Translate

martedì 26 febbraio 2019

Romanticismo inglese/3



Ricordo di essermi svegliato abbastanza presto quella mattina. Ero in vacanza ma non mi importava, era una cosa che facevo volentieri.
Le vie di Glastonbury alle 6:00 di mattina erano ancora addormentate: nessuno in giro, giusto qualche senzatetto che dormiva sotto i portici della chiesa; l'aria era già fresca, frizzante, positivamente tesa, una caratteristica che ormai avevo imparato a conoscere e ad apprezzare, tipica di quel posto.
Mi incammino verso la Tor: superato il centro città e imboccata una via secondaria inizio a salire le scale ricavate nella terra, in cuffia le parole di un bardo inglese, mi parlano di leggende antiche, di nature incontrastate, di luoghi magici. Arrivo al cancello in cima alla scalinata, lo oltrepasso e inizio a salire la collina. Il cielo è splendidamente chiaro, intorno a me la tipica nebbiolina mattutina, mentre i belati delle pecore al pascolo fanno da contorno ai miei passi in solitaria. Arrivato a metà salita mi volto ad osservare il paesaggio: Glastonbury come Sleepy Hollow, una cittadina in una vallata affogata dalla bruma inglese, dormiente e pacifica. Ripresa la scalinata è un attimo arrivare ai piedi della Torre di San Michele: alzo gli occhi e la sua maestosità mi inebria. Si alza un leggero vento, i cardi dondolano, c'è una sensazione di elettricità nell'aria, di magia, di positività. Varcato l'ingresso della torre un raggio di sole mi sorprende e per un attimo mi acceca: quando riapro gli occhi ho davanti agli occhi la scena più bella di tutta la vacanza. Il sole che sorge in lontananza, i greggi di pecore sparpagliati lungo il pendio della collina, l'erba verde che asseconda il vento, e soprattutto la calma, la pace, la lontananza da tutto e da tutti e allo stesso tempo la comunione di anime e spiriti. Mi siedo dentro la Torre, in una delle panchine di pietra ricavate al suo interno, occhi chiusi, accarezzato ora dal vento, ora dal sole, e respiro. La magia del momento è amplificata dalla musica che ho in cuffia: è il bardo di prima, le sue parole calde, i cori che sostengono e abbracciano gli strumenti, tutto concorre nel rendere l'emozione del momento tangibile. Non succede nulla di speciale, alla fine sono solo una persona che se ne sta seduta con gli occhi chiusi dentro un'antica torre, aspettando il sorgere del sole e ascoltando musica, ma è questo "niente di speciale" che rende questi momenti così indimenticabili. E commoventi, quando mesi dopo ti trovi a riascoltare quella musica e a ripensare a quelle scene.
In un precedente scritto avevo parlato del debutto a firma Wolcensmen come di "un disco fatto di piccole cose, di piccoli gesti, di piccole emozioni e gioie, così come la natura inglese oggetto delle canzoni che lo compongono". Ebbene non posso che ripetere e enfatizzare questa descrizione. "Songs from the Mere" è un EP, una raccolta di pezzi che seguono il filo logico del precedente "Songs from the Fyrgen" allo stesso tempo però distanziandosene per certi aspetti. Musicalmente però le soluzioni scelte sono le medesime, chitarre arpeggiate, fiati, percussioni, tappeti di synth mai invasivi, cori, per un disco di neofolk/ambient da ascoltarsi tutto di un fiato.
Tutti coloro che hanno avuto esperienze non dissimili da quella descritta non avranno difficoltà a riviverle tra le tracce create dal Nostro. Per tutti gli altri un invito ad approcciarsi a questo lavoro con il cuore aperto e con la voglia di lasciarsi andare, per un attimo, ad atmosfere antiche e ricche di pathos.

