teoria, il successore di “Until the Wind Stops Blowing” del 2013: in teoria, perché in pratica le cose sono ben diverse. Con questo album Chris, la mente dietro al progetto Clouds Collide, intende mettere in risalto le basi che hanno portato allo sviluppo del disco precedente. Citando le sue parole “Until the Wind Stops Blowing dealt a lot with grieving and the winter. All Things Shining deals with the ups and downs of overcoming loss and once again is hugely influenced by nostalgic connections with the seasons and the memories that may come along with them, this time the season being Spring.”
Il blackgaze è tutt’ora il genere di riferimento nel quale possiamo inquadrare questo lavoro, anche se le melodie sono ancor più eteree e sognanti, solari, c’è qualcosa dei Deafheaven e degli Alcest più speranzosi, ed anche l’approccio vocale incede spesso in un clean languido che molto può ricordare l’alternative rock e l’emo (quello buono) di matrice USA. Non mancano ovviamente le accelerazioni: quando c’è da puntare sul black Chris sa il fatto suo, con uno scream lontano e graffiante che ben si amalgama con i vari pezzi, supportati da una sezione ritmica robusta ed efficace, mentre le chitarre continuano a tessere trame color pastello di chiara reminiscenza post rock.
“All Things Shining” è un lavoro complesso, molto sfaccettato: nelle sue nove tracce affronta uno svariato range di emozioni, è quindi da questo punto di vista forse più vario e maturo del precedente “Until the Wind Stops Blowing”. Il livello qualitativo è comunque molto alto, e sebbene il genere trattato non sia ormai più una novità si lascia ascoltare e sa sorprendere più volte. E’ ovviamente un disco dedicato a chi ama le sonorità blackgaze, ma strizza l’occhio anche a chi normalmente si nutre di post rock e alternative/emo, un ascolto è dunque più che consigliato.
All Things Shining
https://www.debaser.it/clouds-collide/all-things-shining/recensione
mercoledì 11 aprile 2018
Romaticismo inglese/2
Hawes è un ridente paesino nel Nord dello Yorkshire. Non lo consideri a meno che tu non sia un appassionato di hiking, e anche in questo caso magari ci sono altri posti migliori da visitare. Ciò nonostante è popolato da turisti che sciamano lungo l'unica via (degna di nota) del paese, entrando e uscendo da tea rooms, negozi di attrezzatura sportiva e pub. Le pietre scure con le quali tutte le case sono costruite possono sembrare povere, rozze, fredde, in realtà per chi ama questi posti trasmettono un rassicurante senso di "casa". Ma Hawes ha anche un altro asso nella manica, che forse non tutti apprezzano e conoscono, ma che te la fa amare e ricordare anche a distanza di anni. Se camminando decidi di uscire dal centro in pochi minuti sei immerso nella verde e ridente campagna dello Yorkshire: via via che ti allontani dalla strada asfaltata e ti immetti nella Penine Way ti sembra di trovarti in un mondo a parte, un toccasana per il tuo spirito. A luglio in questa zona dell'Inghilterra non fa assolutamente freddo, ma si sa, il tempo britannico è un giullare, ti fa credere che puoi vestirti leggero salvo poi sorprenderti con improvvise piogge mai comuque troppo pesanti. Il vento soffia leggero spazzolando l'erba, che dove non è stata brucata dalle mucche e dalle pecore ti arriva anche al ginocchio. Intorno a te pascoli di pecore che masticano placide, emettendo belati che si rincorrono per tutta la vallata; rondini e altri uccelli volano tra le fronde degli alberi che costeggiano i muri a secco, ma guarda dove cammini! Potresti inavvertitamente inciampare in qualche tana di lepre... Eccole lì, sfrecciare a gran velocità man mano che prosegui nel tuo sentiero.
