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martedì 19 dicembre 2017

2017: a (metal) retrospective

Il mio 2017 musicale è stato un anno di vacche non magre, magrissime: veramente pochi sono stati i dischi usciti in questo anno che si sta per chiudere che mi hanno veramente lasciato qualcosa. Una precisazione è però dovuta: forse per controbilanciare questa pochezza ho avuto l'opportunità di scoprire album usciti anche qualche anno fa di band a me più o meno conosciute, quindi alla fine il bilancio non può dirsi così pessimo, almeno in generale.

Sono stati dodici mesi di delusioni: band che aspettavo con impazienza (vedi più sotto) hanno poi rilasciato dischi tiepidini, che non hanno soddisfatto del tutto l'hype che avevo riposto in loro. Bando alle ciance, questi gli album usciti nel 2017 che mi hanno colpito:



L-XIII - "Obsidian"
Uscito agli inizi del 2017 "Obsidian" è il parto di Neil DeRosa, uno dei due membri degli americani (di Salem, New England) 1476, qui nelle vesti di mastermind del proprio progetto solista L-XIII. Si tratta di un lavoro interamente strumentale, che sa immergere l'ascoltatore in un'atmosfera rarefatta, magica, misteriosa e evocativa. Synth, drone, passaggi atmosferici che flirtano con il Dark ambient più sofisticato ed etereo, una larga presenza del piano, addirittura elementi assimilabili al trip hop più notturno e urbano, fanno di questo "Obsidian" un EP interessante e affascinante. E' forse un po' troppo corto (alla fin fine è pur sempre un EP), ma può costituire sia un ottimo antipasto per possibili uscite future a firma L-XIII: insomma, è da provare, meglio se in un momento in cui avete bisogno di un po' di pace e tranquillità.


Pagina Bandcamp di L-XIII



1476 - "Our Season Draws Near"

Pubblicato in primavera il disco del duo del New England è però strettamente collegato con l'inverno, come ben si evince sin dalla sua copertina. Il nuovo lavoro ha un mood più solenne ed epico rispetto alle precedenti uscite, sebbene siano comunque presenti molti rimandi a "Wildwood". La ricetta dei Nostri presenta sempre gli stessi ingredienti già usati in passato, ma le dosi sono diverse: sfuriate al limite del (post) punk e dark metal con rallentamenti e fasi introspettive tipiche del folk più oscuro e quasi tribale. Riconosco che si è trattato di un lavoro meno immediato dei precedenti, ci ho messo alcuni mesi a farlo mio ma alla fine mi ha conquistato, come già successo con i precedenti lavori. Una band assolutamente da non perdere di vista.


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Amenra - "Mass VI"

Il 2017 ha visto il ritorno sulle scene degli Amenra... e che ritorno!

"Mass VI" si caratterizza sin da subito come, con ogni probabilità, il loro lavoro meglio riuscito, con un perfetto bilanciamento tra dolore, sofferenza, pazzia e malinconia, che musicalmente parlando si traducono in scream furiosi e dolenti, clean caldo e avvolgente, chitarre corpose e robuste e una sessione ritmica che sorregge il tutto con influenze, a mio avviso, mutuate dal mondo post rock e wave. Il disco, forse un po' breve, avanza doloroso e incessante, sbaragliando ogni difesa con "A Solitary Reign", uno tra i più bei pezzi mai scritti dagli Amenra (ma attenzione, anche il finale del lavoro non è da meno!).

Sebbene le soluzioni siano in larga misura sempre le stesse, al punto da poter ormai prevedere la possibile evoluzione di una traccia, c'è comunque una velata evoluzione nascosta in queste tracce, una voglia di toccare ancora più nel profondo il cuore degli ascoltatori. Disco che sin dalla sua uscita si è ritagliato un posto nella mia classifica dei top album del 2017.


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Dawn Ray'd - "The Unlawful Assembly"

Inaspettata sorpresa sul finire del 2017, gli inglesi Dawn Ray'd si sono conquistati un posto fisso nel mio stereo per diversi giorni. Per me si tratta di una vecchia conoscenza, parte della band già militava nei We Came out like Tigers, gruppo dalle sonorità blackcore caratterizzato da un animo "anarco-green" e da sonorità allo stesso tempo ferali e malinconiche (merito dell'uso del violino, in grado di donare ai pezzi un piglio spesso evocativo e poetico). Con il loro debutto "The Unlawful Assembly" i Nostri recuperano gli elementi già sentiti nella precedente incarnazione, ma introducono anche una componente politica di rivolta e protesta che dona al tutto un incedere epico, titanico e feroce. Gran bella band, spero di sentir parlare ancora positivamente di loro il prossimo anno!


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...e veniamo alle tirate di orecchie. I Wiegedood con "De Doden Hebben Het Goed II" non bissano il successo del precedente lavoro, cercando da una parte di ispirarsi alla scuola old school black metal, in parte scansando momentaneamente certe sezioni più rituali e "esoteriche" che avevano caratterizzato il predecessore. Ci regalano un lavoro violento e martellante, ma spesso senza una verve in grado di staccarlo dal resto. Stesso discorso può essere fatto per gli Harakiri for the Sky, che cercano di restare sull'onda del successo ottenuto con "Aokigahara" riuscendoci solo in parte. I Nostri svolgono il compitino con "III: Trauma", ma nulla più: sono sempre presenti i continui saliscendi emotivi, con melodia e potenza che si alternano in egual misura, ma alla lunga il tutto non colpisce, se non per episodi.

Seguono a ruota i Moonspell con il loro "1755", lavoro cantato totalmente in portoghese e dedicato al terremoto che mise in ginocchio Lisbona. Si tratta di un disco tirato e potente, con un Fernando Ribeiro sugli scudi che ringhia forse però anche troppo, risultando alla lunga monocorde. A fronte di brani notevoli e da un fortissimo appeal emotivo si hanno anche pezzi un po' scialbi, e su tutto un fare un po' troppo barocco, con cori, tastiere ed arrangiamenti ampollosi che snaturano una proposta che avrebbe dovuto essere più sanguigna. Alla fine non è un brutto disco sia chiaro, ma non sarà sicuramente ricordato nella discografia dei Nostri, se non per il fatto della componente linguistica.