Lady of the Depe

https://www.debaser.it/wolcensmen/songs-from-the-mere/recensione

martedì 19 febbraio 2019

Marooned



Ero piccolo, avrò avuto massimo dieci/undici anni.
I pomeriggi avevo l'abitudine di scendere in garage, dove mio babbo lavorava, e di passare del tempo nella Fiat 131 di famiglia, il "macchinone" come lo chiamavo io, l'auto che usavamo per i viaggi lunghi quando per esempio andavamo al mare d'estate. Una volta dentro accendevo lo stereo e mi mettevo a giocherellare con le tante cassette che il mio babbo era solito tenere lì dentro. Accanito fan del tape trading lui, credo che di originali ne avrà avuti tre o quattro, tutto il resto erano nastri copiati, fossero esse compilation di musica registrata dalla radio o copie di album originali. Ricordo che mio babbo era solito fare una cosa molto carina, che anche io negli anni a venire ho rifatto, non sapendo che forse, inconsciamente, me l'aveva passata lui: faceva le copertine. Prendeva immagini ritagliate da giornali, o foto sue, le riassemblava con colla e forbici, le ritagliava nel formato corretto e le attaccava al cartoncino della custodia della cassetta. Così non sapevi mai cosa avevi tra le mani, se una compilation o una copia di un album, e lo scoprivi solo aprendo la custodia della cassetta.
Tra tutte le cassettine una mi colpiva sempre tantissimo: ritraeva due teste che si osservavano, a bocca aperta, occhi sgranati, in un campo. Nessuna scritta, nessuna parola, l'atmosfera era sospesa, indefinita, sognante e arcana. Non lo so perché mi affascinava moltissimo questa cover, era confortante e inquietante al tempo stesso, esprimeva allo stesso tempo calore e freddo.
Passano gli anni, crescevo prendendo la mia strada, sbagliando, facendo scelte giuste, e allo stesso tempo quel babbo mi osservava andare per la mia via, rimettendomi in carreggiata se c'era bisogno, ma tutto sommato rimanendo sempre nell'ombra. Negli anni affino i miei gusti musicali, accresco la mia "libreria", ma il caso vuole che alla fine, più o meno consciamente, un giorno mi imbatto nuovamente in quella copertina, o meglio, in quell'album. Stavolta sapevo perfettamente di cosa si trattava, nel tempo avevo iniziato a conoscere, apprezzare, fino a innamorarmi dei Pink Floyd, e il giorno che rividi nuovamente quella copertina, e vi associai i testi e la musica che questa rappresentava, riuscii finalmente a dare un senso a quella percezione che avevo di inquietudine e freddo.
Passano altri anni, quel babbo che era stato sempre al mio fianco non c'è più, ma ovviamente continua a rivivere nei miei ricordi, nelle sue/nostre cose, e nelle canzoni. Ieri avevo messo su, distrattamente, "The Division Bell" dei Pink Floyd, disco che mi è sempre piaciuto, sebbene non lo ritenessi pietra miliare della discografia degli inglesi. Ne ho sempre apprezzato i suoni, la dolcezza con la quale Gilmour suona la chitarra, il calore consolatorio della sua voce, le atmosfere miti, rassicuranti, tratteggiate dalle tastiere di Wright, e quell'alone nostalgico che animava tutto il lavoro. "High Hopes" è stata per molto tempo il mio pezzo preferito, ma ieri, ascoltando "Marooned", ho avuto un brivido.
marooned: adjective UK, /məˈruːnd/ US - /məˈruːnd/, left in a place from which you cannot escape.
Ho dato un senso all'inquietudine che ultimamente mi sta assalendo, al senso di "mancanza" di qualcosa, di un pezzo di cuore probabilmente. E come vuole il concept alla base del disco anche io percepisco assenza di comunicazione, lontananza, mancanza, "silence that speaks so much louder than words" prendendo in prestito le parole di un altro brano Floydiano. Il brano, strumentale, è un monologo chitarristico gilmouriano, un pianto lontano che si adagia dolce su tappeto di tastiere offerto da Wrigh: tantissima atmosfera che permette ad ognuno di noi di vagare e perdersi nella propria anima.
Si cresce, si cambiano gusti, le canzoni che una volta ritenevi fondamentali per la tua crescita cedono il posto ad altre, ma è bello constatare come alla base di tante cose ci sia sempre la musica a tenere vivi i ricordi.
Nota a margine:
Non si tratta di una recensione di un album ("The Division Bell"), non si tratta di fatto di una recensione anche se alla base c'è una canzone ("Marooned" dei Pink Floyd). Vuole semmai essere una riflessione appoggiata a una piccola recensione (se mai ce ne fosse ancora bisogno di parlare e incensare i Floyd), un tentativo di dire che la musica va ascoltata con il cuore, va sentita, va legata ai ricordi e non lasciata a sottofondo passivo. E' una molla fortissima, una ancora indistruttibile che ci permetterà sempre, ovunque, di restare in contatto con il nostro passato e allo stesso tempo avere indicazioni sul nostro futuro.

