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venerdì 13 novembre 2015
A Dying World
La ragazza non vedeva gli occhi dell'uomo, coperti com'erano dall'obiettivo di vetro della macchina fotografica, e non percepiva i suoi tremori di passione, non riusciva a intravedere le gocce di sudore che gli colavano sulla fronte, coperta com'era dal telone nero dell'apparecchio. Eppure quell'uomo, quella sagoma scheletrica che la sua famiglia aveva contattato per le foto di rito, allorché l'età del suo ingresso in società si avvicinava, quell'uomo soffriva le pene dell'inferno ogni volta che la ragazza sorrideva alla macchina, ogni volta che si metteva in posa, ogni volta che tratteneva il fiato (complice quel bustino stretto) per risultare più bella in foto, come se ce ne fosse bisogno poi!
Quel giorno sembrò diverso però: dopo l'ultima foto la giovane sembrò sorridergli quasi, sembrava quasi essersi accorta che il battito del cuore di quella figura accelerava di colpo a ogni suo battito di ciglia, gli sembrò più vicina insomma. Salutata la ragazza ed i genitori, l'uomo uscì di casa loro quando la luce dei lampioni ad olio era già accesa da qualche ora, e nelle strade della città le persone eleganti e rispettabili stavano inavvertitamente dandosi il cambio con la popolazione meno appariscente ma senza dubbio più numerosa, i pezzenti, i mendicanti, le prostitute. L'uomo fece qualche passo salvo poi bloccarsi perché una voce lo aveva chiamato: "aspetta!" aveva urlato la ragazza, e quando si voltò la vide corrergli incontro, ma fu un'idea egoistica e da sognatore la sua. La ragazza lo urtò e gli passò oltre, per abbracciare un giovane che stava camminando nel senso opposto: il suo ragazzo, bello, elegante, con un vestito lungo, stava andando a trovarla, e lui, povero scheletro ambulante, era solo un ostacolo tra i due, un'ombra neppure notata.
Sconfitto, affranto, si ritirò a casa, nella sua camera oscura, dove sviluppò le foto fatte. La più bella se la tenne stretta al cuore, la portò in uno stanzino, accese un lumino e subito prese colore un altare interamente cosparso di foto della giovane, fiocchi per capelli, boccette di profumo quasi finite, fazzoletti... La venerava come una dea, sperando che un giorno lei si sarebbe accorta di lui, ma quel giorno non sarebbe mai arrivato, ormai ne aveva avuto la certezza.
Con un colpo deciso del treppiede della macchina fotografica, poggiato lì vicino, distrusse tutto quell'altarino; colpì il lumino a gas e dette fuoco alle foto e ai vari cimeli, poi afferrò un pezzo di vetro e con un colpo secco si recise un polso: che senso aveva vivere ormai? Colmo com'era di rabbia non gli venne però in mente di affidare le sue ultime parole ad un dio, ma maledisse con tutto se stesso la ragazza, la sua bellezza e il suo cuore.
La casupola ci mise poco a bruciare, ma le guardie furono sorprese del fatto che, a rogo spento, non fosse stato rinvenuto alcun resto. Non fu invece sorpresa la ragazza, che anzi non vedendo il fotografo varcare la soglia di casa sua come di consueto avvisò i genitori di cercarne un altro, visto che la festa per il suo ingresso in società si avvicinava e dovevano essere fatte le pubblicazioni.
Era seduta di fronte al suo specchio e si spazzolava i capelli, e assorta com'era dalla vacuità dei suoi pensieri nemmeno si accorse di un'ombra che era sinistramente caduta sopra di lei: quando sentì il freddo del coltello che le lacerava la gola fu tardi, e solo mentre perdeva per sempre i sensi intravide quell'ombra, che le ricordava qualcuno che aveva incrociato forse una volta nella sua vita, qualcuno di scheletrico, magro, terribilmente insignificante.