Chiudo con quella che è stata la delusione più cocente dell'anno, "Thrice Woven" dei Wolves in the Throne Room. Dopo "Celestite" avevo perso ogni speranza, e sapere che sarebbero tornati alle origini con un nuovo lavoro mi aveva animato di grandissime aspettative, in larga misura poi deluse. E' un lavoro che molti gruppi Cascadian e black in generale si sognerebbero di fare, questo è vero, ma non del solo nome si può campare. Ci sono due, tre pezzi oggettivamente esagerati, che fanno riassaporare i vecchi WITTR, ma ce ne sono altrettanti tiepidi e tutto sommato trascurabili. Tanto valeva fare un EP per tenere tranquilli i fan e allo stesso tempo asfaltare le masse con il suono potente ed evocativo che li ha sempre caratterizzati, ma messo così sembra un po' un non finito, qualcosa di affrettato buttato in pasto alle masse per far tacere le lamentele. E' però il ritorno sulle scene dei WITTR, e ciò mi basta, nella speranza che il futuro sia nuovamente roseo per i Nostri... Nel frattempo rimetto su "Two Hunters"!

Vi lascio con un appunto personale. Questo 2017 mi ha permesso di stringere amicizie (spero durature!) con artisti che apprezzo e che stimo molto, i cui lavori rientrano ormai da tempo tra i miei dischi preferiti, album che ogni tanto sento la necessità di riascoltare. Un enorme grazie quindi va a Matteo (Chiral), Robb e Neil (Monastery, L-XIII e, insieme, 1476): tutte persone squisite dotate di grande senso artistico e di una sensibilità (anche nei rapporti umani) davvero fuori dal comune.

Per questo 2017 direi che è tutto: a questo punto posso solo augurarmi che il 2018 sia migliore, alla fine non ci vorrà tantissimo!

venerdì 8 dicembre 2017

Nelle tue vene scorre il miele



“Kain è idolatrato. I clan raccontano leggende su di lui, ma pochi sanno la verità. Una volta egli era mortale come tutti noi. Il suo disprezzo per l'umanità lo portò a creare me e i miei fratelli.
Io sono Raziel: il primo dei suoi luogotenenti. Ho servito Kain per un intero millennio. All'alba dell'impero io ero al suo fianco assieme ai miei fratelli, tutti insieme creammo le legioni che fecero cadere Nosgoth. Con il tempo continuammo ad evolverci, diventammo sempre meno umani, sempre più... divini.
Kain sperimentava per primo il cambiamento e ne emergeva rinnovato in qualcosa. Qualche anno dopo il nostro Signore anche a noi sarebbe toccato evolverci. Questo durò fino a quando ebbi l'impulso di superare il mio Signore.
Per la mia trasgressione ricevetti un nuovo tipo di ricompensa: l'agonia. Il risultato poteva essere uno solo: la mia eterna dannazione. Io, Raziel, sarei finito come i traditori e gli inetti, sarei bruciato per sempre nelle viscere del Lago dei Morti. E così caddi nelle profondità dell'abisso urlando mentre fuochi bianchi mi divoravano. Dolore indicibile, agonia estrema, il tempo smise di esistere. Rimase solo questa tortura e un odio sempre più profondo per l'ipocrisia che mi aveva condannato ad un simile inferno. Dopo un'eternità il mio tormento si mitigò facendomi risalire nel precipizio della follia. La discesa mi aveva distrutto eppure vivevo ancora.
Raziel... Sei un valoroso...
...And Your Blood Is Full Of Honey” è la prima opera dei The Angelic Process, duo formato da K.Angylus e MDragynfly che ha avuto una vita musicale breve (causa il decesso del primo dei due elementi) ma qualitativamente sopra le righe. La formula dei Nostri, che arriverà al suo apice con il capolavoro “Weighing Souls With Sand”, è qui ancora acerba: è come se il doom e il drone che stanno alla base di questo lavoro costituissero come una sorta di essere vivente, le cui carni sono ora lacerate dalla voce lontana e sofferente di MDragynfly, ora sferzate dagli algidi riff di chitarra, ora percosse da una batteria marziale e aliena. Si intravede ancora parzialmente l’elemento atmosferico e shoegaze che sarà presente in misura sempre maggiore nei lavori a seguire, aspetto questo che donerà alla musica dei Nostri un sinistro bagliore quasi di speranza e redenzione, che non si percepiscono ancora nell’oscurità di questo “...And Your Blood Is Full Of Honey”.
Si tratta di un lavoro assolutamente da riscoprire, e che si merita un posto di assoluto rilievo nella discografia dei The Angelic Process: un disco cupo e pessimista, spettrale, un viaggio nelle paure e nelle angosce più profonde dei Nostri, quelle stesse paure che poi hanno preso il sopravvento su K.Angylus portandolo alla prematura dipartita.

Cages of Blood and Bone

https://www.debaser.it/the-angelic-process/and-your-blood-is-full-of-honey/recensione

venerdì 6 ottobre 2017

Anelli



Anelli.
Colin si toglie la maglietta, di un bianco accecante. La sua pelle è coperta di tatuaggi, simboli alchemici, frasi dal senso apparentemente sconnesso: si volta per appoggiarla a terra, mostrando così l'enorme croce ribaltata che campeggia sulla sua schiena, dalle spalle fino al bacino, nera come gli inni che di lì a poco avrebbe levato al cielo.
Ha delle cicatrici lungo le braccia, ci sono dei piccoli fori tra le sue costole.
Si volta nuovamente, occhi chiusi e braccia allargate: uomini incappucciati gli scivolano alle spalle, quasi come generati dalla sua ombra, trascinando corde, anelli e ganci. Uno dopo l'altro fanno passare gli anelli nei fori presenti sulle braccia e sulla schiena: ad ogni anello corrisponde un gancio, ad ogni gancio è fissata una corda, e ogni corda è portata in alto, sopra la sua testa, legate a delle carrucole che finora erano rimaste nascoste, avvolte dal buio.
Colin non ha ancora aperto gli occhi, la musica che sente nella sua testa è maestosa e trascinante, lo stato di trance che lo pervade non gli fa sentire altro che quelle note. Non ha sentito il freddo metallo degli anelli trapassare le sue carni, ma sa che a ognuno di essi corrisponde un ricordo, un'emozione, una sfida verso se stesso o gli altri. Uno è collegato con il cuore, uno con la mente, uno con il respiro, uno con il sangue, uno con gli occhi, uno con in sogni, uno con gli incubi. C'è un anello per la rabbia, uno per la sconfitta, uno per l'amore e uno per la perdita. L'anello del cuore è perfettamente circolare, non presenta rotture come gli altri, non si sa come sia stato agganciato: circolare, senza interruzioni, come la vita e la morte in eterno girotondo.
L'intensità della musica cresce, le corde si tendono, i suoi piedi si staccano pian piano da terra, la sua crocifissione sta prendendo forma. Non è metafora religiosa, è quanto di più terreno e materico possa esistere: in quel corpo che piano piano viene issato verso l'alto convergono tutte le paure, i timori e le sofferenze di ognuno di noi. Eccolo lassù in alto Colin, all'apice della sua salita e della sua musica, sovrano incontrastato dalla corona di spine di cashiana memoria, che veglia sul suo "solitary reign" decadente e sanguinante.
Chi è appassionato di sonorità post metal (per semplificare le cose, ma potrei anche parlare di hardcore, doom, crust, sludge...) conoscerà sicuramente gli Amenra. Il combo, proveniente dalle Fiandre, si è fatto notare nel corso degli anni per una serie di lavori (EP, LP, split, live performances) dall'indubbio valore, nei quali la forma musicale dei Nostri si è plasmata pian piano. Successore del binomio "Mass IIII" e "Mass V" (per me quasi un unico lavoro), questo "Mass VI" si caratterizza sin da subito come, con ogni probabilità, il loro lavoro meglio riuscito. Nelle sei tracce che compongono il disco c'è un perfetto bilanciamento tra dolore, sofferenza, pazzia e malinconia, che musicalmente parlando si traducono in scream furiosi e dolenti, clean caldo e avvolgente, chitarre corpose e robuste e una sessione ritmica che sorregge il tutto con influenze, a mio avviso, mutuate dal mondo post rock e wave. Forse un po' troppo corto (o magari sono io che lo percepisco così, visto il coinvolgimento emotivo che ogni volta mi provoca), "Mass VI" non commette passi falsi ma avanza, dolente, sbaragliando le difese del nostro cuore con pezzi da novanta come "Solitary Reign", tra i più belli mai scritti dagli Amenra.
Si tratta di un passo avanti rispetto alla precedente discografia, c'è evoluzione nascosta in queste tracce, e per quanto mi riguarda si tratta sicuramente di uno dei top album del 2017.

