E' la storia più vecchia del mondo, è "l'amor che move il sole e l'altre stelle", è una vicenda trita e ritrita che quando la senti, descritta dalla bocca degli altri, ti sembra la cosa più scontata di questa terra, ma quando la vivi ti pare quasi che nessuno ti capisca.
Ti ritrovi da solo, immerso nei pensieri, con in mano una sua foto strappicchiata cercando di capire dove hai sbagliato, sommerso da ondate di rabbia, orgoglio e malinconia, e rivivi i tuoi ricordi. Ripensi a quando l'hai conosciuta, a quanto non avresti scommesso niente su quella storia. E invece ci sei cresciuto con quella persona, imparando a conoscerla, ad apprezzarla, ti sei aperto con lei, e lei stessa è sembrata volersi schiudere pian piano. Giorno dopo giorno il calore è aumentato, l'amore cresciuto, le distanze si annullavano quando bastava una telefonata o un messaggio, un "ti amo" sussurrato, ed eri a posto per tutto il giorno.Poi, un giorno, qualcosa cambia: vuoi di più, lei di meno; hai bisogno della sua presenza, ti sembra di percepire i suoi cambi di umore nel passaggio delle nuvole o nella casualità delle cose, senti una paura sotto pelle, senti scivolare via tutto, e provi ad aggrapparti con rabbia a quello che ti rimane. Ma i suoi vestiti si fanno sabbia che si disperde tra le tue mani, le tue parole non sembrano uscire come vorresti, e il sassolino sul pendio perde il suo ultimo grado di equilibrio iniziando così la sua rovinosa caduta a valle. E alla fine, dato che di fine si parla, cosa ti rimane? Ricordi, orgoglio, rammarico per qualcosa che avresti potuto fare diversamente, e rabbia. C'è però, in fondo, ancora un po' di calore, una fiammellina che incurante del vento che ha intorno continua imperterrita a bruciare. E' la speranza, quella maledetta, bastarda speranza che ti fa svegliare ogni mattina. Per recuperare quanto è andato perso? Forse. O forse per ritrovare da altre parti, in altre persone, quelle stesse sensazioni che hai provato e che ti hanno fatto stare bene. Perché alla fine amore, morte, cuori spezzati, tutto fa parte della "mortal way", è tutto un cerchio che, incurante di noi che ci stiamo nel bel mezzo, segue il suo percorso. E tu sai, anzi speri, che alla fine tutto ricomincerà, per poi magari finire di nuovo (chissà!), ma intanto daresti un braccio per rivivere le stesse sensazioni.
Il nuovo lavoro di Chiral è un disco che parla di assenza, di commiati, di parole sussurrate e di vetri infranti da una rabbia cieca. La visione del Nostro si è spostata pian piano dall'esterno all'interno, da una contemplazione di quello che c'è fuori a quello che c'è dentro ognuno di noi, al nostro io. E' un disco intimo e sofferente perché tocca corde sensibili, che tutti abbiamo e alle quali non possiamo rimanere indifferenti. Il black atmosferico, reminiscente degli inizi depressive di Chiral, si fa qui ancora più intenso, imbastardito da momenti post (rock e metal), da suggestioni folk e da drones che qui e là spuntano a straniare l'ascoltatore. E' un disco fatto di binomi, presenza/assenza, amore/odio, gioia/paura, caldo/freddo: ora ti sferza, ora ti accarezza, ti scombussola con riff taglienti così come con nenie dolci e malinconiche. E' un lavoro, questo "Hope", da considerarsi come la fine del trittico composto dai precedenti "Night Sky" e "Gazing Light Eterninty": qui tutto si fonde, si ricongiunge, si tirano le fila del discorso e ci si prepara per quello che sarà.
Ascoltatelo ora, con questa stagione, in casa davanti a un fuoco magari, e pensate a quante ne avete passate e quante ve ne succederanno, anche a partire da domani. Disco curativo.
“La sinestesia (dal gr. sýn «con, assieme» e aisthánomai «percepisco, comprendo»; quindi «percepisco assieme») è un procedimento retorico, per lo più con effetto metaforico, che consiste nell’associare in un’unica immagine due parole o due segmenti discorsivi riferiti a sfere sensoriali diverse”. Ma è anche “un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una "contaminazione" dei sensi nella percezione. Il fenomeno neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo.”