Non ricordo nemmeno come mi sono imbattuto nei Dead to a Dying World, ma è stato un incontro davvero fortunato. In un autunno in cui sembrava sembravo non trovare soddisfazione particolare in nessun ascolto, in un momento in cui le uscite che attendevo con più ansia alla fine mi lasciavano l'amaro in bocca (salvo rari casi), in un momento di stasi insomma spuntano questi texani a sconvolgermi la giornata. Capire cosa ci offrono è complicato: il loro suono è ondivago, fatto dall'urgenza tipica del crust e del post hardcore unita alla furia del black che si spinge però molto spesso in cavalcate epiche dall'ampio respiro tipiche del post metal/post rock, che si infrangono in rallentamenti doom per poi crescere nuovamente di intensità. Voci pulite (poche, ma quando ci sono fanno letteralmente venire i brividi), scream e growl si alternano al cantato, in un pandemonio sonoro veramente coinvolgente. Qualche gruppo di riferimento? Vi cito direttamente l'etichetta, Alerta Anrtifascista Records: traete da soli le conclusioni, sappiate solo che i Nostri rientrano perfettamente nei canoni tipici del roster di questa label. C'è poi, udite udite, qualche influsso wave: nei momenti di calma potreste sentirci anche l'eco dei Dead Can Dance.
"Litany" è pervaso da un senso di epica disperazione, di rovina, di apocalissi imminente, c'è una rabbia che si contorce su se stessa, che vede la luce solo per qualche attimo salvo poi ripiombare nella disperazione cupa. Non c'è la natura deificata dei cascadiani, il loro senso rituale e catartico (anche se quella batteria nei momenti in cui pare "rotolare" con quel suono tipicamente "Cult of Luna" è molto ipnotica); manca il degrado urbano e postpunk di molti gruppi post black, così come manca la tristezza e la malinconia fine a se stessa. Qui come detto è la disperazione titanica a farla da padrone, un senso di perdita che ho percepito forse solo con i Dying Sun.
Insomma, ascoltatelo e capirete da soli cosa non riesco a dire a parole: un ascolto anche della sola "The Hunt Eternal" e tutto vi sarà chiaro.
Da provare!
Eventide
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mercoledì 21 ottobre 2015
Aikido, la tua ragazza
Iniziare a ripraticare Aikido dopo circa due anni di lontananza è stato ed è tutt'ora impresa assai dura.
Non mi sono mai considerato un eccelso aikidoka (in linea generale non mi sono mai sentito realmente portato in niente nella vita, ma questo è un altro discorso), ma riuscivo comunque a cavarmela piuttosto bene in molti aspetti. L'Aikido, l'ho sempre detto, è come la tua ragazza: quando ho praticato altro (perché impossibilitato a seguirlo, in seguito ad un infortunio) non mi sentivo a mio agio, mi mancava sempre qualcosa, c'era affetto e attenzione verso quello che facevo, questo sì, ma mancava quella scintilla, quell'amore che solo l'Aikido aveva saputo darmi. Logico che, quando ho avuto la possibilità di ricominciare (perché mi sentivo a posto fisicamente), non me la sono lasciata sfuggire.
E' passato un mese e qualcosa dal mio inizio, ma ancora fatico a ritrovare il ritmo: vero, tante cose sono cambiate, quanto insegnato adesso è diverso in buona misura da quanto sapevo fare io, eppure fatico in maniera esagerata, e ciò porta demotivazione, stress, incazzature, alternate da qualche sporadica soddisfazione.
Ma a ben pensarci anche questo può accadere con la tua ragazza: a volte non la capisci, ha reazioni che non prevedi, è volubile, ti fa innervosire e ti fa pensare "ma chi me lo ha fatto fare"... Alle volte invidi chi è più felice di te (o capace, fuor di metafora), invidi chi è più avanti di te nella relazione e sembra aver capito tutto, lo invidi anche perché vivi con il rimorso di esserti dovuto fermare ed aver perso tempo prezioso, mentre gli altri sono andati avanti lasciandoti indietro. Ma continui ad amarlo, c'è poco da fare, perché anche quando si litiga, anche quando non ci si capisce, anche quando uno va da una parte e uno dall'altra, anche in questi momentacci ci sono sempre piccole scintille di soddisfazione che ti fanno sperare che forse le cose potranno cambiare, e che potrete tornare a stare bene come un tempo.