Marooned

https://www.debaser.it/pink-floyd/marooned/recensione

mercoledì 6 febbraio 2019

Viaggi musicali



Amo viaggiare perché mi aiuta a scoprirmi, a conoscermi, a reinventarmi. Ogni viaggio, anche se si tratta di soli dieci giorni, è un'occasione di crescita, se entri in sintonia con il posto nel quale ti trovi riesci alle volte a scoprire lati di te che non conoscevi, ed a svilupparli. Così ogni viaggio è figlio di quello precedente, porta con sé il tuo "io" trasformato e mutato, è quindi un'evoluzione.
La Musica è a suo modo anche lei un viaggio, mentale stavolta: con il tempo, album dopo album, cresci, maturi, ti evolvi, apprezzi cose che non avresti mai apprezzato prima o, di contro, detesti quanto avevi ascoltato fino a l'altro ieri.
E quando lo spostarsi fisico e mentale si uniscono, quando addirittura il secondo ti permette di rivivere le emozioni del primo, accade una specie di magia. Allora ti sembra di essere lì, su quel traghetto che nell'estate del 2012 solcava con te a bordo il freddo mare norvegese, in quella tratta apparentemente infinita che separava Flåm da Bergen. Seduto a poppa osservavo la terra allontanarsi pian piano, il verde delle montagne che si alternava a flash rossi e blu della bandiera norvegese che, garrendo al vento, talvolta si frapponeva tra me e la terraferma. La giornata era splendida, il cielo limpido sembrava riflettere l'azzurro del mare, e non viceversa; non era freddo, almeno per gli standard norvegesi, vero è però che sul ponte della nave il vento si faceva sentire. Me ne stavo seduto semplicemente a fissare le onde incresparsi e le coste boscose darsi il cambio una dopo l'altra, seduto con le gambe incrociate e le mani in tasca, senza pensare a niente, con solo il mio fido lettore MP3 e la musica di sottofondo. La pace era tale che a un certo punto mi ero anche addormentato, o almeno, ero in uno stato di dormiveglia piacevole, rilassante, in accordo con il mondo e con quanto mi circondava, fosse esso una foresta, una cascata, il mare o un fiordo.
Alcune ore dopo il traghetto attraccava a Bergen, ed io non mi ero mai spostato da quella panchina a poppa della nave. Scendendo la scaletta in legno e metallo mi sentivo diverso, cambiato, arricchito. Quel viaggio nel viaggio mi aveva cambiato, solo che al tempo ancora non lo sapevo. Per fortuna oggi i frutti di quel cambiamento sono ancora qui con me, li rinnovo ogni volta, li porto sempre con me, li rinverdisco e li arricchisco, e li ringrazio per avermi reso un po' migliore.
E quando meno me lo aspetto, anche quando sono comodamente seduto su una panchina in un parco a leggere, con in cuffia un disco, ecco che questi ricordi affiorano, riallacciandosi con quello che sto ascoltando in quel momento. Una folata di vento freddo in una limpida e soleggiata giornata d'inverno, ed è di nuovo magia.
Mi sono avvicinato a Osi and the Jupiter solo pochi giorni fa, ma ne sono rimasto folgorato: dietro questo progetto si cela la mente dello statunitense Sean Deth, che nel settembre 2017 pubblica il presente "Uthuling Hyl".
Da un rapido sguardo alla cover e alle suggestioni dell'artwork possiamo pensare di essere di fronte ad un emulo dei Wardruna: diciamo che per un 30% è così, ma la proposta del Nostro prende per fortuna le distanze dal sopra menzionato gruppo. Si tratta di un album di folk ambient, con percussioni tribali e sciamaniche che, unite ad elementi di drone e synth vanno a tessere atmosfere mistiche ed ipnotiche, che conciliano la meditazione e l'introspezione. Nella pagina Bandcamp di Osi and the Jupiter si legge che sin dalla sua nascita "the project has been spiritual connection between nature and the will of the old Gods – channelled through various representations of life, death and rebirth, this connection speaks through these musical creations, resonating as wordless tributes to these nebulous yet fundamental concepts". Non c'è quindi connotazione geografica, a seconda delle esperienze dell'ascoltatore può richiamare i fiordi norvegesi o le foreste del nordamerica, i canti tribali dei popoli del freddo nord europeo o lo sciamanesimo dei nativi. Ci vuole la combinazione ottimale di eventi e situazioni affinché si riesca ad entrare in sintonia con questi nove pezzi, ma una volta che la connessione si è creata se ne ottiene un viaggio di gran bellezza e magia, intimo, riflessivo e calmante.
Musicalmente forse non è un disco per tutti, eppure per l'universalità del modo con il quale parla ai nostri spiriti mi sento di dire che ognuno di noi potrebbe riuscire a trovare una parte di sé in questo percorso musicale.

https://osifolk.bandcamp.com/album/uthuling-hyl

https://www.debaser.it/osi-and-the-jupiter/uthuling-hyl/recensione

venerdì 11 gennaio 2019

The Garden, venti anni dopo



Ho ritrovato una recensione che scrissi anni fa su "Sunday 8P.M." dei Faithless. E' stato bello rileggerla, è stato come rivedermi allo specchio ma più maturo, cresciuto per così dire.
Per paura di perderla voglio riportarla qui di seguito:

"Qualcosa di speciale, spirituale, mi lega a "Sunday 8 PM" dei Faithless. E' una sensazione di freddo, smarrimento, nostalgia, un perenne senso di assenza... Un po' ciò che si prova dopo che si è stati abbandonati da quello che si credeva essere l'Amore eterno, l'impotenza che ti attanaglia derivante da quel peso che improvvisamente è tutto sulle spalle di uno (quando prima era condiviso).
Lunghe passeggiate in notturna e in solitudine, il rimorso e il rimpianto tuoi compagni, eco fedele di passi sull'erba appena bagnata dalla rugiada, e, sporadica, la rabbia, che a tratti ti infiamma con punte di orgoglio. "The Garden", traccia posta in apertura al disco, ha sempre significato questo per me, una dolce culla autunnale prima dell'invernale "Bring My Family Back".
I ricordi più amari sono proprio delle bestiacce, tessere di domino affiancate le une alle altre in attesa che ne crolli anche solo una, per collassate tutte quante tirandosi dietro un carrozzone di memorie che magari non c'entrano nulla, ma che sanno quando è il momento giusto per saltare fuori, così, per fustigarti un po' di più (la dolcezza dell'autocommiserazione).
"Bring My Family Back" mi trascina in un gorgo fatto di sbiadite immagini, e anche oggi, a quasi dieci anni di distanza da quando, per la prima volta, ascoltai il presente disco, le sensazioni sono ancora le stesse: ferite che continuano a bruciare, lacrime calde che paiono riaffiorare come fumi trasportati da un uggioso vento novembrino.
Il dolore dell'essere stati lasciati dicevo, la solitudine. "My Lover's Gone" canta Dido, mentre sfogli lentamente lettere, cartoline ("Postcards") che hanno segnato importanti momenti della tua vita in due. Ora solo il vuoto, solo foto e cartoline, che, checché ne dica la gente, per quanto bei ricordi saranno per te sempre bocconi troppo amari da digerire completamente.
E quando l'ora si è fatta tarda, quando ormai quel giardino nel quale passeggi è divenuto una marea che ciclicamente ti investe e sommerge, quando ormai ti sembrano anni che sopravvivi alla tua stessa malinconia, decidi che è il momento di tornare a casa, di riprendere possesso della tua vita, di riunire i pezzi del puzzle ("Take The Long Way Home").
E' bello come la tua decisione, la tua forza d'animo, si sgretola come nulla non appena il sorriso di lei si riaffaccia nella tua mente. Perché te ne vai? "Why Go?" "Why go, when you can stay for a while?" Quegli occhi, quella bocca, quell corpo, ti richiamano, si prendono gioco della tua tanto sventolata (ma fittizia) rinnovata forza di animo, riducendoti di nuovo a una barchetta di carta in balia di onde impetuose.
E d'improvviso la rivelazione. Il tuo stesso male, la tua malinconia, la sofferenza e l'infelicità causate dall'essere stato abbandonato, saranno loro a curarti, loro guariranno le tue ferite, da esse ripartirai, non lottando contro di loro ma facendole tue, usandole per sopravvivere ("This is my church, this is where I heal my hurts").
Adesso riesci a vedere il giardino con nuovi occhi, quelli della dolce malinconia. Tutto intorno è placido, tranquillo, il cielo è pulito, non un alito di vento, le macchine sono lontane, non disturbano. Tutti paiono dormire in un'atmosfera metafisica come una città già deserta alle otto di domenica sera ("Sunday 8 PM"). E' questo nirvana, questa ritrovata serenità che ti fanno immaginare una scena che, in un'altra situazione, ti avrebbe ucciso, ma che ora si erge a manifesto della tua ritrovata personalità: lei e il suo nuovo lui, abbracciati, lei che gli accarezza i capelli, incurante del passato appena vissuto con te ("Killer's Lullaby").
Ormai il passato è alle spalle, o meglio è parte di te, ti ha fatto crescere, ti è servito per capire che, è vero, quel che non ammazza ingrassa.
La musica è strana, mai avrei immaginato che un disco di un genere lontano da quelli che di solito ascolto, "Sunday 8 PM" dei Faithless, avrebbe potuto scortarmi così fedelmente lungo un anno intero della mia vita, un periodo nero e travagliato certo, ma che a conti fatti forse avrebbe potuto essere peggiore, se non fosse stato (anche) per questo disco."


