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lunedì 31 agosto 2015

Supertramp


“Al diavolo voi, il vostro benessere, il vostro conformismo! Al diavolo le vostre maschere e la vostra falsità, non è così che voglio vivere!” gli ho detto, e me ne sono andato sbattendo la porta.
E cosa hai fatto poi Chris?
“Ho seguito il mio sogno, l'Alaska, ho viaggiato per chilometri e chilometri cercando di raggiungerla... Perché se davvero vuoi una cosa devi solo allungare la mano e prenderla! Questo mondo, questa società in cui viviamo, siamo tutti bestie strane, più abbiamo e più vogliamo, e io avevo tanto, ma ho deciso di buttare via tutto cercando qualcosa che mi riempisse cuore, polmoni e spirito, e mi regalasse un ricordo indelebile.”
Ma come hai fatto a viaggiare, senza soldi...
“Ah, i soldi, li ho bruciati dopo poche centinaia di chilometri, nel deserto del Mojave... Li ho lasciati lì assieme alla carcassa della mia fida Datsun, e mi sono incamminato, e ho fatto autostop, e ho dormito all'aperto... Ho conosciuto tante persone, alcune pazze scatenate, alcune sole seppur in compagnia... Mi sono quasi innamorato figurati, e ho perfino trovato una persona che avrei voluto chiamare padre, ma non mi sono mai fermato, non era quello che volevo... E ogni notte che mi trovavo a dormire in una casa pensavo che non era quello il soffitto che volevo per i miei sogni, era sì un passo avanti rispetto alla città dove sono nato e cresciuto, ma ancora ero lontano dal traguardo.”
E alla fine sei arrivato in Alaska?
“Oh sì che ci sono arrivato, e Dio solo sa come mi sono sentito! La felicità, quella vera, il cuore che esplode perché non riesce a contenere tutte quelle meraviglie, la comunione perfetta con la Natura, con gli animali, in un posto dove cielo e terra si abbracciano... Ero libero, ero anche solo sì, le notti erano lunghe e solitarie, ma avevo i miei libri, avevo il mio rifugio (avresti dovuto vederlo il Magic Bus, come lo chiamavo io, quel rottame di bus che mi ha accolto per notti e settimane intere!).
E quindi come è andata, sei rimasto lì?
“Beh alla fine non è andata come speravo... Ho scoperto che la troppa felicità uccide se non la si condivide, ho capito che forse avevo osato troppo, mi sono fregato con le mie mani diciamo, ho gettato al vento l'unica possibilità che avevo di nutrirmi durante un freddo inverno e mi sono praticamente condannato a morte mangiando delle piante velenose. Che io sia maledetto! Le avrò viste mille volte, come avrò fatto a sbagliarmi, se ancora ci penso mi mangio le mani...”
Ma adesso dove sei Chris?
“Ah sempre lì, nel bus! Sdraiato in terra, avvolto in un giaccone ormai grande il triplo della mia stazza, morto soffocato! Supertramp fino alla fine, ho deciso di morire con il sorriso sulle labbra, e diavolo se ci sono riuscito, anche se a quei poveri cacciatori che mi hanno trovato è sembrato più un ghigno... Oh ma sono stato bene eh, ho fatto quello che volevo, ho vissuto come volevo... Ora però scusami ma devo scappare, c'è ancora tanto da esplorare qui intorno... Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore. Addio e che Dio vi benedica!”
Figli naturali del Cascadian Black Metal, i canadesi Harrow (da Victoria, British Columbia) incarnano alla perfezione il prototipo ideale di musica che un gruppo che vuole etichettarsi come “cascadiano” (che cosa brutta ho scritto!) deve suonare. A dirla tutta definiscono il loro sound come “Atavistic Metal” ma non aggiungerei altre etichette bizzarre, anche se in effetti hanno davvero la capacità di connettere l'ascoltatore con mondi antichi dominati dalla Natura, luoghi in cui l'uomo era ancora una controfigura in uno spettacolo nel quale gli attori principali erano i miti, le leggende, gli animali, le stagioni ed il tempo.
Da un punto di vista musicale c'è poco da dire: chi ama il genere andrà letteralmente in un brodo di giuggiole. Trasportati dalla voce e dalle superbe linee chitarrristiche di Ian non si fa fatica a farsi ipnotizzare da questi quattro lunghi pezzi, nei quali ancestrali trame acustiche si intrecciano con feroci assalti black, pur sempre guidati da una melodia di fondo che rende il tutto estremamente fruibile e godibile, anche per chi magari non è avvezzo al black metal. Come ho poi avuto modo di dire anche in occasione dell'ultima uscita degli Alda, il post rock si dimostra ormai una base indispensabile nella costruzione di questi pezzi, se è vero che la parte da leone la costituiscono i vari climax emotivi che animano ogni singolo pezzo.
Questo “Fallow Fields” va preso a scatola chiusa, senza pensarci due volte: assieme a “Passage” degli Alda costituisce una splendida gemma di Cascadian Black Metal, a tratti superando addirittura iin pathos i “maestri” del genere. Non c'è altro da dire, bisogna solo correre ed immergersi al più presto in questa musica maestosa e sciamanica.