L'Aikido è donna, ne sono convinto, e come si sa devi farti coinvolgere ed abbracciare, accettarlo no matter what, conscio che è la donna giusta per te, e che non ci sarà altro che saprà darti le stesse soddisfazioni... Almeno lo speri.
giovedì 24 settembre 2015
Untitled
Era l'ultimo giorno d'estate, una giornata strana, fredda: il ragazzo, spettinato e con il rossetto sbavato sulle labbra, se ne stava seduto su un muretto nel suo giardino, un luogo che lui aveva sempre amato considerare come fuori dal mondo, uno spazio appartato, sospeso quasi, tutto suo. In questo "non-luogo" gli uccelli erano soliti cantare, appollaiati sui loro alberi, ed i loro richiami erano quasi una ninnananna, se ti mettevi tranquillo ad ascoltarli riuscivi quasi ad addormentarti.
Ma, come detto, quella giornata era strana: gli uccelli non cantavano, anzi proprio non ve ne era traccia, ma il giovane non se ne era neppure reso conto, assorto com'era nei suoi pensieri. Stringeva in mano delle fotografie, scatti sbiaditi e sfocati nei quali erano sempre ben distinguibili due persone, lui e quella che sicuramente era la sua ragazza, o comunque una ragazza importante per lui. In una foto erano stretti l'uno all'altra, vicini, felici, i corpi così uniti da sembrare quasi gemelli siamesi... In un'altra la vedevi correre in un vasto prato, quasi una pianura... Il giovane le sfogliava con uno sguardo tra il perso e il malinconico, provava una sensazione strana, come quella che si sente quando si ha nostalgia di casa... Ecco, quella ragazza era quasi una casa per lui, un riparo sicuro in momenti duri: lei lo aveva visto in crisi, lo aveva visto cadere e lo aveva rialzato, avevano attraversato assieme parentesi buie, nelle quali sembravano non riuscire mai a riemergere da un mare fatto di scure acque profondissime, ma ce l'avevano sempre fatta.
Poi un giorno, ad una festa, lei prese la sua mano e gli chiese di ballare: non l'aveva mai fatto, a dirla tutta lui era quasi convinto che non le piacesse ballare, e quella richiesta lo turbò un po' anche se accettò subito. Erano vicini, si facevano cullare dalla musica, ma lo sguardo di lei era triste, non c'era più quella luce familiare che l'aveva animata durante tutti gli anni passati. I suoi occhi erano spenti, comunicavano in silenzio, urlavano una tristezza con il rumore più forte che lui avesse mai potuto sentire, erano disturbanti quasi, e non ce la faceva a sostenerne il peso. Quella danza lenta durò poco ma sembrava estendersi per almeno cento anni, e quando si lasciarono provò un brivido di freddo, lo stesso freddo che a tratti provava anche in quella giornata di fine estate, seduto sul muricciolo nel giardino sospeso. Quando le loro mani si separarono pensò "questo è il primo ballo che facciamo, ma non ce ne saranno altri, sarà l'ultimo ballo"... E che strano che le note sulle quali si stavano muovendo fossero quelle di una canzone d'amore...
Di tanto in tanto il ragazzo scuoteva la testa, come a voler liberare gli occhi dall'immagine di lei... "E se la rivedessi...", pensava... "Se solo potessi di nuovo riabbracciarla...", sospirava... Ma poi scuoteva la testa come a volersi convincere che non potevano esserci più "se" ormai, quella era la realtà, e in quella avrebbe dovuto vivere; doveva smettere di guardare quelle foto che stringeva in mano altrimenti quella carta, quei ricordi, si sarebbero presto tramutati negli unici sentimenti che avrebbe potuto avere, e il freddo di quella giornata avrebbe preso posto nel suo cuore. Sentiva il suo animo a pezzi, disintegrato, ma quella sofferenza doveva cessare in un modo o nell'altro, doveva essere ridotta a qualcosa di breve durata, a breve termine, non voleva trovarsi tra vent'anni, trentanovenne, ancora in quello stato. Allungò una mano verso un cespuglio di rose, la infilò dentro con forza: voleva vedere se riusciva ancora a sentire almeno il dolore fisico, come diceva il buon Cash... Quando la tolse era tutta rigata di sangue, e qualche goccia era rimasta sui petali. "Fiori di sangue" pensò, "come il disco dei Cure...". Bene, almeno un po' di dolore riusciva a sentirlo, forse c'era ancora speranza. Se solo si fosse mosso qualcosa, se solo avesse avuto un qualche stimolo per ripartire... E quel tempo così immobile, grigio e insensibile non aiutava certo, e anzi lo faceva impazzire: avrebbe pregato per avere un po' di pioggia, almeno lo avrebbe distolto dal freddo torpore nel quale stava cadendo.