C’è un disco, undici canzoni, un “mood” diverso per ognuna di esse ma con alla base una storia che le lega, un filo conduttore. E ci sono le emozioni dell’ascoltatore, i suoi ricordi, le immagini che affiorano una volta che questi chiude gli occhi e si lascia annegare nella musica. Ci sono i sapori, gli odori, le sensazioni che riprendono vita con una forza forse superiore a quella che avevano quando sono state assaporate per la prima volta.
Questi undici pezzi si portano dentro l’odore della campagna inglese dopo che è piovuto, un odore che mai avresti pensato di ritrovare nel giardino di casa tua, soprattutto se vivi in uno stato che non è il Regno Unito… Eppure la valle che si affaccia al di là della tua recinzione, la terra appena seminata, i fiori appena piantati, tutto odora come quei campi aperti verso il nulla che ti abbracciavano una volta uscito dal paesino inglese.
Altro odore, quello di legno bruciato. Qui fuori proprio in questo momento un contadino sta bruciando alcune sterpaglie, foglie morte e rami secchi, ma con gli occhi chiusi e la giusta musica in sottofondo sei di nuovo nei Cotswolds, stai vagabondando all’imbrunire per i vialetti acciottolati che serpeggiano tra case all’interno delle quali i caminetti si stanno accendendo, e i comignoli stanno spargendo nell’aria il rinfrancante odore della legna che arde.
La nebbia del mattino, mentre sei fuori ancora assonnato a spasso con il cane, e le campane della chiesa in lontananza, ti ricordano di quando la mattina ti svegliavi, guardavi fuori e vedevi le campagne intorno a te ancora ammantate da quella sottilissima nebbiolina, eterea e quasi ultraterrena. Aperta la finestra un sottile strato di quella nebbia si posava sulla tua mano, e il suo freddo ed umido tocco ti investiva di un’energia vitale positiva e frizzante. Il campanile del villaggio batteva le otto, e allo stesso tempo al tuo naso giungevano i tipici rinfrancanti odori dell’english breakfast cucinata dalla padrona di casa, una signora tanto dolce che poteva essere una tua zia.
E così via, tra un ricordo e l’altro, tra un profumo ed una sensazione, si arriva alla fine di questo disco, e sembra di aver davvero viaggiato.
“Fire in the White Stone”è la terza fatica dopo un full ed un EP per Dan Capp e per la sua creatura solista Wolcensmen: il Nostro è anche chitarrista dei Winterfylleth, band con la quale, è utile confermarlo, continuano ad esserci collegamenti soprattutto se prendiamo in esame il disco acustico “The Hallowing of Heirdom”. Le soluzioni scelte da Dan sono le stesse dei precedenti episodi, quindi chitarre arpeggiate, fiati, percussioni, strumenti a corda come violoncello o kantele, synth e cori, per un genere a grandi linee ascrivibile ai filoni neofolk ed ambient. Stavolta Wolcensmen ha creato una cornice che riunisse i vari pezzi, un racconto breve che narra le vicissitudini di un giovane che decide di abbandonare le comodità della sua vita per intraprendere un avventuroso e fiabesco viaggio di formazione che lo porterà ad incontrare creature di stampo quasi tolkeniano o appartenenti al folklore britannico, tutto parte dell’immaginario caro al Nostro Dan. Il senso è quello di essere trasportati in un’epoca senza tempo, favolistica e medievaleggiante, un mondo perfettamente tratteggiato da Wolcensmen con una sua genesi compiuta e assolutamente coerente. Rimangono dunque i tratti distintivi della poetica di Capp, quel dolce e fiero amore per la sua Terra e le sue radici, ma stavolta si arricchiscono di elementi favolistici e romanzati, in grado di dare maggiore forza e credibilità ad un disco che già di per sé era già musicalmente solido e coinvolgente
“Fire in the White Stone” è un disco assolutamente consigliato per gli amanti di sonorità folk e ambient. Forse è meno di impatto dell’ancora insuperato “Songs from the Fyrgen”, probabilmente perché necessita di più ascolti per essere compreso appieno: è quindi meglio se l’ascolto è accompagnato dai testi riportanti la storia alla base del concept. Si tratta ad ogni modo di una conferma per Wolcensmen, una prova di maturità per l’artista ed un viaggio nelle emozioni e nei ricordi di chiunque decida di mettersi all’ascolto di questo disco.