Children of the Eye

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https://www.debaser.it/amenra/mass-vi/recensione

venerdì 4 agosto 2017

Sentieri eterni



C’è un uomo che cammina nel suo giardino, ha in mano un libo. L’uomo è cieco e il giardino è un labirinto di sentieri che si dividono, si ramificano, e si riuniscono. Nel giardino ci sono delle statue enormi: qualcuno dice di averle viste muoversi, ma se così fosse sarebbe stato di certo in maniera molto lenta, quasi impercettibile. Il libro è pesante, una persona normale non sarebbe in grado di portarlo.

Il sentiero che l’uomo sta seguendo in questo momento lo conduce all'interno della sua dimora, un edificio fatto da corridoi e saloni. I dipinti nel salone di Destino ritraggono i suoi fratelli e sorelle con le fattezze con le quali loro desiderano essere visti da lui (anche se va detto che nel regno degli Eterni ciò che si desidera e ciò che si ottiene sono in realtà cose così vicine che non si riuscirebbe a farci passare nemmeno una sottile lama affilata nel mezzo). Anche tu, che stai leggendo, avrai passato del tempo nel regno dei suoi fratelli e sorelle: sognando, disperandoti, provando desiderio e cercando distruzione, piacere, finanche a trovare la morte, prima o poi… Ma la tua vita non è mai stata davvero tua, sei sempre stato suo, sin dalla prima pagina del libro, e solo lui è in grado di leggere la tua storia, di come è stata e di come sarà, molto tempo da oggi.

Destino è incatenato al suo libro, o forse è il libro a essere incatenato a lui? E’ composto da tante pagine, non può essere né rubato né prestato. Contiene la tua vita, ogni dettaglio, ogni cosa che ti è successa, ti accadrà, o che semplicemente hai dimenticato o alla quale non credi. Di fatto contiene tutto ciò che è accaduto ed accadrà a chiunque tu abbia conosciuto, incontrato, o nemmeno mai sentito nominare… Lì dentro trovi i sogni, le vicende, i trionfi, le sconfitte e le morti di tutti. In esso si spiega il senso di ognuna delle macchie che compongono il manto di un leopardo, così come la verità sulla forma delle nuvole, sulla vita dei batteri e i segreti che il vento sussurra quando non c’è nessuno a sentirlo. C’è tutto, dall’inizio alla fine.

Destino non ha creato il percorso che sta seguendo la tua vita, eppure nel libro sono spiegati i moti degli atomi e delle galassie: per lui non c’è differenza tra loro, è tutto parte dello stesso tomo. Un giorno, quando il libro sarà terminato, lui lo abbandonerà, ma ancora non è scritto da nessuna parte cosa accadrà dopo. Intanto si volta una nuova pagina: Destino continua a passeggiare nel giardino con in mano un libro, nel quale è contenuto l’Universo intero. (tratto da “Endless Nights”, Neil Gaiman, traduzione libera).

Smoke in the Sky” è la prima prova “ufficiale” dei 1476, duo del New England già ampiamente trattato in queste pagine. Si tratta di un EP, ripubblicato dalla tedesca Prophecy con l’aggiunta di alcune tracce live che seguono il mood del disco principale. E’ un’opera principalmente acustica, che pesca a piene mani dal (neo) folk americano e europeo, aggiungendo saltuariamente inserti di drones ed elettronica. La resa è fumosa, mistica, nostalgica e pensosa: i pezzi rendono al meglio se ascoltati con tranquillità, pensando a tutto e niente, passeggiando per boschi o città. Citando la descrizione fatta dal gruppo, “Smoke In The Sky" places a strong lyrical focus on self-realization and destroying/overcoming obstacles to be reborn as a stronger, healthier self".

Molti degli elementi che caratterizzano questo lavoro saranno poi ampiamente recuperate nei successive dischi: va da sé che è un ascolto obbligato se avete apprezzato il resto della produzione dei 1476, ma merita un occhio di riguardo anche da chi ama immergersi nelle atmosfere magiche che certe produzioni neo folk sanno offrire.

"To Reveal the Shadow Self"

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https://www.debaser.it/1476/smoke-in-the-sky/recensione