Senza un briciolo di forza, pigramente, si lasciò scivolare giù dal muretto sul quale era seduto e si incamminò verso casa.
Decise che il modo migliore per scordarsi di tutto, per sfogarsi, sarebbe stato imbracciare la sua chitarra e buttare giù qualche nota, e scrivere qualche ricordo a casaccio, per esorcizzare la sua tristezza ed i suoi demoni. Pensò anche a un nome per tutto ciò, "Untitled", senza titolo: perché l'amore, quello che stava vivendo, aveva già un nome che riassumeva tutte le sue emozioni, e non aveva senso cercare di dargliene uno diverso.
Registrato durante un concerto tenutosi a Berlino nel 2002, in "Trilogy" i Cure ripropongono dal vivo quella che Robert Smith ha definito la sua "trilogia dark", ossia gli album "Pornography", "Disintegration" e "Bloodflowers". Da un punto di vista tecnico i Nostri si muovono con la maestria di chi ha passato una vita assieme (giorno più giorno meno), suonando con un'intesa e un'empatia invidiabile (basta fare caso anche solo agli sguardi tra Smith - Gallup). Le atmosfere rese sono essenzialmente le stesse dei dischi, e chi ha amato questi lavori, chi ha vissuto ogni singola canzone in essi contenuta, non farà certo fatica a riprovare le stesse emozioni provate con gli album.
C'è poco altro da aggiungere: la qualità della musica contenuta in questi dischi la conoscete sicuramente, ed esistono miriadi di recensioni che li hanno descritti... Ma se volete provare qualcosa in più, se volete immergervi ancor più nel malinconico e disperato mondo descritto da Smith & Soci con quei tre capolavori, beh potete solo sedervi e godervi questo stupendo live, e ve ne innamorerete.
Bloodflowers
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martedì 22 settembre 2015
Heion
E come se nulla fosse ieri ho percepito di nuovo quella bella sensazione, quella magia che erano mesi (quasi anni?) che non sentivo più.
Inginocchiato sul tatami guardavo le armonie che le due hakama disegnavano prima a terra, poi in aria, e mi rendevo conto di quanto stessero materializzando il continuo divenire di cielo e terra, nero e bianco, pesantezza e leggerezza, e ogni altra dicotomia possibile alla base di quell'Arte Marziale.
L'autunno è arrivato, le giornate si sono accorciate e alle otto di sera è praticamente buio. La luce calda, che si rifletteva nelle pareti ocra, fronteggiava il buio che si vedeva fuori dalla finestra aperta, e gli unici suoni che potevo sentire erano il rumore dei piedi che scivolavano, le cadute a terra e dei cani che abbaiavano in lontananza. Sulla parete, vigile, l'onnipresente foto di O'Sensei, che arricchiva e chiudeva un quadro semplice, essenziale nella sua armonia e perfettamente bilanciato.
E se le ginocchia continuano ad assistermi (e un grazie va anche e soprattutto a chi mi ha guarito e a chi mi ha insegnato come viverci meglio) non credo che stavolta ci risepareremo... E anche se fosse, potendo, ritornerei comunque lì, in quell'armonia.
lunedì 31 agosto 2015
Supertramp
“E cosa hai fatto poi Chris?”
“Ho seguito il mio sogno, l'Alaska, ho viaggiato per chilometri e chilometri cercando di raggiungerla... Perché se davvero vuoi una cosa devi solo allungare la mano e prenderla! Questo mondo, questa società in cui viviamo, siamo tutti bestie strane, più abbiamo e più vogliamo, e io avevo tanto, ma ho deciso di buttare via tutto cercando qualcosa che mi riempisse cuore, polmoni e spirito, e mi regalasse un ricordo indelebile.”
“Ma come hai fatto a viaggiare, senza soldi...”