Dove si sta andando? Ah già, Hardraw Force, le cascate: dieci minuti che camminiamo in questi campi e già ho resettato il perché mi trovo qui, è così bello vagare e farsi abbracciare da questa pace! Oltrepassato un cancelletto di legno arrivi a un fiume, scavalcato da un ponte (ovviamente anch'esso in pietra) sotto il quale, scalzi, giocano dei bambini. Dimmi un po', ma in che epoca siamo?!? E' davvero il 2016?!? Perdi non sai quanti minuti a guardare i bambini giocare, poi ti ricordi che sono quasi le cinque di pomeriggio, e forse è il caso di raggiungerla questa benedetta cascata. Arrivi finalmente alla strada asfaltata, davanti a te alcune casette ed un pub, proprio di fianco all'entrata della Hardraw Force... Che ovviamente è chiusa! Siamo arrivati tardi, ma è davvero un problema? Ci guardiamo intorno, decidiamo che è il momento di entrare in quel delizioso pub tutto in pietra: al suo interno un'atmosfera idilliaca, scure e possenti mura sono riscaldate dai balzi della fiamma che scoppietta nel camino, mentre le birre che teniamo in mano risplendono di freschezza e frizzantezza.
Usciamo fuori, ci sediamo ai tavoli, respiriamo e ascoltiamo: nessun rumore diverso dai belati, dagli uccelli che volano, dal respiro del fiume lì vicino, nessuna macchina che passa, in lontananza solo le risate degli avventori del pub. Terminiamo le nostre birre e ci incamminiamo nuovamente verso Hawes, che già sta tramontando il sole.
A cosa è servita questa camminata senza obbiettivo preciso? A tutto e a niente, di sicuro ci ha fatto capire che si vive passo dopo passo, sentiero dopo sentiero, e se anche non raggiungiamo l'obbiettivo prefissato magari lungo il percorso abbiamo vissuto esperienze ben più importanti di ciò che avremmo potuto ottenere in altro modo.
"The Hallowing of Heirdom" degli inglesi Winterfylleth è esattamente questo, una placida camminata nella campagna dello Yorkshire, senza motivo, solo una contemplazione e un "prendere parte" della splendida natura che ti circonda. Non ci sono sorprese in questo disco, le tracce scorrono via placidamente tra un arpeggio di chitarra e un coro lontano, ma attenzione! Non aspettatevi un disco di black atmosferico come ci hanno abituato finora i Nostri! Con questo album gli inglesi spogliano la loro musica, tolgono le armature e mettono a nudo l'amore che nutrono per i luoghi in cui vivono e le eredità che hanno lasciato loro. Niente blast beat, niente furiosi scream, solo strumenti a corde, fiati, percussioni, e voci mai così evocative. Un capitolo essenziale della discografia dei Winterfylleth, un lavoro che va affrontato senza pretese, con calma, va fatto maturare e crescere, deve cullare l'ascoltatore e conquistarlo con piccolissime sorprese. Di fatto, l'altra faccia della medaglia della musica dei Nostri, e per questo meritevole di considerazione.
Elder Mother
https://www.debaser.it/winterfylleth/the-hallowing-of-heirdom/recensione
martedì 10 aprile 2018
Romanticismo inglese
Se c’è una cosa che la musica sa fare è riunire sensazioni, ricordi ed emozioni: bastano poche note, qualche arpeggio di chitarra, e se le corde toccate sono quelle giuste in un attimo possono riaffiorare alla mente fotografie, odori, rumori, scene vissute e momentaneamente riposte in qualche cassetto della memoria.