Arrivò l'autunno, e fu feroce. L'inizio fu piacevole in realtà, il sole conservava ancora parte del calore ereditato dall'estate, gli alberi avevano iniziato presto a sfoggiare il loro vestito migliore, quelle fronde rosse, gialle e arancioni che riscaldano con un tepore non percepibile se non dal cuore e dagli occhi. Poi, d'improvviso, novembre si abbatté su di me armato di falce e mantello scuro, colpendomi dove non mi aspettavo e portandosi via parte della mia anima. Novembre mi lasciò zoppicante e frastornato, nudo nel freddo dell'inverno che si portò appresso. Nonostante le persone che avevo intorno, l'amore degli amici, della moglie, della famiglia, fu un inverno difficile, duro, pieno di lacrime e faticoso.
La vita però si sa, è ciclica, e il freddo delle lunghe e corte giornate lasciò presto il posto alla primavera, e con essa la (ri)nascita. La prima avvisaglia di cambiamento fu la nuova casa, un obbiettivo inseguito a lungo, quasi abbandonato visti gli scarsi risultati, eppoi raggiunto così, quasi per caso. Con essa è arrivata la maturità, fatta di responsabilità, investimenti di energie fisiche, economiche e mentali, ma anche la soddisfazione e la pace che può trasmetterti la visione di un salotto che si affaccia su un giardino illuminato da un bellissimo sole e ombreggiato da una quercia secolare.
La nascita si diceva, annunciata in una sera di un caldo agosto, tra una chiacchiera e l'altra prima di addormentarsi. Da lì in poi nulla è stato lo stesso: le stagioni si sono affrettate, hanno iniziato a correre verso un traguardo apparentemente lontano, ma che oggi sembra vicino come non mai. Di nuovo la maturità, pensavi di essere cresciuto, di aver superato tante difficoltà, salvo poi trovarti di fronte a una prospettiva che hai sempre accarezzato ma che non hai mai saputo concretizzare, forse perché non eri pronto.
E allora inizi a vederti con in braccio tuo figlio, portandolo a spasso in macchina ascoltando la musica che più ti piace, e parlando del più e del meno. Ti sogni mentre giochi a "braccio di ferro" con lui, e lo fai vincere per non dispiacerlo, o ti vedi seduto nel bosco a mangiare un panino ascoltando le partite alla radio. Eppoi ti accorgi che quel bambino sei te, che quelli sono i ricordi di una vita fa, quando eri piccolo e passavi il tempo con quella persona che il freddo inverno si è portata via. Ma è bello avere la conferma che la vita si rinnova, e che chi non c'è più rivive in te, e che avrai la possibilità di essere il protagonista di una seconda vita, ripercorrendo quello che hai vissuto, solo attraverso un altro punto di vista.
"The Fallen Crimson" degli Envy è un fiume vitale, un concentrato di emozioni che, nei suoi saliscendi e nei suoi climax, mi ha fatto pensare a come le stagioni si avvicendino e di come il loro passaggio abbia scandito alcune fasi della mia recente vita. E' un disco che colpisce per la sua immediatezza, cosa a mio avviso non scontata quando si parla della band giapponese. I dischi degli Envy sono spesso criptici ad un primo ascolto, necessitano di pazienza e calma per essere assimilati ed apprezzati, non si lasciano conoscere subito ma hanno bisogno di una certa ritualità, come molti aspetti della cultura giapponese. Questo ultimo lavoro colpisce invece dritto al cuore, mettendo subito in luce le tante anime degli Envy: il loro passato hardcore non si è mai sposato tanto bene con le armoniose e solari fughe del post rock, qui enfatizzate ulteriormente e arricchite da cori femminili. E' un caldo/freddo, un lento/veloce, un sole/pioggia che raggiunge la sua massima esemplificazione in "A Step in the Morning Glow", pezzo di rara bellezza e scelto come singolo di apertura.