“Ah, i soldi, li ho bruciati dopo poche centinaia di chilometri, nel deserto del Mojave... Li ho lasciati lì assieme alla carcassa della mia fida Datsun, e mi sono incamminato, e ho fatto autostop, e ho dormito all'aperto... Ho conosciuto tante persone, alcune pazze scatenate, alcune sole seppur in compagnia... Mi sono quasi innamorato figurati, e ho perfino trovato una persona che avrei voluto chiamare padre, ma non mi sono mai fermato, non era quello che volevo... E ogni notte che mi trovavo a dormire in una casa pensavo che non era quello il soffitto che volevo per i miei sogni, era sì un passo avanti rispetto alla città dove sono nato e cresciuto, ma ancora ero lontano dal traguardo.”
“E alla fine sei arrivato in Alaska?”
“Oh sì che ci sono arrivato, e Dio solo sa come mi sono sentito! La felicità, quella vera, il cuore che esplode perché non riesce a contenere tutte quelle meraviglie, la comunione perfetta con la Natura, con gli animali, in un posto dove cielo e terra si abbracciano... Ero libero, ero anche solo sì, le notti erano lunghe e solitarie, ma avevo i miei libri, avevo il mio rifugio (avresti dovuto vederlo il Magic Bus, come lo chiamavo io, quel rottame di bus che mi ha accolto per notti e settimane intere!).
“E quindi come è andata, sei rimasto lì?”
“Beh alla fine non è andata come speravo... Ho scoperto che la troppa felicità uccide se non la si condivide, ho capito che forse avevo osato troppo, mi sono fregato con le mie mani diciamo, ho gettato al vento l'unica possibilità che avevo di nutrirmi durante un freddo inverno e mi sono praticamente condannato a morte mangiando delle piante velenose. Che io sia maledetto! Le avrò viste mille volte, come avrò fatto a sbagliarmi, se ancora ci penso mi mangio le mani...”
“Ma adesso dove sei Chris?”
“Ah sempre lì, nel bus! Sdraiato in terra, avvolto in un giaccone ormai grande il triplo della mia stazza, morto soffocato! Supertramp fino alla fine, ho deciso di morire con il sorriso sulle labbra, e diavolo se ci sono riuscito, anche se a quei poveri cacciatori che mi hanno trovato è sembrato più un ghigno... Oh ma sono stato bene eh, ho fatto quello che volevo, ho vissuto come volevo... Ora però scusami ma devo scappare, c'è ancora tanto da esplorare qui intorno... Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore. Addio e che Dio vi benedica!”
Figli naturali del Cascadian Black Metal, i canadesi Harrow (da Victoria, British Columbia) incarnano alla perfezione il prototipo ideale di musica che un gruppo che vuole etichettarsi come “cascadiano” (che cosa brutta ho scritto!) deve suonare. A dirla tutta definiscono il loro sound come “Atavistic Metal” ma non aggiungerei altre etichette bizzarre, anche se in effetti hanno davvero la capacità di connettere l'ascoltatore con mondi antichi dominati dalla Natura, luoghi in cui l'uomo era ancora una controfigura in uno spettacolo nel quale gli attori principali erano i miti, le leggende, gli animali, le stagioni ed il tempo.
Da un punto di vista musicale c'è poco da dire: chi ama il genere andrà letteralmente in un brodo di giuggiole. Trasportati dalla voce e dalle superbe linee chitarrristiche di Ian non si fa fatica a farsi ipnotizzare da questi quattro lunghi pezzi, nei quali ancestrali trame acustiche si intrecciano con feroci assalti black, pur sempre guidati da una melodia di fondo che rende il tutto estremamente fruibile e godibile, anche per chi magari non è avvezzo al black metal. Come ho poi avuto modo di dire anche in occasione dell'ultima uscita degli Alda, il post rock si dimostra ormai una base indispensabile nella costruzione di questi pezzi, se è vero che la parte da leone la costituiscono i vari climax emotivi che animano ogni singolo pezzo.
Questo “Fallow Fields” va preso a scatola chiusa, senza pensarci due volte: assieme a “Passage” degli Alda costituisce una splendida gemma di Cascadian Black Metal, a tratti superando addirittura iin pathos i “maestri” del genere. Non c'è altro da dire, bisogna solo correre ed immergersi al più presto in questa musica maestosa e sciamanica.