“Songs from the Fyrgen” è un inno all’Inghilterra, al suo folklore, alla sua storia certo, ma per come lo vivo io, per le esperienze che ho vissuto e che fortunatamente ancora vivo, è soprattutto la celebrazione della Natura inglese. “Heathen folk music”, tre parole che ricorrono spesso quando si parla di Dan Capp e della sua creatura Wolcensmen, e la definizione è quanto mai corretta. Se si vogliono fare dei parallelismi possiamo dire che la one-man band britannica innesta un processo di revival della musica folk “ancestrale” o comunque “pre-cristiana” inglese simile a quanto fanno i Wardruna per quella norvegese. Sono del parere che per parlare di musica in maniera efficace si devono anche mettere in gioco altri sensi e sensazioni, e non essendo così familiare con la penisola scandinava così come lo sono per a terra di Albione non posso espormi più di tanto. Posso però dire questo: “Songs from the Fyrgen” è un bellissimo e mutevole dipinto raffigurante l’aspetto bucolico della campagna inglese, cangiante come il suo clima, capace di sorprenderti con piccolissime gioie e di riscaldarti con semplici gesti.
Posso vederle le brughiere nebbiose nelle quali pascolano, indisturbati, cervi e mucche: la mattina è fresca e la nebbia lascerà presto il posto alla rugiada che si depositerà sull’erba verdissima e perennemente fradicia. Intorno a te quell’odore di legno, di terra, di pietre coperte di muschio, i muri a secco creano percorsi che si perdono all’orizzonte; e improvvisamente la coltre di nebbia è squarciata dai raggi di sole, un sole solo apparentemente freddo e distante, in realtà sa raggiungere il tuo cuore e riscaldare le tue ossa infreddolite in un modo unico, tutto suo.
Nella musica di Wolcensmen c’è fierezza, umiltà, amore per le proprie origini e per il proprio passato: con dolcezza il Nostro descrive una natura armoniosa e al tempo stesso apra, una terra piena di contrasti, di colori solo apparentemente pallidi, di sapori da scoprire pian piano. La chitarra arpeggiata, i fiati, le percussioni, persino gli sporadici synth, tutto è perfettamente bilanciato e fondamentale alla realizzazione del progetto del Nostro. Se cercate dei riferimenti musicali questi possono essere rintracciati nelle primissime produzioni degli Ulver, nei Winterfylleth acustici (Capp è anche un loro membro, e si sente), negli Empyrium.
Un disco fatto di piccole cose, di piccoli gesti, di piccole emozioni e gioie, così come la natura inglese oggetto delle canzoni che lo compongono: una delle sorprese più belle del recente panorama neofolk/pagan. Come un bellissimo quadro Romantico, “Songs from the Fyrgen” bypassa ogni parola e ogni possibile descrizione e arriva direttamente al cuore, conquista e commuove: va solo ascoltato e assaporato con delicatezza e tranquillità.
The Fyre-Bough
https://www.debaser.it/wolcensmen/songs-from-the-fyrgen/recensione
venerdì 16 marzo 2018
La borsa degli attrezzi
La borsa degli attrezzi è grande, robusta, apparentemente indistruttibile: ci sono sì dei graffi e delle ammaccature al suo esterno, ma la dura corazza ha retto gli urti del tempo e protetto tutto il prezioso contenuto.
Quando la apri senti un odore strano eppure ormai tipico e unico, per sempre associato a quella sola borsa: un odore di plastica, di silicone sigillante, di fumo, misto a profumo (sicuramente ci sarà stata inavvertitamente rovesciata qualche boccetta di profumo, altrimenti non si spiega!). Quell'odore ti porta subito alla mente tutte le volte che, da piccolo, hai aperto la borsa per giocare e familiarizzare con gli strumenti che conteneva: cacciaviti di ogni forma e dimensione, martello, chiodi, pinze, tester, e altri aggeggi dei quali da piccolo ignoravi l'uso ma che ti piaceva lo stesso maneggiare, ti facevano sentire grande, ti davano un posto nella società rispettabile degli adulti. Poi la richiudevi, e immancabile sentivi alle tue spalle una voce che ti ricordava che "gli attrezzi si rimettono al loro posto quando si è finito di usarli...": e allora la riaprivi, e pazientemente, ma sempre per gioco, rimettevi tutto in ordine.
Era bello d'estate accompagnarti e farti da "portaborse", aiutarti a portare la borsa e passarti via via i vari attrezzi man mano che ti servivano, e anche se era pesante non importava, era pur sempre una soddisfazione. La portavo con due mani, la abbracciavo orgoglioso.