Un'esperienza sensoriale davvero travolgente, un ritorno sulle scene in grande stile per gli Envy, un disco da ascoltare tutto d'un fiato per perdersi in sé stessi.
Il 2019 è stato un anno musicalmente davvero piacevole, fatto di nuove scoperte e di ritorni sulle scene. Mi sono molto focalizzato sul recupero di album degli anni passati, ciò nonostante le nuove uscite che sono riuscito ad apprezzare sono tante, e di valore! Di seguito la mia personale lista di album meritevoli.
Obsequiae - "The Palms of Sorrowed Kings" Medieval melodic Black Metal: annunciati da questa definizione gli americani Obsequiae fanno il loro ritorno sulle scene musicali, e lo fanno con un disco pregno di atmosfera e di gran classe.I Nostri propongono in effetti un BM non canonico, con forti spunti medievaleggianti, che donano ai pezzi un'aura sospesa, antica, ed estremamente affascinante. Un lavoro degno di nota, non un album per tutti ma se siete dotati di una buona apertura mentale in campo musicale dategli un ascolto!
Ghostwriter - "Burial Grounds"
Dietro il monicker Ghostwriter si cela la talentuosa Kalee Beals, musicista americana con all'attivo anche un altro progetto (di cui parlerò più avanti)."Burial Grounds" è un disco che mi ha affascinato sin dal primo ascolto: molto novantiano nelle atmosfere, etereo, fumoso, a tratti quasi grunge, altre volte quasi una colonna sonora per un teen movie americano, molti sono i colori a disposizione dell'artista. Magari non sarà un capolavoro che rimarrà nella storia della musica, ma si tratta di un ascolto piacevole che sa tenere compagnia e sa toccare con dolcezza.
Those Poor Bastards - "Evil Seeds"
Tornano i Those Poor Bastards con le loro atmosfere oscure e sinistre, figlie di un country-folk che unisce Gothic all'Americana e ci parla di donne, tradimenti, alcool, morti, e povertà. "Evil Seeds" non aggiunge molto alla discografia del duo ma è un disco divertente, minaccioso ed incredibilmente orecchiabile!
Mors Certa - "The Wheel dismantled"
Ed eccola di nuovo Kalee Beals con il suo progetto principale Mors Certa. Ambient/Dungeon Synth, un genere al quale mi sono avvicinato solo di recente ma che mi sta molto affascinando. La Nostra ricrea atmosfere antiche e medievaleggianti, parla di notti oscure e piovose, di taverne luride, di cavalieri, elfi, stregoni e di tutto l'immaginario fantasy che vi può venire in mente quando pensate alle tavole del 1200-1300 o, perché no, al Signore degli Anelli!
Nick Cave & The Bad Seeds - "Ghosteen"
Tra le sorprese del 2019, "Ghosteen" è un disco che mi ha toccato nel profondo, che ha saputo parlarmi come pochi prima, che semplicemente è arrivato nel momento esatto in cui ne avevo più bisogno, aiutandomi a superare un momento difficile. Un disco complicato, sofferto, che parla di morte e rinascita, un rito di purificazione, un percorso che il Nostro ha intrapreso per esorcizzare e assorbire un grave lutto. Di un'intensità davvero mostruosa.
Lambs ‡ - "Malice"
Caustici, rabbioso, acuminati come filo spinato, i Lambs mettono in musica rabbia, inquietudine, e una furia travolgente con un saper fare che pochi in Italia vantano. Musicalmente i Nostri fondono sludge, post-metal, post-black metal e crust con gran naturalezza, in un saliscendi emozionale di grande impatto. "Malice" è un gran disco, forse un filo breve, ma dannatamente fruibile pur se inquietante e disturbante. Assolutamente da avere se amate queste sonorità, un gruppo italianissimo da supportare!