giovedì 3 agosto 2017

The Subtle and the Profound



Quel ramo sul quale era nata e cresciuta le era sempre stato un po’ stretto, e a pensarci bene anche il parco, sebbene fosse uno dei più grandi della città, non sembrava riservarle chissà quali sorprese. Posta in uno dei rami più alti e grandi dell’acero, la foglia sentiva una spinta a volere qualcosa di più: non voleva maturare la sua estate e ondeggiare verso la morte nel foliage per sempre attaccata lì dove si trovava… E così una mattina, sfruttando un vento più forte del previsto, si staccò dalle sue sorelle e si fece trasportare via: dove non lo sapeva, alla fine era nelle mani del vento, ma già quello voleva dire vivere qualcosa di nuovo. In quella mattina di primavera l’aria era ancora fresca e Boston si stava risvegliando: la foglia volò tra le persone: gente che si affrettava verso il lavoro, gente che fotografava i monumenti e seguiva il Freedom Trail, gente che mangiava di tutto già a quell’ora. I profumi della città erano già troppo pungenti per lei, abituata al verde parco, per cui accolse con gioia la decisione del vento di trasportarla a nord, lungo la costa.
Portsmouth era già più vivibile: fresca, immersa nel profumo di salsedine, pesce e legno invecchiato al sole e all’acqua di mare, vivace come un porto deve essere, giovane e carica di promesse e speranze… Purtroppo la sua sosta durò poco: il vento si fece di colpo più pressante, spingendola ancora più a nord, verso i fari del Maine, e verso nubi nere cariche di pioggia.
Quando giunse a Cape Elizabeth impattò con forza in uno scoglio, e sentì le sue nervature scricchiolare per la prima volta: non ci fece molto caso, estasiata com’era dalla bellezza e dal misticismo che quel posto emanava. Era come se ci fosse un microclima sulla costa, che aveva generato una fitta nebbia che avvolgeva il faro, il quale svettava ed emergeva comunque imperioso a baluardo dell’ignoto. Seguendo la costa e gli scogli giunse al sentiero sassoso che l’avrebbe accompagnata verso Spring Point Ledge: faro condizionato dallo stesso destino che affliggeva anche Cape Elizabeth, questo era se possibile ancora più spettrale. La foglia fu grata al vento quando questi decise di farle fare un giro attorno alla cima del faro: come svoltò l‘angolo si sentì sospinta da una forza brutale, erano i venti dell’Atlantico che per un attimo avevano dato man forte alla sua fida guida e la stavano spingendo con forza verso ovest.
La foglia, dopo tanto peregrinare, si depositò alla fine sulla grondaia di una chiesetta di campagna: bianca immacolata, col tetto a punta rosso, quella chiesetta le ricordava tantissimo quelle che aveva visto disegnate nei libri di storia dei bambini che erano soliti leggere sotto il suo acero, nel parco, quando ancora era attaccata al suo ramo. Si stava abbandonando ad una leggera malinconia quando di nuovo si alzò in volo, stavolta flebilmente, e volteggiando passò sotto un ponte coperto, trave dopo trave danzando tra ragnatele e nidi di rondine. Oltrepassato il ponte ed il fiume avvertì il calore del sole farsi di colpo più forte: era come se una stagione fosse trascorsa, e l’estate stava rendendo le sue nervature un po’ più secche e meno elastiche, e le sue fibre più tese. Non ci fece alla fine molto caso, Wolfeboro era in vista, e con essa il lago sul quale si adagiava placida. Volteggiò tra i tetti delle case, sospinta dai fumi delle caffetterie e attratta dal battello che stava per iniziare la sua consueta gita attraverso il lago. Stanca si lasciò cadere sul ponte per godersi la calma del lago, una pace meditativa che per un attimo la fece pensare che forse quello sarebbe stato il posto adatto al suo foliage. E invece niente, si riparte: una folata e via verso il Vermont, dove di colpo capì che era lì che ogni foglia avrebbe voluto nascere, crescere e morire marcendo ai piedi di frondosi alberi e vicino a fiumi e cascate. Swanzey era solo la porta per un mondo magico, dove la natura regnava incontrastata e le campagne ed i boschi erano pieni di aceri grandi il doppio del suo (che per inciso aveva i suoi anni ed era comunque un signor albero). Di nuovo un improvviso e forte soffio di vento la fece sbattere contro una roccia, e ancora altri scricchiolii sinistri… Si tornava a sud, sembrava quasi la strada di casa, e invece la mano del vento amico, che di colpo si era fatta più fredda e umida, la trasportò in mezzo a una bufera che si stava abbattendo sulla cittadina di Salem. La gelida e incessante pioggia ingrossò il vento che la trasportava, che si fece quasi più maldestro e violento, sbatacchiandola a destra e sinistra, addosso alle porte delle case, alle vetrine dei negozi e alle mura dei cimiteri. Un colpo d’occhio ad una vetrina le rivelò che aveva cambiato colore: il verde delle sue fibre aveva lasciato il posto a un marrone/rosso, forse un po’ spento probabilmente a causa del tempaccio; anche le nervature erano diventate secche e fragili, colpa del troppo sbattere a destra e sinistra. Fortunatamente raggiunse la costa: “Winter Island” lesse, e pensò che doveva essere un segno quello. Il suo foliage lo aveva avuto in volo, adesso doveva solo affidarsi al vento per l’ultimo ballo, quel volteggio finale che avrebbe posto la parola fine al suo peregrinare. Non ci sperava più ma il vento fu magnanimo, e la depositò proprio sul bordo del faro di Winter Island. Lassù, di nuovo sulla cima del suo piccolo mondo, si sentì a casa, di nuovo, e nemmeno si accorse che le sue trame si stavano pian piano dissolvendo con la pioggia che aveva incessantemente continuato a colpirla.
Nick Stanger è l’anima e il principale autore del progetto Ashbringer, one man band (prima) e ora gruppo a tutti gli effetti originario del Minnesota. Il New England non c’entra nulla con la musica dei Nostri, almeno in apparenza: in realtà la mutabilità di paesaggi e clima tipica della regione a nordest degli USA ben rispecchia la musica della band. Con “Yūgen”, seconda fatica del gruppo, siamo dinnanzi a un di black atmosferico con inserimenti acustici, folk ed epico post rock: in otto tracce abbiamo un affresco del mondo musicale di Stanger, che si ispira sì al versante cascadiano del black, ma ci mette anche molto del suo. Ashbringer sa essere ora sferzante e impetuoso, ora dolce, poetico e struggente, ma sempre originale e incredibilmente suggestivo.
Disco non più recente, è perfetto per il prossimo autunno: un ascolto consigliato per vivere al meglio una stagione transitoria e ahimè fin troppo breve.

"Glowing Embers, Dying Fire"

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venerdì 7 luglio 2017

DIECIMILA!!!



...e siamo oltre quota 10.000,00 visite!
Diecimila, D-I-E-C-I-M-I-L-A, cioè dieci (10) volte mille (1.000), che già erano tanti!

GRAZIE!
10.000 Days

lunedì 3 luglio 2017

Peculiar Storms



Ferdinando, ti vedo assai turbato, 
come sgomento: non aver paura. 
I giochi di magia son terminati. 
Come t'avevo detto, quegli attori 
erano solo spiriti dell'aria, 
ed in aria si son tutti dissolti, 
in un'aria sottile ed impalpabile. 
E come questa rappresentazione 
- un edificio senza fondamenta - 
così l'immenso globo della terra, 
con le sue torri ammantate di nubi, 
le sue ricche magioni, i sacri templi 
e tutto quello che vi si contiene 
è destinato al suo dissolvimento; 
e al pari di quell'incorporea scena 
che abbiam visto dissolversi poc'anzi, 
non lascerà di sé nessuna traccia. 
Siamo fatti anche noi della materia 
di cui son fatti i sogni; 
e nello spazio e nel tempo d'un sogno 
è racchiusa la nostra breve vita.