Col tempo le strade si sono separate, come è giusto che sia: la borsa degli attrezzi è rimasta con te, eppure quando mi sono trasferito di casa hai voluto passarmene una parte, mi hai fatto la "mia" valigetta con tutti gli attrezzi che conoscevo, un po' come si fa con i bambini piccoli, quando compri loro il martello e le pinze di plastica così possono giocare ad imitare il babbo artigiano. E il bello è che l'ho usata, perché alla fine il sangue è quello, c'è poco da fare: non l'ho usata come te, ma avrò tempo.
Stanotte in sogno ho di nuovo portato la borsa degli attrezzi: grande, pesante, la abbracciavo e la portavo con due mani nonostante i miei trentacinque anni, e ti accompagnavo per andare a fare una delle tue solite riparazioni. Guidavamo la mia macchina per una strada di montagna, io, passeggero, vedevo lo strapiombo alla mia destra e la parete rocciosa a sinistra. Non riuscivo a vedere la strada che percorrevamo, sembrava un lembo di terra sospeso per aria, ma tu mi dicevi tranquillo che non sempre riusciamo a vedere la strada che percorriamo, eppure andiamo avanti. Mi tranquillizzavano queste parole, e allo stesso tempo mi chiedevo se sapevi di non essere veramente lì, se sapevi di essertene andato alcuni mesi fa.
Non so quando e se sarò pronto a camminare da solo, di certo speravo di aver avuto più tempo, e con il senno di poi avrei voluto usare meglio i momenti passati assieme. C'è però una frase che finora mi ha sempre sostenuto: "You are mortal: it is the mortal way. You attend the funeral, you bid the dead farewell. You grieve. Then you continue with your life. And at times the fact of her absence will hit you like a blow to the chest, and you will weep. But this will happen less and less as time goes on. She is dead. You are alive. So live."
Tratte da "Sandman" di Neil Gaiman, sono le parole che Sogno dice a suo figlio Orfeo, che ha appena perso Euridice: il "so live" alla fine ha una tale forza, un tale "élan vital" che ti fa capire quanto sia necessario che la vita prevalga sulla morte, sempre. Ma non scordiamoci mai chi siamo, non dimentichiamoci mai cosa ci ha reso ciò che siamo, non dimentichiamoci mai di quella cassetta degli attrezzi, che oltre agli utensili contiene anche i ricordi di un bambino dall'infanzia, ora ne sono certo, rosea e felice.
venerdì 9 febbraio 2018
Dov'è scappato il barlume visionario? Dove sono ora, la gloria e il sogno?
Le mie mani fredde sono state strappate alla terra umida, dove riposavano stanche, ed ora eccole qui, di nuovo immerse nel nero terriccio, le dita bianche neve che sembrano essere divorate dagli scuri granelli. Riesco a vederle con questi occhi ambrati, ora velati da lacrime che non pensavo sarei stato più in grado di versare, dopo la rinascita.
"Demone" mi chiamano, "Calibano" e "John Clare" sono altri nomi che mi sono scelto o che altri hanno scelto per me... In realtà non so più chi sono, perso nel limbo della non-vita e della non-morte. "Demone" è anche il nome che ho assegnato al mio Creatore, che mi ha fatto rinascere per poi abbandonarmi come un cane sotto la pioggia: dolente, bistrattato, confuso, impaurito. Ho gridato, ho urlato, ho fatto quello che voi definireste piangere, anche se al tempo le lacrime non esistevano nei miei occhi. Alla fine mi sono arreso alla collera e alla solitudine, e i miei giorni di prigionia sono stati alleggeriti dalla poesia, libri su libri che erano stati abbandonati nella mia prigione assieme a me. Sì prigionia, perché il mio Creatore è stato un tale vigliacco da non volerne più sapere di me, forse spaventato dal mio aspetto o dal terrore che si rifletteva nei miei occhi.