Fallow Fields

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domenica 30 agosto 2015

Trapassi


Entrò dalla finestra e si posò sulla sponda del letto: era notte e nessuno la vide o sentì entrare, ma di fatto non c'erano poi molte persone in giro. Tese il capo verso la porta e sentì solo il russare della persona che dormiva nella stanza vicina, i grilli in giardino e il respiro lento, affannoso, che spesso cedeva il passo ad una lugubre apnea, della donna, distesa immobile sul letto.
Da secoli aveva svolto quel compito, e stasera sulla carta non avrebbe dovuto fare differenza, eppure c'era qualcosa di strano, provava compassione per quella personcina, logorata da un male tremendo che la mangiava da dentro; percepiva ancora attorno al suo letto il calore delle lacrime dei familiari che si erano avvicendati nel corso dei giorni per salutarla, e decise di attendere ancora un po' prima di portarla con sé. Dal capezzale volò su una trave al di sopra del letto, in un angolino buio, e lì si rannicchiò e attese la venuta del giorno.
Il sole non tardò ad arrivare e con esso i primi familiari, che iniziavano il solito incessante stanco e triste viavai: lei li guardava, uno dopo l'altro, vedeva nei loro cuori, percepiva le loro storie, sentiva le loro intenzioni e capiva subito se erano sincere oppure no. C'era il marito, desolato e vinto dalla tristezza, i fratelli e sorelle della malata, che cercavano di mascherare al meglio, secondo il loro carattere, la tristezza che li lancinava; c'erano i suoi nipoti accompagnati dai rispettivi
 compagni (mariti e mogli), e tutti, anche chi non era parente stretto ma che era comunque parte di quell'abbraccio immaginario di persone, tutti soffrivano a modo loro, tutti vedendola ansimare e cercare aria ripensavano ai momenti che avevano condiviso.
La civetta attese un po', poi sentì che il tempo stava scivolando dalle dita della donna, dita sempre più fredde per via di una morte sempre più pressante: il volto si faceva ogni minuto più scavato, l'apnea sempre più prolungata, il battito del cuore sempre più flebile. Nel momento in cui il sole era più alto, forse per lei il momento peggiore visto che a quell'ora normalmente se ne stava ben rintanata nel fitto del bosco, sfruttò uno dei rari attimi in cui la donna era stata lasciata  sola per scendere dalla sua trave e volarle vicino al volto, abbastanza vicino da toccarla con le sue piume. In quell'attimo il respiro dell'allettata si fece profondo, e poi il nulla la avvolse: ma l'anima, quella no, quella era ben salda e impressa negli occhi della traghettatrice alata, che volò veloce fuori dalla finestra e scomparve nel vicino bosco.
Il primo a rientrare fu il marito, che accortosi della dipartita della moglie, chiamò tutti i parenti, che piano piano fecero il loro ingresso nella camera per porre il loro ultimo saluto alle spoglie ormai fredde. Loro non lo sapevano ma tramite gli occhi scuri del pennuto che aveva salvato la sua anima la donna li stava guardando e ringraziando uno ad uno, anche solo per aver condiviso con lei gli ultimi attimi di una vita che avrebbe potuto essere più lunga, ma che le aveva dato gioie sufficienti ad andarsene con la pace nel cuore.
Sono passati più di quattro anni dall'ultimo lavoro degli americani Alda, quel “Tahoma” che, per chi segue le vicende della (ormai non più) nuova ondata di black targato USA, costituisce uno dei capisaldi del Cascadian Black Metal. Supportati da un'etichetta ben radicata nel suolo americano e ben calzante da un punto di vista etico e di pensiero, i Nostri si riafacciano sul mercato con “Passage”, un disco che prende spunto da alcuni momenti del suo predecessore per evolversi verso forme più riflessive e ragionate. “Tahoma” era ancestrale e feroce in certi momenti, mentre il nuovo lavoro, pur non rinunciando affatto al lato sanguigno e selvaggio del black, pone maggiormente in risalto i saliscendi emotivi che nel precedente lavoro costituivano invece il ponte tra una sezione più marcatamente “metal” ed una più folk. Mi viene quasi da dire che, nel modo di suonare, i nostri si siano spinti quasi ai confini del post rock (che comunque, a ben pensarci, costituisce da sempre a mio avviso una delle radici del black cascadiano), partendo da arpeggi acustici che si assommano, crescono, strabordano e deflagrano in riff elettrici dal coinvolgente piglio emozionale.
Tirando le somme, meglio o peggio di “Tahoma”? Pareggio, due facce della stessa medaglia, i punti deboli di un lavoro sono stati corretti dall'altro e viceversa. Va riconosciuto il gran cuore di questi ragazzi, che pur non stravolgendo nulla in un genere che ormai, seppur giovane, ha già detto molto della sua personalità, hanno saputo regalare ai loro fan e più in generale agli ascoltatori della scena un lavor intimo e notturno, ragionato, riflessivo e appagante, forse meno immediato del precedente, ma che saprà sicuramente regalare emozioni a chi saprà farlo suo.