La furia delle onde si è ormai calmata, e Miranda, seduta su una roccia, fissa con sguardo vitreo quello che resta della sua nave. E' il vento a ricordarle con folate fredde e improvvise del naufragio avvenuto solo poche ore prima, con le sue mani gelide che si insinuano tra i suoi capelli rosso fuoco, scompigliandoli. Solo adesso, solo dopo aver scampato la morte, la giovane si rende conto di quanto suo padre ha sempre sostenuto: la vita è inconsistente, evanescente come gli spiriti, e come loro anche noi scomparendo non lasceremo traccia alcuna, e questo grande palcoscenico sul quale ci muoviamo non ricorderà neppure le nostre ombre o il suono dei nostri passi.

As you fall into sleep 
Beneath the trees 
Beside the stream 
You meander into dreams 
Your heart quickens 
And you race towards the light 
Forever, towards the end of time 
And, always, towards the end of mind 
There will never be escape 
All you know, All you love 
All you thought would keep you safe 
Burns away and dissipates 
And, at the end, all that remains 
Is you and The Eternal Storm 
You and The Eternal Storm

Dietro il progetto Monastery si nasconde Robb Kavjian, “l’altro 50%” dei 1476, duo di Salem già presente su queste pagine. Come già accaduto per i L-XIII (progetto solista dell’altro membro della band sopra citata, Neil DeRosa) anche in questo “Peculiar Storms” siamo di fronte ad una proposta dai connotati spiccatamente ambient, che si fregia però del contributo di inserti elettronici, campionamenti, drone, synth ed influenze folk. A detta del Musicista la principale fonte di ispirazione per questo lavoro è stata l’arte del norvegese Theodor Kittelsen, che insieme ad altri pittori suoi conterranei gli permesso di legare suggestioni musicali, a lui inizialmente poco familiari, con il suo amore per la natura e per l’incontenibile sentimento di “sublime” che essa sa generare nei cuori di chi sa entrarvi in sintonia. Sia nel booklet del cd che nella pagina Bandcamp ogni brano è accompagnato da un dipinto del pittore norvegese che il Nostro ha scelto come possibile riferimento visivo, ma alla fine le suggestioni devono fluire libere e l’ascoltatore deve essere libero di dare la forma che più preferisce ai pezzi che ascolta.
Da notare che, diversamente da quanto accadeva con “Obsidian” a firma L-XIII, l’atmosfera è molto più onirica, brumosa, sognante ed eterea: Kavjian ricrea un mondo magico, un bozzolo ovattato accogliente e intimo, nel quale ognuno è libero di rifugiarsi per trovare un attimo di distacco dalla frenesia quotidiana. Non si tratta del rovescio della medaglia di “Obsidian”, né tanto meno uno sviluppo delle tematiche trattate dai 1476: l’ambientazione pastorale che sento in questo “Peculiar Storms” non è presente nelle produzioni della band “madre”, per lo meno non ne costituisce un tratto distintivo, mentre è il cardine della poetica di Monastery. Un ascolto particolare, non per tutti, non per ogni momento della giornata, ma da centellinare con cura per apprezzarne appieno la magia e la bellezza.

Dedicato alla "mia" Miranda, se c'è un sogno che incornicia la mia vita, quel sogno sei te.

The Eternal Storm

https://www.debaser.it/monastery/peculiar-storms/recensione

martedì 27 giugno 2017

Il pianoforte fantasma



Il vecchio e fumoso bar aveva ormai da anni dismesso i lucenti panni di locale alla moda, ed era rimasto ad appannaggio quasi esclusivo di alcuni abitanti del luogo e di pochi viaggiatori che passavano di lì, di tanto in tanto... Alla fine neppure consumavano: si affacciavano un attimo, davano un'occhiata in giro, ma poi uscivano subito timidamente, quasi respinti dall'ambiente restìo ad accoglierli. Le luci erano spesso soffuse: il proprietario voleva risparmiare sulla bolletta, e alla fine la mezza oscurità giovava alle sbornie degli avventori. L'aria odorava tra il puzzo di fumo e quello dell'alcool scadente che veniva servito, l'arredamento era molto scarno, ma c'era una cosa che non mancava mai, la musica. Un vecchio pianoforte a coda era piazzato in un angolo della sala: sopra di esso era sempre presente, giorno e sera, un bicchiere, una bottiglia di whisky, un candelabro. Il pianista era un tipo spettrale, che ben si confaceva però all'ambiente: alto, magro, una lunga giacca che pareva essere stata rubata da qualche defunto tanto era logora e antiquata, capelli lunghi sulle spalle e un cilindro in testa. Aveva un abitudine il buon Wyatt: per ogni cliente che entrava nel locale lui improvvisava un pezzo al suo pianoforte. Gli bastava un'occhiata: un minuto di silenzio, lo squadrava per qualche secondo, e subito partiva con il suo motivo, che nella sua mente rifletteva esattamente quella che secondo lui era la storia di quel personaggio. E in genere non erano mai belle storie, perché diffficilmente chi entrava nel locale cercava felicità, ma solo conforto e consolazione dai suoi problemi e dal suo passato, che provava ad affogare in una bottiglia di alcool. Alcuni clienti erano poi "affezionati", per cui nel tempo Wyatt aveva avuto modo di scrivere vere e proprie colonne sonore dedicate al loro ingresso.
C'era il vedovo, che aveva tentato il suicidio più di una volta senza mai riuscirci: nei suoi occhi il pianista vedeva solo fantasmi del passato e desiderio di farla finita, mai esaudito per un misto di sfortuna e codardia. C'era il giovane abbandonato dall'amore della sua vita: dopo che era stato lasciato non aveva avuto più la forza di risollevarsi, per cui si aggirava perso per il locale, sussultando ad ogni voce che fosse più alta di un sussurro, con lo sguardo perso in qualche ricordo fumoso. La sua controparte era la sposa abbandonata all'altare: strano che i due non avessero mai tentato di conoscersi, uniti com'erano dallo stesso infausto destino. Anche lei, come lui, era ottenebrata dal ricordo di un momento di gioia mai concretizzatosi, e, forse a causa di una pazzia latente che piano piano stava emergendo dal fondo del suo io, amava andarsene in giro con il velo bianco (anzi, ormai grigio) in testa. C'era poi l'assassina: nessuno lo sapeva, ma Wyatt aveva visto tutto negli occhi di quella donna. Era una madre, che devastata dall'impotenza di fronte alla malattia delle sue figlioline, aveva deciso un giorno di ucciderle soffocandole nel sonno: alla polizia aveva detto che erano morte per la malattia, e gli ufficiali ci avevano creduto (o forse non se ne erano preoccupati più di tanto, in fondo era solo una poveraccia). La donna aveva sempre le lacrime agli occhi, si muoveva a scatti come un manichino, era magra scheletrica, il suo corpo riflesso del vuoto che aveva nel suo cuore.
A fine serata quando tutti se ne erano andati e il bar chiudeva, Wyatt beveva l'ultimo goccio di whyskey, prima di salire le scale sul retro del bar e ritirarsi in camera (il suo alloggio era infatti al piano superiore del locale, un bugigattolo che una persona normale non avrebbe difficoltà a definire stanzino per le scope).
Una volta posato il cappello si distendeva sul letto, e prima di addormentarsi era solito cantare la canzone che lui stesso dedicava alla sua vita, al suo passato, alla sua tristezza e ai suoi fantasmi: "It seemed to me that summer It would never come again/I watched the snow through dusty windowpanes/Every time I dreamed at night I woke up filled with terror/Silent things were floating in the air/And I wonder how you sleep/And I wonder how you breathe".
Lonesome Wyatt è un cantautore americano con all'attivo due progetti, i Those Poor Bastards e i Lonesome Wyatt and the Holy Spooks, e il presente "Heartsick" fa parte proprio di quest'ultimo. Con gli Holy Spooks Wyatt esplora la parte più intima, malinconica e "gloomy" messa in campo dai TPH, togliendo le parti più sgangherate e dissonanti e riducendo il tutto ad un country americano oscuro e malinconico. Per darvi un'idea potete immaginarvi un'unione tra le "marcette" grottesche spesso utilizzate da Danny Elfman per musicare i film di Tim Burton e le atmosfere polverose, oscure, meste e decadenti dei primi Black Heart Procession. Le sue sono storie di malinconia, di assassini, di morte, che molto si ispirano nelle atmosfere ai film horror in bianco e nero della prima metà del Novecento; i suoi pezzi sono spesso cantilenanti, ma sanno immergere perfettamente l'ascoltatore nell'ambientazione descritta. Musicalmente il country goticheggiante del Nostro si basa in larga misura su pianoforte, chitarra (o altri strumenti a corde come l'ukulele) e su effetti di vario tipo applicati anche alla voce (che spesso risulta volutamente filtrata e lontana, con una resa molto "spettrale"), i brani non sono mai lunnghi al punto da annoiare e l'ascolto è sempre molto piacevole.
La produzione a firma Lonesome Wyatt and the Holy Spooks è a mio avviso molto valida: vero, concettualmente si ruota sempre a tematiche molto simili tra l'oro (e lo stesso autore non fa mistero di essere affascinato dalle atmosfere macabre e dalle storie tetre che ripropone ad ogni suo disco), ciò nonostante è sempre piacevole immergersi nelle musica del cantautore americano. Assolutamente da provare se amate i Black Heart Procession e il mood oscuro che permea i film (di animazione e non) di certi film di Tim Burton.