mercoledì 12 dicembre 2018

People have ceased to ask me about... me



Il bello di certe persone è che non si finisce mai di conoscerle.
L'ho incontrato anni fa, per caso, ma mi era sempre rimasto un po' indifferente: non dico antipatico eh, nemmeno simpatico però. Lo sguardo buono ma sfuggevole, il sorriso timidamente appena abbozzato quando ci incrociavamo, il suo fare un po' solitario che lo portava a rifuggire i gruppi numerosi. Che poi la cosa bella era che, tutte le volte che ci parlavo venivano fuori sempre conversazioni interessanti, segno che cose da dire e idee da condividere ne aveva, le teneva per sé forse. Al tempo pensavo che mai e poi mai avrei voluto scambiarmi con lui, mi era sempre apparso un po' solo e infelice, il mio esatto opposto in quel momento. Poi come spesso succede si cresce anche quando si pensa di essere già maturi, la vita ci cambia in modi non comprensibili, ci adattiamo al flusso degli eventi, ci pieghiamo per sopravvivere anche, ci trasformiamo. Ed ecco che, dopo anni che non ci vedevamo, l'ho incontrato nuovamente, ed è stato come guardarsi allo specchio: di colpo io ero come lui, ci siamo salutati con lo stesso identico sorriso timido e abbozzato, ci siamo scambiati due parole di circostanza, eppoi discorso dopo discorso è passata un'ora senza che nemmeno me ne rendessi conto. Il cielo grigio e monotono di una fredda giornata di metà dicembre si sposava perfettamente con il freddo pungente di un vento che sembrava portarsi la neve di lì a poco: appoggiati ad un muricciolo abbiamo ripercorso tutti gli anni durante i quali ci eravamo persi. Abbiamo parlato di come siamo chiusi in noi stessi, di come abbiamo costruito una fortezza nella quale abbiamo incluso solo alcune persone scelte, lasciando fuori tutte le altre, alle quali timidamente sorridiamo, per poi passare oltre. Abbiamo parlato di qualche acciacco che ci sta martoriando ma che non ci ha ancora bloccato dal fare quello che ci piace e che ci regala gioia, pace e libertà; ci siamo confessati la lacrima facile che abbiamo sviluppato nel vedere certi film che una volta avremmo rifuggito come la peste (quanti pianti su "Il favoloso mondo di Amélie"!); ci siamo confessati che a volte ci sentiamo soli, che proviamo nostalgia. Ma è una nostalgia strana, è sia di cose già vissute che di cose che non abbiamo vissuto affatto, ma che ci mancano in qualche modo. Non ci siamo definiti infelici eh, solo, ecco, tremendamente nostalgici e malinconici: ma non siamo riusciti a capire se sia un male o un bene, in fondo per adesso stiamo bene così.
Ci siamo salutati, promettendoci di non perderci di nuovo, poi ognuno per la sua strada: a un certo punto mi sono voltato per vedere dove stesse andando, ma era sparito nel nulla, volatilizzato, come se non fosse mai esistito. Mi sono detto che forse è normale per lui, sparire così senza che nessuno se ne accorga, ma sono comunque convinto che ci rincontreremo presto.
Vengono da La Spezia i Morose, e non sono poi una novità per me, avendo avuto modo di apprezzare e amare a suo tempo "On the Back of Each Day", il successore del qui presente "People have ceased to ask me about You". Proprio con questo album i Nostri sviluppano quel genere tutto loro che poi sarà riproposto anche successivamente, un mix di cantautorato, folk apocalittico à la Black Heart Procession, minimalismo di reminiscenze Nick Drake, post rock e slowcore. Se ne ottiene un disco tardo invernale, riflessivo, malinconico ma non triste: per qualcuno sarà magari spallamento e nenia-rock, ma sono convinto che in certi momenti, o in giornate fredde e nuvolose di fine autunno, un disco del genere può essere un valido specchio per fermarci e riflettere un po' su noi stessi. Con un timido sorriso.

Un Plaisir funeste

https://www.debaser.it/au-506319/people-have-ceased-to-ask-me-about-you/recensione

venerdì 23 novembre 2018

2018: a (metal) retrospective

Il 2018 che sta per chiudersi è stato un anno musicalmente ricchissimo per me. Soprattutto nella seconda metà sono usciti molti dischi che sono entrati subito di diritto tra i miei favoriti: ventate d'aria fresca in un panorama che stava diventando per i miei gusti un po' troppo statico. Con ogni probabilità si tratta della lista più lunga da quando ho aperto questo blog (o almeno da quando pubblico questa sorta di retrospettiva)... Ma va bene così, la buona musica non è mai abbastanza!
E sì, lo so, manca poco più di un mese alla fine dell'anno, e magari spunta ancora qualcosa di nuovo e di interessante, ma non ce la facevo a trattenere ulteriormente questa listona!!!


Crippled Black Phoenix - "Great Escape"
I CBP sono un supergruppo tra le cui fila militano (o hanno militato) membri di band importanti nel panorama musicale come Mogwai o Electric Wizard, anche se il grosso del progetto ruota attorno al polistrumentista Justin Greaves. In ogni disco dei Nostri confluiscono le varie esperienze dei componenti, e questo disco non fa eccezione. Semplificando siamo di fronte a un album di prog elegante, raffinato ma assolutamente non manieristico o cervellotico. Echi di Pink Floyd, Porcupine Tree, Pain of Salvation e Anathema dei primi 2000 si alternano senza soluzione di continuità nelle varie tracce, unendosi ad una verve tipica del post rock più malinconico e ad accenni di folk. Ne esce un disco affascinante, non di facile assimilazione ma in grado di regalare grosse soddisfazioni una volta che lo si è padroneggiato.




Winterfylleth - "The Hallowing of Heirdom"
Tra le più belle rivelazioni dell'anno! Gli inglesi hanno spogliato la loro musica di qualsiasi reminiscenza black dando alle stampe un commovente omaggio folk alla loro terra, alla natura e alle tradizioni. Il disco trasuda romanticismo (in termini letterari), ha un'eleganza assoluta e non annoia: chiunque ami l'Inghilterra e soprattutto la sua natura, le sue campagne e i suoi boschi non potrà non amare questo disco!






Esben and the Witch - "Nowhere"
Aspettavo con una certa ansia il nuovo lavoro degli anglo/tedeschi, e dopo un attimo di sbandamento non ne sono rimasto deluso, tutt'altro!
"Nowhere" prende in parte le mosse da "Older Terrors" ma si muove in maniera più intima e subdola. Le fiabe di mostri che i nostri sembravano raccontarci nel precedente lavoro sono forse adesso meno inquietanti delle storie che Rachel e soci vogliono comunicarci con questo disco, più reali, più mature e urtanti, sebbene musicalmente siamo forse di fronte ad un disco meno potente del predecessore, ma egualmente affascinante e prorompente.