Wolcensmen - "Fire in the White Stone"
Non posso farci nulla, quando partono le prime note del nuovo lavoro di Wolcensmen (Dan Capp dei Winterfylleth) sento i miei occhi riempirsi di lacrime e i miei pensieri, qualunque essi siano stati fino a quel momento, balzano immediatamente nelle campagne inglesi. Un folk ameno e arcano, con inserti di synth e ambient che amplificano ulteriormente la tavolozza a disposizione del Nostro... E di colori ne ha bisogno, il disco riflette ancora una volta la bellezza e la mutevolezza del paesaggio agreste inglese, raccontandone miti e leggende. Forse qualitativamente un mezzo scalino sotto il precedente, meraviglioso, "Songs from the Fyrgen", ciò nonostante un vero must have se amate queste sonorità.
Cult of Luna - "A Dawn to Fear"
Venuti meno per vari motivi i padri fondatori del genere, resta ai Cult of Luna l'onere di portare avanti il fardello del post metal, e gli svedesi lo fanno con la solita classe. Dopo "Mariner" tornano con una formazione "consueta" e con un disco dalle atmosfere fosche, urbane, minacciose, a metà tra un "Eternal Kingdom" e un "Vertikal". La ricetta è sempre la stessa, poche le variazioni, forse una dose maggiore di rabbia negli otto pezzi che compongono il lavoro, che comunque si caratterizza come una delle migliori uscite della band.
Saor - "Forgotten Paths"
Approdati sulla nostrana Avantgarde gli scozzesi Saor danno alle stampe quello che è forse il loro miglior lavoro da qualche anno a questa parte. "Forgotten Paths" è un disco fiero, orgoglioso, poetico, rabbioso e allo stesso tempo melodico, scozzese al 100%. Marshall, mastermind del progetto, ha alleggerito i toni e introdotto elementi nuovi (più spazio al piano, ospitata di Neige/Alcest, controcanti in voce pulita/sussurrata), mettendo in luce una certa volontà di innovarsi. Unico punto negativo la durata: neanche quaranta minuti per quattro pezzi (tre più una coda strumentale), quindi di fatto un EP... Ma la via giusta sembra essere stata nuovamente imboccata, c'è speranza per il futuro!
Monastery - "The Garden Of Abandon"
Attendevo con ansia il nuovo disco a firma Monastery, progetto dietro il quale si nasconde Robb Kavjian dei 1476. I riferimenti musicali possono essere ricercati nella musica ambient con inserti elettronici, folk e synth: si parla di "dungeon synth" ma sono totalmente assenti i connotati cupi e oscuri che caratterizzano gran parte dei questo genere: sarebbe quindi quasi più corretto parlare di "Fantasy Synth", a patto che esista questa etichetta.Fonte di ispirazione per questo album è l'arte dei Preraffaelliti, una sorta di concept che dona una forma letteraria e musicale a questo affascinante movimento pittorico inglese, creando un mondo magico e delicato nel quale prendono vita personaggi storici, mitologici o delle favole. Valore aggiunto sono l'artwork del disco e i testi scritti a commento di ogni pezzo, necessari per rendere al meglio l'atmosfera che si vuole ricreare con la musica proposta.
Un progetto al quale sono molto affezionato, che sa donare momenti di pace e quiete anche nelle giornate più buie e stancanti.
John the Void - "III Adversa"
Tornano i friulani John the Void con il loro rabbioso post metal intriso di sonorità black e HC. Assieme ai Cult of Luna i Nostri hanno dato alle stampe un disco altrettanto complesso e cupo, soffocante e plumbeo: tanta l'intesità che i JtV riescono a ricreare con questo disco, che cresce e si insinua sotto pelle fino ad esplodere con i suoi crescendo velenosi. Assolutamente da tenere in considerazione, band rivelazione!
Ashbringer - "Absolution"
Anno di come back questo 2019, e di valore! Tornano gli Ashbringer, band alla quale sono molto affezionato e che mi ha sempre saputo regalare emozioni e momenti di assoluta bellezza musicale. Un disco languido, che si esprime con un black metal melodico, "shoegaziano", con frequenti fughe ora nel mondo del post rock, ora in quello del folk. Le chitarre disegnano paesaggi al tramonto, boschi autunnali e nature incontaminate, ma non c'è la forza selvaggia e distruttiva dei Wolves in the Throne Room: c'è contemplazione, come se fossimo di fronte a una bellissima ed emozionante tela. Siete ancora nella stagione in cui questo disco può rendere al massimo, ascoltatelo prima che sia tardi!