I Wonder

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venerdì 23 giugno 2017

Le Cattive Madri



Le montagne dell'Engadina si stagliano lontane, eppure se allunghi una mano riesci quasi a toccarle. La neve è soffice, deve aver smesso di nevicare da poco, e sebbene faccia freddo l'oro dell'alba imminente avvolge tutta la valle donandole quasi un calore innaturale. Giovanni vaga senza meta, alla ricerca semplicemente della pace e dell'ispirazione per un prossimo dipinto: un passo dopo l'altro non si accorge nemmeno dove sta andando, perso com'è nei suoi pensieri: non smarrirà la strada di casa, di questo ne è certo, conosce fin troppo bene quei posti. D'improvviso un anomalo scricchiolio lo distoglie dal suo rimuginare, e alzando lo sguardo si imbatte in una visione che ha dell'incredibile.
Perso nell'apparentemente infinita e fredda landa alpina c'è un albero, secco, scheletrico, che punta verso l'alto come se volesse strappare le sue stesse radici. Un prolungamento di un ramo si suddivide in migliaia di appendici, che come tentacoli avvolgono una donna fino al ventre, lasciandole libera solo la parte superiore del tronco. La donna, di una bellezza rara e impalpabile, ha una fluente capigliatura rossa tutta attorcigliata al tronco dell'albero, al punto che è difficile capire se si trattino di capelli o rametti; gli occhi sono chiusi ma non è morta, semplicemente giace come in uno stato di sonno. Il suo seno, scoperto, nutre la testa di un neonato, che spunta da un ramo come un fiore che sboccia dalla sua pianta.
Giovanni è pietrificato alla visione spettrale che gli si presenta di fronte agli occhi. Chi è la donna? Chi ha generato chi? C'è forse una punizione in tutto questo, si tratta forse di un castigo rivolto alle cattive madri? Forse è solo capitato in un momento intimo della Natura, un momento in cui Madre Natura, personificata in donna, nutre l'albero secco che sta rinascendo come un bambino, che si sta risvegliando dal freddo inverno. Giovanni non avrà mai la risposta a queste domande: come fa per avvicinarsi alla donna un raggio di sole, che proprio in quel momento stava sorgendo, lo acceca per un attimo: si stropiccia gli occhi, e come li riapre la donna è sparita, così come il bambino. L'albero è rimasto, quello sì, ma avvicinandosi si accorge che non è secco e scheletrico come gli era parso da lontano, ci sono dei piccolissimi boccioli sui suoi rami ossuti.
Dietro il monicker L-XIII si nasconde Neil DeRosa, uno dei due membri degli americani (di Salem, New England) 1476. Il progetto in questione rimanda, da un punto di vista squisitamente musicale, a "Edgar Allan Poe: A Life of Hope & Despair", lavoro a firma appunto del duo sopra menzionato e ispirato alla vita dell'autore. Il qui presente "Obsidian" prende spunto dalle stesse sonorità meste, pensive e vagamente oscure per spingersi verso una maggiore introspezione, quasi una sorta di rituale occulto interiore, una parentesi di pace nella quale, lontano dall'influenza di ciò che ti sta intorno, riesci a concentrarti su te stesso e a lavorare sulle tue necessità. Interamente strumentale, questo (ahimè) breve EP mette in luce (si fa per dire, vista l'oscurità che avvolge i vari pezzi!) le ottime capacità espressive e comunicative del Nostro, che sa immergere l'ascoltatore in un'atmosfera rarefatta, magica, misteriosa e evocativa. Synth, drone, passaggi atmosferici che flirtano con il Dark ambient più sofisticto ed etereo, una larga presenza del piano, addirittura elementi assimilabili al trip hop più notturno e urbano, fanno di questo "Obsidian" un lavoro interessante e affascinante. Come detto è forse un po' troppo corto (alla fin fine è pur sempre un EP), ma può costituire sia un ottimo antipasto per possibili uscite future a firma L-XIII, sia un preludio a quanto è possibile ascoltare nella già citata opera su E. A. Poe del duo 1476. Da provare, meglio se in un momento in cui avete bisogno di un po' di pace e tranquillità.