Fallow Fields
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domenica 30 agosto 2015
Trapassi
Entrò dalla finestra e si posò sulla sponda del letto: era notte e nessuno la vide o sentì entrare, ma di fatto non c'erano poi molte persone in giro. Tese il capo verso la porta e sentì solo il russare della persona che dormiva nella stanza vicina, i grilli in giardino e il respiro lento, affannoso, che spesso cedeva il passo ad una lugubre apnea, della donna, distesa immobile sul letto.
Da secoli aveva svolto quel compito, e stasera sulla carta non avrebbe dovuto fare differenza, eppure c'era qualcosa di strano, provava compassione per quella personcina, logorata da un male tremendo che la mangiava da dentro; percepiva ancora attorno al suo letto il calore delle lacrime dei familiari che si erano avvicendati nel corso dei giorni per salutarla, e decise di attendere ancora un po' prima di portarla con sé. Dal capezzale volò su una trave al di sopra del letto, in un angolino buio, e lì si rannicchiò e attese la venuta del giorno.
Il sole non tardò ad arrivare e con esso i primi familiari, che iniziavano il solito incessante stanco e triste viavai: lei li guardava, uno dopo l'altro, vedeva nei loro cuori, percepiva le loro storie, sentiva le loro intenzioni e capiva subito se erano sincere oppure no. C'era il marito, desolato e vinto dalla tristezza, i fratelli e sorelle della malata, che cercavano di mascherare al meglio, secondo il loro carattere, la tristezza che li lancinava; c'erano i suoi nipoti accompagnati dai rispettivi
compagni (mariti e mogli), e tutti, anche chi non era parente stretto ma che era comunque parte di quell'abbraccio immaginario di persone, tutti soffrivano a modo loro, tutti vedendola ansimare e cercare aria ripensavano ai momenti che avevano condiviso.
La civetta attese un po', poi sentì che il tempo stava scivolando dalle dita della donna, dita sempre più fredde per via di una morte sempre più pressante: il volto si faceva ogni minuto più scavato, l'apnea sempre più prolungata, il battito del cuore sempre più flebile. Nel momento in cui il sole era più alto, forse per lei il momento peggiore visto che a quell'ora normalmente se ne stava ben rintanata nel fitto del bosco, sfruttò uno dei rari attimi in cui la donna era stata lasciata sola per scendere dalla sua trave e volarle vicino al volto, abbastanza vicino da toccarla con le sue piume. In quell'attimo il respiro dell'allettata si fece profondo, e poi il nulla la avvolse: ma l'anima, quella no, quella era ben salda e impressa negli occhi della traghettatrice alata, che volò veloce fuori dalla finestra e scomparve nel vicino bosco.
Il primo a rientrare fu il marito, che accortosi della dipartita della moglie, chiamò tutti i parenti, che piano piano fecero il loro ingresso nella camera per porre il loro ultimo saluto alle spoglie ormai fredde. Loro non lo sapevano ma tramite gli occhi scuri del pennuto che aveva salvato la sua anima la donna li stava guardando e ringraziando uno ad uno, anche solo per aver condiviso con lei gli ultimi attimi di una vita che avrebbe potuto essere più lunga, ma che le aveva dato gioie sufficienti ad andarsene con la pace nel cuore.
Sono passati più di quattro anni dall'ultimo lavoro degli americani Alda, quel “Tahoma” che, per chi segue le vicende della (ormai non più) nuova ondata di black targato USA, costituisce uno dei capisaldi del Cascadian Black Metal. Supportati da un'etichetta ben radicata nel suolo americano e ben calzante da un punto di vista etico e di pensiero, i Nostri si riafacciano sul mercato con “Passage”, un disco che prende spunto da alcuni momenti del suo predecessore per evolversi verso forme più riflessive e ragionate. “Tahoma” era ancestrale e feroce in certi momenti, mentre il nuovo lavoro, pur non rinunciando affatto al lato sanguigno e selvaggio del black, pone maggiormente in risalto i saliscendi emotivi che nel precedente lavoro costituivano invece il ponte tra una sezione più marcatamente “metal” ed una più folk. Mi viene quasi da dire che, nel modo di suonare, i nostri si siano spinti quasi ai confini del post rock (che comunque, a ben pensarci, costituisce da sempre a mio avviso una delle radici del black cascadiano), partendo da arpeggi acustici che si assommano, crescono, strabordano e deflagrano in riff elettrici dal coinvolgente piglio emozionale.