Sono fuggito ma ho giurato di cercarlo, trovarlo, e farlo patire quanto ho patito io. E quando finalmente l'ho trovato alla rabbia si è aggiunto il bisogno di calore, la necessità di avere accanto a me uno spirito affine che condividesse e abbracciasse la mia anima. L'ho chiesto al Creatore, ma il risultato è stato di gran lunga più abbietto di me. L'ho cercato tra le persone sofferenti e apparentemente malate, salvo poi scoprire che la loro era solo una maschera per un animo ben più cinico del mio.
L'ho cercato, e abbracciato per un attimo! L'ho trovato nella mia famiglia che mi credeva scomparso, e oh, come è stato bello riassaporare quel calore... Ma poi di nuovo la morte e la follia si sono intromesse nella mia quasi-vita, e ho di nuovo perso tutto.
Ma in tutto questo percorso ho conosciuto una persona, una donna, un essere incomprensibile ai più e dotato di una luce interiore accecante, sebbene spesso eclissata da un demone che cercava di sovrastarla. Sì, ancora di demoni parlo, alla fine tutti noi dobbiamo lottare o venire a patti con i diavoli che albergano nella nostra anima. Questa donna mi ha insegnato che il mio demone alla fine era ben più umano e vivo di tanti altri presunti uomini che ho incrociato nel mio cammino, e gliene sono grato.
Sulla sua tomba, su questo terriccio nero che copre le sue spoglie, piango lacrime fredde come il marmo della sua lapide, e mi sento di nuovo solo come quando sono rinato. Solo che al tempo non sapevo cosa stesse succedendo, ma adesso lo so, e le parole di Wordsworth riecheggiano nella mia mente, immortali come la sua ode:
"C’era un tempo in cui prato, bosco, e ruscello,
la terra, e ogni essere comune
a me sembravano
ornati da una luce celestiale,
la gloria e la freschezza di un sogno.
non è più com'era prima;—
mi giro ovunque posso,
di giorno o di notte,
le cose che ho visto ora non posso più vederle.
...
Ma c’è un albero, di molti, uno,
un singolo campo che osserva dall'alto,
entrambi parlano di qualcosa che è passato:
la viola del pensiero ai miei piedi
ripete lo stesso racconto:
dov'è scappato il barlume visionario?
dove sono ora, la gloria e il sogno?"
Disco di natura piuttosto strana questo "Solipstic" a firma del duo The Angelic Process. E' come se i nostri avessero in parte spogliato il loro drone e il loro shoegaze mettendone a nudo i nervi e l'anima più intima. Si tratta di un lavoro mai ufficialmente pubblicato dalla band, e reso disponibile solo per alcune etichette come promo per una possibile pubblicazione.
Cronologicamente segue "Coma Wearing", dal quale mutua alcune pulsioni "cosmiche" quasi, una sorta di trip pauroso e instabile, un viaggio dentro molti degli aspetti più torbidi della vita di ognuno di noi. Alle ritmiche martellanti e alle consuete bordate di chitarra stavolta si accompagnano però anche momenti riflessivi, spogliati appunto del contorno oscuro e feroce che comunque fa da base per la proposta sonora dei Nostri. Sono esperimenti comparsi anche in "..And Your Blood Is Full of Honey", di due anni precedente, e che dopo questo lavoro saranno definitivamente abbandonati in favore di una forma più coesa e strutturata di musica.
Il disco è recuperabile online o in una recente riedizione in vinile comprendente tutta la discografia dei The Angelic Process: per chi ama la band e ne vuole seguire il processo creativo punto per punto si tratta di un'uscita indispensabile; per tutti gli altri un disco diverso dalle loro produzioni, e affascinante proprio anche per questa sua dissonanza da quanto fatto prima e da quanto verrà poi.
Acquistalo qui
https://www.debaser.it/the-angelic-process/solipsistic/recensione
https://www.youtube.com/watch?v=Y5ke9LPLTJU
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