Dead to a Dying Wordl - "Elegy"
Che band i Dead To A Dying World! Torna l'ensemble americano con un disco pregno di riferimenti doom, sludge, black metal, folk, crust, dall'incedere poetico, drammatico e maestoso. Difficile citare una band alla quale i Nostri possono essersi ispirati, le influenze sono tante e di varia natura ma sono state fuse con una tale maestria da rendere il disco un unicum di rara intensità.Un viaggio tra boschi e montagne, alla ricerca del proprio io e nel tentativo di esorcizzare i propri demoni.
Dawn Ray'd - “Behold Sedition Plainsong”
I Dawn Ray'd si confermano con “Behold Sedition Plainsong”. Se il precedente “The Unlawful Assembly” li aveva inquadrati come next big thing il nuovo lavoro sancisce di fatto che siamo al cospetto di una band di assoluto spessore. Un black metal rabbioso, un fiume in piena che fonde violino, ritmiche serrate, testi impegnati contro ingiustizie politiche e sociali, un cantato ai limiti dell'HC, con alcune incursioni nel folk. Questi sono i Dawn Ray’d del 2019, che potranno risultare indigesti per via della loro intransigenza, ma che sono ormai una garanzia in quanto a qualità e potenza.
Earth Moves - “Human Intricacy”
Mi ero già avvicinato agli inglesi Earth Moves con il loro precedente disco "The Truth is in our Bodies" ma è con questo "Human Intricacy" che mi hanno letteralmente stregato. Se devo far rientrare la band in un sottogenere parlerei di post HC o post metal, ma ascoltando le varie tracce ci si rende rapidamente conto che le influenze sono molteplici. Sì, post HC e post metal, ma anche black metal, post rock, shoegaze, crust, emocore ed elettronica... Insomma, tutto ciò che può essere reso "post" e imbastardito da commistioni varie è stato utilizzato dai Nostri. Il lavoro è di un'intensità mostruosa, alcuni pezzi raggiungono vette di emotività incredibili, con un pathos sempre crescente ed una tensione continua. Si tratta di un lavoro complesso, che merita assolutamente la vostra attenzione!
La carrellata è stata lunga, ma ne è valsa la pena: questo 2019 mi ha regalato dischi di gran valore che sono certo riascolterò con piacere anche nei mesi a venire!
Certi dischi sono porte, varchi attraverso universi che non conosci se non per sentito dire o per aver letto qualcosa. Se hai le chiavi giuste riesci ad aprire queste porte per accedere al mondo dell'artista, al suo io, al suo cuore, alla sua anima. Certe porte si aprono sul nulla, altre si aprono invece su floridi giardini assolati pieni delle più straordinarie creature che hai mai visto, quasi degli Eden. In questi giardini c'è un uomo incappucciato, con un grosso libro in mano al quale è inesorabilmente incatenato. Il volume che tiene in mano è grigio, imponente, scritto con caratteri che solo a prima vista non sai leggere, ma se chiudi gli occhi è come se le parole ti apparissero dentro le palpebre.
Il libro parla del dolore per la scomparsa di un tuo caro: un figlio, un padre, una madre, qualcuno che magari ha dato la vita per te, o per il quale tu hai dato tutto. Oltre al dolore c'è l'elaborazione del lutto, un percorso difficile, diverso per ognuno di noi, che avviene in fasi diverse e con metodologie diverse. Non subito ti accorgi di quanto è successo, travolto come sei dal momento, lo realizzi dopo, e inizi a lavorare su di te, per elaborare appunto quanto c'era e adesso non c'è più. Il libro è un percorso che va dalla nascita alla crescita, alla morte, e perché no alla reincarnazione o resurrezione, parla dei rapporti tra le persone, del tagliare i ponti o all'opposto, di lasciare spiragli. Come sei tu, sei una persona che taglia tutti i rapporti e guarda solo avanti o sei una persona che ha sempre un occhio puntato sullo specchietto retrovisore? Lasci spiragli o non ti volti mai indietro? Il libro parla anche di questo. Ti fa chiedere perché certe cose accadono in un dato momento, ti fa domandare se tutto sia concatenato oppure buttato sparso su un tavolo come bottoni rovesciati dalla scatola di latta della nonna. C'è uno schema che lega la morte di tuo padre alla tanto agognata nuova casa a una nuova vita, magari? Il libro ti mette questi dubbi, ma non esige risposta.