Tirando le somme, meglio o peggio di “Tahoma”? Pareggio, due facce della stessa medaglia, i punti deboli di un lavoro sono stati corretti dall'altro e viceversa. Va riconosciuto il gran cuore di questi ragazzi, che pur non stravolgendo nulla in un genere che ormai, seppur giovane, ha già detto molto della sua personalità, hanno saputo regalare ai loro fan e più in generale agli ascoltatori della scena un lavor intimo e notturno, ragionato, riflessivo e appagante, forse meno immediato del precedente, ma che saprà sicuramente regalare emozioni a chi saprà farlo suo.
The Clearcut
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sabato 30 maggio 2015
Tempo di saluti nel Dojo...
Non è mai facile salutare un Dojo,
anche perché non è solo un semplice edificio, spesso (e nella
migliore delle ipotesi) è un mondo a sé, una dimensione diversa
dove per un'ora e mezzo, due ore, dialoghi sì con il tuo Maestro e i
tuoi compagni, ma soprattutto lavori su te stesso.
Non è facile perché rappresenta in un
certo senso mesi di lavoro, sudate su un'Arte che ti ha fatto per ora
bestemmiare tanto, ma che qualche soddisfazione te la stava già
regalando.
Non è facile soprattutto perché il
Dojo è fatto di persone, senza il gruppo non ci sarebbe, o meglio,
il gruppo ricrea il Dojo ovunque esso si muova... E stavolta è
proprio questo che mi ha fatto più male, salutare il gruppo, il
Maestro, gli amici. E' vero, ho faticato tanto praticando Wado Ryu,
mi sono dannato l'anima fino all'ultimo per capire le distanze, le
posizioni, gli attacchi... Qualcosa l'ho afferrato alla fine, venendo
da un altro stile la confusione era tanta ma come ha detto il Maestro
stasera stavo inizando a mettere le cose assieme.
Però si sa, ogni tanto si devono fare
delle scelte, e stavolta il seguire il cuore non bastava, perché il
cuore portava in due direzioni diverse e opposte. Mi sono fidato
dell'istinto quindi, dei ricordi, dei movimenti, delle sensazioni, ed
ho deciso di prendere un'altra strada, di salutare, come detto, il
Dojo. Che sia stata una scelta positiva o meno questo ancora non lo
so, e come accade sempre sarà il tempo a farmi capire se ho
sbagliato o meno. Mi lascio alle spalle una bellissima Arte Marziale,
verso la quale non è sbocciato l'amore ma solo fiammate di
sentimento miste a docce fredde... E mi lascio alle spalle delle
persone bellissime, che senza chiedere nulla mi hanno accolto,
integrato nel loro gruppo, reso naturalmente partecipe di tutto, che
hanno saputo apprezzarmi per quello che sono, rispettarmi nei miei
difetti, correggermi ed aiutarmi nei miei errori, e che credo che mi
abbiano voluto bene, sebbene ci conosciamo da un annetto.
Stasera è stata l'ultima lezione, ed i
loro discorsi, i discorsi del Maestro, non sono state frasi fatte,
sono state parole sentite, mi è stato detto che per me la porta è
aperta, e che sperano di riavermi tra loro. Io sono un po' un
ingenuo, lo sono sempre stato, ma ho percepito subito che queste
parole erano vere, che venivano da dentro, che non avevano un secondo
fine ma che volevano trasmettere amicizia, senso di gruppo, lealtà,
comprensione.
Non so se questa esperienza terminerà
con stasera o se avrà un seguito, ma sono certo che, semmai un
giorno dovrò nuovamente varcare quella porta, il Dojo e con lui i
Wado Ryu, il Maestro e gli amici mi riaccoglieranno di nuovo tra
loro, come se fosse passato solo un weekend dall'ultima lezione.
Grazie di tutto, a tutti... Arigatou
gozaimashita
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