Raum Kingdom - "Everything & Nothing"
La band irlandese si era fatta conoscere con un EP molto promettente, e le attese sono state mantenute con il loro primo full. Siamo di fronte ad una band di onesto ma allo stesso tempo molto personale post metal, che viaggia su atmosfere sì rarefatte ma alla bisogna anche feroci, il tutto mantenendo un piglio solenne e quasi sacrale. Molto spesso mi sono tornate alla mente certe atmosfere tipiche degli Amenra, merito sia delle intelaiature melodiche intense e coinvolgenti, sia della bellissima voce del cantante, in grado di passare da un soffice clean a un violento scream di matrice hc. Molto personali e appaganti, consigliati soprattutto a chi cerca una variante (non un clone!) del gruppo belga sopra citato.






Eneferens - "The Bleakness of our Consistant"
Eccoci di fronte ad un'altra sorpresa! Il progetto Eneferens (si tratta infatti di una one man band) mischia in maniera abilissima molti generi non solo di metal, creando una miscela assolutamente affascinante e ben fatta, nella quale i vari riferimenti sono sì distinguibili ma non costituiscono un patchwork senza senso. Il Nostro è riuscito a dare una precisa forma alle sue idee, confezionando un disco di black atmosferico molto melodico e "orecchiabile". Un po' come recentemente avevano fatto anche gli Ashbringer (made in USA, pure loro), Eneferens unisce abilmente black, death, doom, folk, leggeri echi di prog e addirittura post metal, per dare vita a un disco freddo nelle atmosfere ma caldissimo e coinvolgente dal lato emotivo.






Wayfarer - "World's Blood"
Abbandonati i retaggi pagan black gli americani Wayfarer si dedicano ad un personalissimo post black metal dalle forti tinte cinematografiche, con specifico focus sulla potenza della natura della loro zona (il Colorado) e sul sangue versato un paio di secoli fa dai popoli che abitavano quelle terre prima della colonizzazione. E' come se le atmosfere post apocalittiche dei GY!BE si muovessero su scenari di far west ormai in declino, con come base una solenne colonna sonora di post black metal. Tribalismo, riff tirati e coinvolgenti, una prestazione vocale sofferta ma sentita fanno di questo disco uno delle migliori uscite dell'anno!






Red Apollo - "The Laurels of Serenity"
I tedeschi Red Apollo sono artefici dell'ennesima prestazione maiuscola! Siamo in territori di post metal (quello tedesco, che molto spesso unisce al genere echi più o meno forti di crust e post hc), ma in questo caso i Nostri sembrano alleggerire i toni (sembrano!), con pezzi che hanno un piglio quasi post rock nel modo in cui crescono e deflagrano, e molto spazio è stato lasciato alle melodie. Le tracce sono eterogenee e ben pensate, e dimostrano insieme l'amore del gruppo per queste sonorità ma allo stesso tempo la loro perizia tecnica e l'abilità nel rendere una proposta distinguibile in un panorama da anni sovraccarico.






Solstice (UK) - "White Horse Hill"
Ecco un altro disco che attendevo impazientemente! Non mi definisco amante delle sonorità epic doom, ma ho sempre avuto un debole per i britannici Solstice. Capaci di melodie dalla forte componente insieme epica, tragica e titanica, i Nostri mi hanno sempre affascinato sin da quel capolavoro di "New Dark Age". Con questo album gli albionici ci ammaliano con un riffing epico, una voce a tratti toccante e tantissima atmosfera, con un "fare doom" che è tipicamente britannico. Graditissimo ritorno!






Vouna - "s/t"
Dal fitto dei boschi della Cascadia emerge sul finire del mese scorso Vouna, una one man (o meglio, "woman") band di assoluto rilievo. Dietro questo progetto si nasconde infatti Yianna Bekris di Olympia, Washington, che coadiuvata per l'occasione dai fratelli Weaver (Wolves in the Throne Room) ha realizzato quello che viene descritto come un disco di lento funeral doom, in realtà più dalle parti di un black/doom rarefatto, che fa uso di synth e passaggi acustici. Sono tracce dal sound catartico, solenne e rurale, ma anche lacerante quando prendono piede le chitarre... Un riferimento il più possibile vicino a Vouna possono essere pezzi dei WITTR come "Dea Artio", "Cleansing" o "A Looming Resonance", con i quali Vouna condivide atmosfere sciamaniche e andamento ritualistico. Un progetto di valore, dal livello molto alto che potrebbe regalarci in futuro altre belle sorprese.






Ancst - "Ghost of timeless Void"
In questo 2018 mi sono avvicinato per la prima volta in maniera razionale ai tedeschi Ancst, ed è stato un incontro coi fiocchi! Estremamente prolifica la band è fautrice di un suono riconducibile al filone (neo)crust e post black tedesco, ma ad ogni uscita cerca di rinnovarsi aggiungendo elementi debitori da altre sonorità, che anche se non stravolgono i vari album li rendono in qualche modo più particolari. Travolgenti!