Il libro parla di Sogno che poco prima della sua dipartita parla con sua sorella Morte, e le dice di quanto sia stanco. Ma parla anche di Sogno che "consola" suo figlio Orfeo dopo la morte di Euridice, parla di come si deve affrontare un lutto, di quale sia la "mortal way" che lui, Eterno, non può capire ma che riesce comunque a spiegare con parole semplici, schiette, dure e vere.
Non ha molto senso parlare solo di musica per il nuovo lavoro di Nick Cave, "Ghosteen": se lo analizzassimo solo in questi termini qualcuno lo potrebbe definire monotono, noioso, un lamento continuo: ma sarebbe assolutamente fuori strada. Oltre il rock, oltre il blues, oltre le murder ballads, oltre il drone e l'elettronica, l'album è assolutamente impalpabile come il freddo di un'assolata mattinata invernale. E' lì, lo senti, ma lo "senti" in maniera diversa, non attraverso le orecchie ma attraverso il cuore e le emozioni. Come dicevo è come se fosse una porta che lo stesso Cave ha voluto aprire, è un percorso di purificazione che tocca tutto: la bibbia e la religione cristiana, il buddismo, la poesia, le atmosfere destabilizzanti e aride di T.S. Eliot e la speranza che filtra dai canti Danteschi del Paradiso. Parla del lutto e della perdita del figlio, ma va oltre quello, è elaborazione e ricerca di qualcosa per andare avanti.
"Oh, this world is plain to see/It don't mean we can't believe in something/And anyway, my baby's coming back now on the next train/I can hear the whistle blowin', I can hear the mighty roar/(...)/Well, there are some things that are hard to explain/But my baby's coming home now on the 5:30 train" è la straziante presa di posizione di un padre che continua a credere in qualcosa, sebbene la perdita sia stata enorme. E poi ancora:
"Everybody's losing someone/It's a long way to find peace of mind, peace of mind It's a long way to find peace of mind, peace of mind/And I'm just waiting now, for my time to come/And I'm just waiting now, for peace to come/For peace to come"
E' come quando in "American Beauty" vedi la busta che fluttua, e ti senti dire che "a volte, c'è così tanta bellezza nel mondo che non riesco ad accettarla", ed è vero, se chiudi gli occhi, se credi in qualcosa, se pensi che ci sia altro, se hai persone intorno a te che si fidano di te e vivono per te, te ne accorgi che è vero. Ed apprezzi il sole, ti senti in pace, cerchi il bello nelle piccole cose che ti cambiano la giornata.
Per "Ghosteen" è doveroso andare oltre una recensione puramente tecnica, è necessario mai come ora leggere i testi, analizzarli, "sentire" sulla propria pelle le parole e la musica. E' difficile, assolutamente, probabilmente molti non lo apprezzeranno, ma se riuscite a trovare la chiave e ad aprire la porta rimarrete estasiati da quello che sentirete.
"Please, take care of yourself. Seek out beautiful things, inspirations, connections and validating friends. Perhaps you could keep a journal and write stuff down. The written word can put to rest many imagined demons. Identify things that concern you in the world and make incremental efforts to remedy them. At all costs, try to cultivate a sense of humour. See things through that courageous heart of yours. Be merciful to yourself. Be kind to yourself. Be kind. With love, Nick"
Quando settembre inizia te ne accorgi da piccole cose: non è necessario guardare il calendario o controllare la data da qualche parte, è una sensazione che senti a pelle quasi, una sorta di risveglio dal torpore e dalla calura estiva che ti avevano addormentato fino a quel momento.