Pagina Bandcamp

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mercoledì 5 aprile 2017

Winter of Witches



Gennaio, 1643.
Il mio nome è William Ineson, terrò questo diario come traccia per i prossimi mesi. Porterò la mia famiglia lontano da questa colonia, qui la parola del Signore non sembra più essere la stessa che cihanno insegnato i nostri genitori, e i genitori prima di loro. Ci allontaneremo tutti quanti, mia moglie e i miei quattro figli, e quando nascerà Samuel respirerà un'aria nuova, finalmente timorata di Dio, e crescerà con principi sani che temo inizino a mancare nelle altre nostre creature. Ho già individuato una radura a cento chilometri a nord di qui, costeggiata da un bosco e vicina a un fiume, un luogo perfetto dove iniziare tutto da capo, e cercare il Regno di Dio.

Marzo, 1643.
La casa è stata costruita nel giro di pochi giorni, grazie anche al valido aiuto di Caleb: diventerà un uomo forte il ragazzo, se continuerà su questa strada e seguirà gli insegnamenti del Signore. Ogni giorno andiamo a caccia e mi aiuta a coltivare il campo, abbiamo già seminato il grano che speriamo di raccogliere il prossimo giugno. Anche Thomasin cerca di essere di aiuto: sta sbocciando, sta diventando donna, una bellissima donna, e mi chiedo come abbia fatto a crescere così bella: se non fossimo così timorati di Dio e protetti dalla sua benevolenza direi quasi che riesce a stregarti tale è la sua sensualità. I gemelli sono strani: giocano continuamente e cantano nenie disturbanti, sembrano avere uno strano rapporto con Black Phillip, il nostro caprone, ma va bene finché se ne occupano e lo portano fuori. Il giorno che smetteranno anche di fare quello giuro che li chiuderò nella stalla con lui. Katherine cerca di fare il possibile ma non credo si sia abituata a questa nuova realtà: ha partorito Samuel da sola e con dolore, il buon Dio l'ha aiutata. Eppure sembra avere un rapporto morboso con il nuovo nato, e allo stesso tempo sembra quasi provar invidia per la rigogliosa bellezza di Thomasin.
Ho una strana sensazione, prego Dio di darmi la forza per andare avanti sulla retta via.

Giugno, 1643.
Samuel è morto. Mio Signore, dammi la forza. Lo avevamo lasciato a Thomasin, e quella stupida se lo è fatto sfuggire, non si sa come. Lei dice che un sortilegio lo ha rapito, glielo ha fatto sparire da sotto gli occhi, è stata la strega dice, la strega della foresta, lo ha rapito per le sue pozioni. La ragazza è impazzita, ha perso la fede; o forse no, forse davvero Samuel è stato rapito da qualcosa. Mia moglie è un fiume di lacrime, i gemelli cantano istericamente le loro filastrocche su quel maledetto caprone, ho solo Caleb a sostenermi adesso. Anche la semina è andata male: il grano sembra malato, piagato, se fossimo in condizioni migliori potremmo anche non mangiarlo, ma così come siamo dobbiamo nutrircene lo stesso.

Luglio, 1643.
Sto impazzendo. Le pecore hanno smesso di darci latte, dalle loro mammelle esce solo sangue. In questa foresta, che incombe su di noi come il giudizio divino, in questa foresta vive un male antico. Abbiamo ritrovato Caleb nudo nel bosco, febbricitante, vaneggiante, parlava di una donna nuda e bellissima che lo ha baciato e che gli ha fatto bere un vino "sanguinoso", così dicevano i vaneggiamenti di mio figlio. Lo abbiamo legato a letto, le sue convulsioni sono sempre più forti, la notte si sveglia recitando pezzi delle Scritture che non credevo neppure potesse conoscere. E Thomasin, quella ragazza mi spaventa: non sembra essere turbata da quanto sta accadendo, non sente la punizione di Dio incombere su di noi, e anche i gemelli hanno iniziato a dire che è una strega, che si è concessa a Phillip in cambio dei poteri da fattucchiera, e che presto ci ucciderà tutti. Io non posso credere alle loro storie, ma Katherine sembra dar loro ascolto... Mia moglie sta perdendo il contatto con la realtà, parla da sola, temo per la sua vita.
Non posso credere che Thomasin sia una strega, è così bella...

Agosto, 1643.
Questo è il mio ultimo appunto, stanotte metterò fine a tutto. Caleb è morto, soffocato dalle sue stesse crisi; i gemelli sono scomparsi, solo una traccia di sangue verso il bosco mi ha fatto capire che è indubbiamente opera della strega. Devo salvare Katherine, e uccidere la strega. Ho chiuso Thomasin nella stalla assieme al suo amante, il caprone: adesso andrò lì e li squarterò entrambi, e brucerò il cuore di quella che una volta era mia figlia, e che adesso è solo la sguattera e concubina di Satana in persona. Salverò Katherine e torneremo alla colonia. Signore dammi la forza, questa follia non ci consumerà fino in fondo.

L'inizio della primavera porta con sé il nuovo lavoro dei 1476, combo del New England del quale si è già parlato su queste stesse pagine.
"Our Season Draws Near" è però ancora strettamente collegato con l'inverno, come ben si evince sin dalla copertina del disco. Ascoltando le dieci tracce che compongono questo lavoro si percepisce un taglio più solenne ed epico che i Nostri hanno voluto dare alla loro opera, con molti rimandi a "Wildwood", soprattutto nelle sue ultime fasi. Il citato album si chiudeva con un'immagine invernale, di vento e mare in burrasca, di autunno che lascia il passo alla stagione fredda. Allo stesso tempo trasportava l'ascoltatore in una dimensione tanto cara ai 1476, quella della magia, dell'esoterismo, della superstizione, dei roghi e delle uccisioni sommarie che hanno afflitto la loro regione durante il periodo della caccia alle streghe nel tardo Seicento. "Our Season..." parte da qui dicevamo, con una formula musicale nuovamente eterogenea, che continua a unire sfuriate al limite del (post) punk e dark metal con rallentamenti e fasi introspettive tipiche del folk più oscuro e quasi tribale. Ottima l'interpretazione di Robb, non solo da un punto di vista strumentale (alla chitarra), ma anche e soprattutto vocale, sempre in grado di dare un taglio squisitamente emotivo ad ogni pezzo; così come è grande il lavoro dietro le pelli di Neil, con tanta varietà nel drumming a costituire il cuore pulsante di ogni brano.
Forse di tratta di un disco meno immediato dei precedenti, probabilmente perché più complesso e ancora più sfaccettato da un punto di vista delle emozioni che sa suscitare, ma credetemi, sarà grande la vostra soddisfazione quando e se riuscirete finalmente a fare vostre queste dieci tracce, a capirle e a farvi trascinare dalle immagini che sanno evocare.
Va ribadito: i 1476 sono una sorpresa, anzi ormai una conferma, da seguire con molta attenzione e fiducia.