Panopticon - "The Scars of Men on the once nameless Wilderness pt2"
Lo ammetto, non sono mai stato un estimatore di Austin Lunn e del suo progetto Panopticon: troppo difficile da assimilare per me, un black troppo spesso sfaccettato e particolare per essere compreso pienamente. Poi in questo 2018 esce il doppio “The Scars of Man on the Once Nameless Wilderness”, e resto ammaliato dalla bellezza del secondo dei dei dischi che compongono questo lavoro. Lasciato in un angolo il black, qui Panopticon spoglia la sua musica di ogni rimando al mondo del metal, regalandoci dieci pezzi che sono di fatto un tributo al folk americano, allo slowcore e al (dark) country. C’è intimità in questo disco, introspezione, e questa manciata di canzoni si meritano tutta la pace e la tranquillità di questo mondo per permetterci di pensare, di riflettere, semplicemente di prenderci un attimo per noi stessi. Un piccolo capolavoro.





Marnero - "Quando vedrai le Navi in Fiamme sarà giunta l'Ora"
Altra (ennesima!) sorpresa del 2018 sono gli italianissimi (di Bologna) Marnero, ensemble hc/posthc (per semplificare) che ho avuto la fortuna di apprezzare live durante un concerto. I Nostri sono come detto fautori di un posthc dalla grande emozionalità, potente, travolgente, che non lascia respiro, un po' come un mare oscuro in burrasca le cui onde ti travolgono continuamente. Gli attimi di pace, le fughe melodiche e le progressioni tipiche del post rock, sono largamente controbilanciate da un'urgenza narrativa e verbale notevole: versi su versi sono recitati con foga, mentre muri di chitarre si elevano e collassano continuamente. Si tratta di un lavoro notevole, che può non essere apprezzato da tutti, ma se hai la fortuna e la pazienza di capirlo si impossessa di te e non ti lascia più!






Holy Fawn - "Death Spells"
In chiusura o quasi metto questa band di recentissima scoperta, che mi ha stregato e che non mi sta dando tregua da almeno due settimane. Americani, gli Holy Fawn hanno messo in piedi un disco impressionante per intensità e forza, con influenze che vanno dal dream pop al post rock, dallo shoegaze al post black metal, dal postpunk con riverberi darkwave all’emocore. Un momento percepisci gli I Love You but I’ve chosen Darkness, un attimo dopo i Thursday o certe esplosioni tipiche degli Envy, mitigate magari da una voce che tanto ricorda i Sigur Ros. Poi arriva una folata di vento gelido e sopraggiunge Clouds Collide con tutta la sua carica emotiva unita al post black metal; ma c’è della dolcezza in questa malinconia, ci sono il dream pop e lo shoegaze degli ultimi Klimt 1918 a mitigare il gelo con tiepide e rassicuranti carezze di calore. Per il momento in cui l'ho scoperto si tratta di un disco perfetto per questo momento dell’anno (fine autunno/inverno), travolgente se si stanno vivendo momenti della propria vita in cui i fantasmi giocano a nascondino con i propri ricordi, un album intimo ma allo stesso tempo adatto a tutti. Si tratta insomma di una vera e propria gemma, che non dovete assolutamente lasciarvi sfuggire.






Avast - "Mother Culture"
Da non confondersi con l'antivirus per pc con lo stesso nome, i norvegesi Avast sul finire del mese scorso ha dato alle stampe il suo primo full, "Mother Culture", concettualmente basato sulla nascita e progressivo degrado della nostra civiltà, parallelo allo sfruttamento ed esaurimento delle risorse del pianeta. Un disco drammatico, violento e quasi crudele, con sonorità che richiamano al blackgaze dei vari Ghost Bath, Numenorean e Deafheaven, con una poetica alla base che è un po' la marcia in più di questa band!






...e infine, menzione d'onore! Nel 2016 il progetto Wolcensmen (dietro il quale si nasconde il chitarrista dei Winterfylleth Dan Capp) ha dato alle stampe il debutto autoprodotto “Songs from the Fyrgen”, ma in questo 2018 è stato finalmente ristampato e ridistribuito da un'etichetta così da dargli tutta la visibilità che si merita. Siamo nuovamente in territori folk, diciamo che è un po' una faccia di una medaglia sulla quale, nell'altro lato, sono raffigurati i Winterfylleth con il loro ultimo lavoro. Anche in questo lavoro sentiamo limpida fierezza, umiltà, amore per le proprie origini e per il proprio passato: con dolcezza il Nostro descrive una natura armoniosa e al tempo stesso apra, una terra piena di contrasti, di colori solo apparentemente pallidi, di sapori da scoprire pian piano. Un riferimento potrebbe essere cercato in certe cose fatte dagli Empyrium o appunto nei Winterfylleth, anche se qui forse l'accento è più marcato verso un neofolk/pagan. Ora che è facilmente reperibile non deve mancare nella vostra raccolta se siete fan di queste sonorità!