Sono mesi di cambiamento quelli autunnali che stanno per iniziare, ma dei quali già senti la presenza. Giorni in cui la natura ti sorprende per l’ultima volta con i suoi colori più belli, tira fuori un calore che non ti saresti aspettato, sembra vivere con una forza maggiore rispetto a quella, teoricamente strabordante, con la quale ti aveva colpito nei mesi precedenti. E’ una carezza delicata, fatta di ombre che si fanno più lunghe sotto tramonti rossastri, di serate in cui la brezza scuote le fronde degli alberi, in cui cominci a sentire il bisogno della camicia o del giacchetto leggero, in cui i raggi del tramonto accendono le foglie che si fanno giorno dopo giorno più gialle. Sono giorni magici, nostalgici, malinconici, belli, l’aria è frizzante ed energica, e anche quando piove, anche quando ti svegli e la nebbia copre i tetti, in fondo in fondo non è così male.
Con questa predisposizione di animo mi sono visto con un caro vecchio amico, compagno di banco di scuola, una persona con la quale ho trascorso almeno tre anni importanti, anni nei quali crescevi, diventavi “grande”, anni nei quali iniziavi ad affrontare le prime vere sfide, e il sapere che avevi vicino una persona come te, che sapeva capirti e aiutarti anche solo con una parola, ti dava forza e coraggio. Poi succede che quando cresci prendi una strada e le persone con le quali hai passato tanto tempo spariscono: non per cattiveria, semplicemente imboccano un altro sentiero in uno dei tanti crocicchi della vita. Eppure mentre cammini, ora tra boschi intricati, ora in mezzo a prati aperti, in lontananza lo vedi sempre il tuo amico, intento anche lui a barcamenarsi tra sfide in fondo non dissimili dalle tue. Poi, come dicevo, per puro caso a distanza di anni un giorno ti senti con lui e decidete di rivedervi per una birra o due, e non sembra passato nemmeno un secondo dal diploma di maturità. E credo che una predisposizione d’animo propensa alla rievocazione dei ricordi, alla riconciliazione, al confronto tra amici, alla comprensione, a quella pacca sulla spalla che ti era mancata finora, siano tutte figlie di una stagione malinconica eppure positiva che sta per iniziare, come l’autunno. E così tra una birra e l’altra parli di ricordi di scuola, di gite, di amori presenti, passati e futuri, di vecchi videogiochi, di vita e di morte, di passioni recuperate e tramandate, di momenti persi e poi riguadagnati; parli di birra, delle piccole gioie della vita, di case nuove, di convenzioni sociali e di gabbie mentali, e le ore volano senza che te ne accorgi. E quando ti saluti lo fai con la promessa di rivedersi presto, magari a casa nuova, per bersi qualche birra in terrazzo perdendo lo sguardo tra le foglie della quercia che hai in giardino.
Quali sono le connessioni tra l’autunno, l’aver rivisto un caro amico, e la musica degli Ashbringer? Non so di preciso ma istintivamente, dopo aver salutato il mio amico ed aver messo su “Absolution”, ho sentito come un filo conduttore che piano piano legava tutti i miei ricordi, il mio trascorso e le mie speranze. E ancora una volta mi sono trovato a riconoscere la bontà della proposta del gruppo di Minneapolis, che non stravolge quanto fatto con il precedente “Yugen”, procedendo su quelle coordinate autunnali, malinconiche e dolci e dando alla luce un disco forse un pizzico meno passionale del precedente, se visto nella totalità, ma di certo di pregevole fattura. Un black metal atmosferico mai troppo veloce o feroce, con richiami naturalistici e “selvatici” tanto cari alla scuola “cascadiana”, intriso di pennellate folk e progressioni post-rock, una tavolozza sonora i cui colori predominanti sono quelli, come già detto, autunnali, con largo spazio quindi alle digressioni strumentali, alle progressioni “post”, ai riff dal sapore consolatorio e rassicurante.
Questo è il periodo in cui va ascoltato “Absolution”, gli va concesso del tempo, va fatto decantare e ripreso dopo un po’ così da permettergli di crescere e di parlare con la sua vera voce. E’ un disco onesto, che conquista pian piano, che va saputo leggere e che va lasciato parlare, che va guardato negli occhi e va ascoltato come un amico che non vedi da tanto, ma che sai che in fondo sta parlando la tua stessa lingua, e che al netto di una voce diversa, magari più matura, e di un aspetto cresciuto e forse burbero, nasconde sempre un animo in fondo non dissimile dal tuo.