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martedì 21 febbraio 2017

A Circle is Eternal



"Una volta in una fosca mezzanotte, mentre io meditavo, debole e stanco,
sopra alcuni bizzarri e strani volumi d'una scienza dimenticata;
mentre io chinavo la testa, quasi sonnecchiando - d'un tratto, sentii un colpo leggero,
come di qualcuno che leggermente picchiasse - picchiasse alla porta della mia camera.
« È qualche visitatore - mormorai - che batte alla porta della mia camera »
Questo soltanto, e nulla più.
Ah! distintamente ricordo; era nel fosco Dicembre,
e ciascun tizzo moribondo proiettava il suo fantasma sul pavimento.
Febbrilmente desideravo il mattino: invano avevo tentato di trarre
dai miei libri un sollievo al dolore - al dolore per la mia perduta Eleonora,
e che nessuno chiamerà in terra - mai più.
E il serico triste fruscio di ciascuna cortina purpurea,
facendomi trasalire - mi riempiva di tenori fantastici, mai provati prima,
sicché, in quell'istante, per calmare i battiti del mio cuore, io andava ripetendo:
« È qualche visitatore, che chiede supplicando d'entrare, alla porta della mia stanza.
« Qualche tardivo visitatore, che supplica d'entrare alla porta della mia stanza;
è questo soltanto, e nulla più ».
Subitamente la mia anima divenne forte; e non esitando più a lungo:
« Signore - dissi - o Signora, veramente io imploro il vostro perdono;
« ma il fatto è che io sonnecchiavo: e voi picchiaste sì leggermente,
« e voi sì lievemente bussaste - bussaste alla porta della mia camera,
« che io ero poco sicuro d'avervi udito ». E a questo punto, aprii interamente la porta.
Vi era solo la tenebra, e nulla più.
Scrutando in quella profonda oscurità, rimasi a lungo, stupito impaurito
sospettoso, sognando sogni, che nessun mortale mai ha osato sognare;
ma il silenzio rimase intatto, e l'oscurità non diede nessun segno di vita;
e l'unica parola detta colà fu la sussurrata parola «Eleonora!»
Soltanto questo, e nulla più.
Ritornando nella camera, con tutta la mia anima in fiamme;
ben presto udii di nuovo battere, un poco più forte di prima.
« Certamente - dissi - certamente è qualche cosa al graticcio della mia finestra ».
Io debbo vedere, perciò, cosa sia, e esplorare questo mistero.
È certo il vento, e nulla più.
Quindi io spalancai l'imposta; e con molta civetteria, agitando le ali,
si avanzò un maestoso corvo dei santi giorni d'altri tempi;
egli non fece la menoma riverenza; non esitò, né ristette un istante
ma con aria di Lord o di Lady, si appollaiò sulla porta della mia camera,
s'appollaiò, e s'installò - e nulla più.
Allora, quest'uccello d'ebano, inducendo la mia triste fantasia a sorridere,
con la grave e severa dignità del suo aspetto:
« Sebbene il tuo ciuffo sia tagliato e raso - io dissi - tu non sei certo un vile,
« orrido, torvo e antico corvo errante lontano dalle spiagge della Notte
« dimmi qual è il tuo nome signorile sulle spiagge avernali della Notte! »
Disse il corvo: « Mai più » (...)"

"Edgar Allen Poe: A Life Of Hope & Despair" è la quarta opera dei 1476 (se includiamo in questo conteggio il demo "A Wolf's Age" e gli l'EP "Smoke in the Sky" e "The Nightside", quest'ultimo poi riproposto in una nuova versione assieme al già recensito "Wildwood"). Come spiega il duo nella propria pagina Bandcamp si tratta di una sorta di colonna sonora ispirata a Edgar A. Poe, una raccolta di pezzi attraverso i quali si cerca di esplorare diversi aspetti della tormentata vita dello scrittore americano. Il genere proposto prende le distanze da quanto fino a quel momento creato dai Nostri, sebbene alcune formule saranno riprese in piccola parte nel successivo lavoro: siamo qui in territori ambient, i pezzi sono quasi tutti strumentali e imperniati sull'uso del pianoforte, attorno al quale si sviluppa un contorno di synth, samples e drones. Nelle pochissime volte in cui interviene anche la voce lo fa in maniera toccante ed emozionante, aumentando un crescendo già di per sé teso e toccante (si veda a tal proposito "A Circle is Eternal"). Il risultato di tutto questo lavoro è un affresco incredibilmente suggestivo ed emotivo, una colonna sonora che va ascoltata tutta d'un fiato immaginandosi di essere quel corvo che, con gli occhi da "demone che sogna", osserva il tormentato uomo dibattersi nelle angosce della sua casa, in piena notte.
Come scritto in precedenza la musica dei 1476 emana degli odori, e anche in questo caso questa sensazione si ripete: c'è la carta ingiallita, l'inchiostro, ci sono i vecchi libri riposti in librerie rigonfiate di umidità... L'aria è intrisa dall'acre odore di fumo del camino, che si unisce a quello dei lumi ad olio creando un'atmosfera accogliente ma allo stesso tempo resa inquieta dai rumori della notte che si agita fuori dalle finestre. Il vecchio orologio a pendolo è il legno che arde nel caminetto sono gli unici compagni del protagonista di questo nostro dipinto.
"Edgar Allen Poe: A Life Of Hope & Despair" non è assolutamente un disco immediato, e necessita di una situazione adatta per essere ascoltato ed apprezzato. E' contemplativo, rilassante e inquietante al tempo stesso, si sposa bene con i viaggi nel cuore della notte o le camminate in solitudine, aiuta il flusso dei pensieri e fa riflettere sulle piccole e grandi cose che ogni giorno viviamo e che lasciano il segno sulla nostra pelle. I 1476 si confermano duo capace di emozionare e colpire dritti al cuore, ma (per fortuna?) non sono per tutti: a causa della loro ecletticità spesso non sono capiti, ma sono istintivi: se la loro musica ti colpisce al cuore sin dal primo ascolto è fatta, se invece il triste e sommesso pianoforte suonato su questo disco non smuove nemmeno una corda della vostra anima beh, lasciate perdere allora.

NB: La discografia dei 1476 è stata ripresa in toto dalla Prophecy Productions, che ha riregistrato e riproposto con nuovi package i vari album dei Nostri.

A Circle is Eternal

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