Per questo 2018 direi che è tutto! E' stata una carrellata molto lunga attraverso generi musicali diversi eppure molto spesso intrecciati gli uni con gli altri. Personalmente sento di aver avuto la fortuna di poter apprezzare bellissimi lavori durante tutto questo anno, molti dei quali, ne sono certo, resteranno a lungo nella mia personale top 20 (come minimo)! Ci vediamo tra un anno con la prossima retrospettiva!

martedì 20 novembre 2018

Looming Resonances



Ho scelto questa grotta perché non lontana dall'accampamento Chinook che mi ha ospitato ed addestrato alle pratiche sciamaniche durante tutti questi mesi: non me la sentivo di interrompere il legame con loro, sebbene l'esperienza che sto per intraprendere deve essere affrontata da solo. Inoltre riesco ancora a sentire in lontananza i loro tamburi rituali, le cui pulsazioni si sono ormai da tempo sostituite ai battiti del mio cuore.
Spostate le fronde che bloccano l'apertura inizio a scendere nel freddo ed umido cunicolo sotterraneo: con me solo una piccola torcia ad illuminare i miei passi; dietro di me la luce del sole si allontana sempre di più, e con essa ogni rumore. Via via che scendo abbandono alle mie spalle gli odori del muschio che tappezza le fredde pareti e del terriccio, soffice pavimento, presto sostituito dalla nuda roccia. In poco tempo raggiungo il punto più profondo della grotta, un nido oscuro, asettico, assolutamente lontano dalle interferenze umane eppure così vicino a quelle della Terra. Mi siedo, spengo la piccola torcia, e attendo che il digiuno che mi sono imposto faccia il suo effetto ed alteri le mie percezioni: chi sto aspettando necessita di un'attenzione particolare, non umana, non completamente razionale.
Occhi chiusi, il respiro tranquillo del mio corpo come unico flebile rumore, resto in ascolto non con l'udito ma con la pelle, con le palpebre chiuse, con il viso proteso verso il buio. Le mie guance sono sfiorate da una morbida carezza, accompagnata da un fruscìo rapido, ma questo suono, questo tocco di seta, svanisce presto, non si ferma. Avverto poi in lontananza, da qualche parte della grotta, quasi ci fosse un cunicolo ancora più sotto, uno scalpitare che man mano si avvicina, ma anche questo mi urta quasi con una folata di vento per poi scomparire.
Poi nel buio più totale è come se una luce rischiarasse la parete di fronte a me. Si fa via via più definita la sagoma di una donna, bellissima, nuda, capelli lunghi e neri. Mi guarda, mi fa cenno con la mano di avvicinarmi, ma i suoi occhi brillano in maniera innaturale: non mi alzo, non la seguo, con una fermezza non da me cerco di cancellarla dalla mia mente. La vedo adesso più cattiva, ghignante, e con un sibilo, con delle parole dette tra i denti digrignati (capisco solo "ki-sikil-lil-la-ke") svanisce.
Ormai deluso dalle vane attese faccio per alzarmi e tornarmene sui miei passi quando qualcosa accade: le mie mani sono sfiorate da quello che sembra essere un ramo, dalla consistenza ossea e molto robusto, che si muove. Qualcosa respira sulla mia mano, un muso di animale sembra, e capisco che quello che avevo inizialmente identificato come ramo sono in realtà corna. Avverto calore, gioia, sensazione di fratellanza (per quanto possa capirne io di fratelli, essendo figlio unico), ma è un attimo, e il tutto svanisce. Solo che stavolta, lo so, si tratta di quello che stavo aspettando: la mia fatica è stata premiata. Apro gli occhi, accendo la piccola torcia, e la grotta è come l'avevo lasciata, forse impercettibilmente più calda. Apro lo zaino, mangio qualcosa per rimettermi in forze, poi mi alzo e mi incammino nuovamente verso la luce del sole, risalendo la mia grotta. Sono entrato da solo, esco con un fratello.
Dietro Vouna si nasconde una sola persona, Yianna Bekris di Olympia, Washington. Questa città ha dato i natali in ambito metal a una band particolarmente collegata a questo progetto, i Wolves in the Throne Room, e infatti i fratelli Weaver hanno collaborato con l'artista nella realizzazione di queste cinque tracce, suonando alcuni strumenti o registrando il tutto. Ma il concept, l'idea madre, il songwriting e in generale le briglie di Vouna restano saldamente in mano alla Bekris. Annunciato come disco di lento funeral doom, siamo in realtà più dalle parti di un black/doom molto rarefatto, con largo uso di synth e passaggi acustici, catartico nel suo incedere solenne e rurale, ma anche lacerante quando prendono piede le chitarre (dal suono innegabilmente legato ai fratelli Weaver). ll paragone più diretto può essere fatto con pezzi dei WITTR come "Dea Artio", "Cleansing" o "A Looming Resonance", con i quali Vouna condivide atmofere sciamaniche e andamento ritualistico. All'interno dei pezzi le strutture giocano molto su climax ascendenti e su riff che si assommano gli uni sugli altri: quella che inizialmente può sembrare ripetizione è in realtà funzionale al pathos del pezzo.
Sebbene forse a tratti un po' acerbo il debutto di Vouna è un disco di valore, un progetto che va tenuto d'occhio perché potrebbe regalare in futuro graditissime sorprese. Non siamo ancora ai livelli raggiunti da una Chelsea Wolfe nelle sue ultime produzioni, ma il livello qualitativo è già dannatamente alto.

https://www.debaser.it/vouna/vouna/recensione