The Clearcut

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sabato 30 maggio 2015

Tempo di saluti nel Dojo...


Non è mai facile salutare un Dojo, anche perché non è solo un semplice edificio, spesso (e nella migliore delle ipotesi) è un mondo a sé, una dimensione diversa dove per un'ora e mezzo, due ore, dialoghi sì con il tuo Maestro e i tuoi compagni, ma soprattutto lavori su te stesso.
Non è facile perché rappresenta in un certo senso mesi di lavoro, sudate su un'Arte che ti ha fatto per ora bestemmiare tanto, ma che qualche soddisfazione te la stava già regalando.
Non è facile soprattutto perché il Dojo è fatto di persone, senza il gruppo non ci sarebbe, o meglio, il gruppo ricrea il Dojo ovunque esso si muova... E stavolta è proprio questo che mi ha fatto più male, salutare il gruppo, il Maestro, gli amici. E' vero, ho faticato tanto praticando Wado Ryu, mi sono dannato l'anima fino all'ultimo per capire le distanze, le posizioni, gli attacchi... Qualcosa l'ho afferrato alla fine, venendo da un altro stile la confusione era tanta ma come ha detto il Maestro stasera stavo inizando a mettere le cose assieme.
Però si sa, ogni tanto si devono fare delle scelte, e stavolta il seguire il cuore non bastava, perché il cuore portava in due direzioni diverse e opposte. Mi sono fidato dell'istinto quindi, dei ricordi, dei movimenti, delle sensazioni, ed ho deciso di prendere un'altra strada, di salutare, come detto, il Dojo. Che sia stata una scelta positiva o meno questo ancora non lo so, e come accade sempre sarà il tempo a farmi capire se ho sbagliato o meno. Mi lascio alle spalle una bellissima Arte Marziale, verso la quale non è sbocciato l'amore ma solo fiammate di sentimento miste a docce fredde... E mi lascio alle spalle delle persone bellissime, che senza chiedere nulla mi hanno accolto, integrato nel loro gruppo, reso naturalmente partecipe di tutto, che hanno saputo apprezzarmi per quello che sono, rispettarmi nei miei difetti, correggermi ed aiutarmi nei miei errori, e che credo che mi abbiano voluto bene, sebbene ci conosciamo da un annetto.
Stasera è stata l'ultima lezione, ed i loro discorsi, i discorsi del Maestro, non sono state frasi fatte, sono state parole sentite, mi è stato detto che per me la porta è aperta, e che sperano di riavermi tra loro. Io sono un po' un ingenuo, lo sono sempre stato, ma ho percepito subito che queste parole erano vere, che venivano da dentro, che non avevano un secondo fine ma che volevano trasmettere amicizia, senso di gruppo, lealtà, comprensione.
Non so se questa esperienza terminerà con stasera o se avrà un seguito, ma sono certo che, semmai un giorno dovrò nuovamente varcare quella porta, il Dojo e con lui i Wado Ryu, il Maestro e gli amici mi riaccoglieranno di nuovo tra loro, come se fosse passato solo un weekend dall'ultima lezione.


Grazie di tutto, a tutti... Arigatou gozaimashita

mercoledì 25 marzo 2015

Soddisfazioni

Il giorno in cui la Musica smetterà di darmi queste soddisfazioni una parte di me morirà... Ma fino a quel momento voglio godermi questi attimi!!!


giovedì 12 febbraio 2015

Pioggia... Mid-February tunes



In alcune, rarissime volte, le cose non sono solo materiali, ma trasudano una carica emotiva incredibile, che pare smaterializzarle e renderle più vicine ad un'idea. Così un disco, una scatoletta di plastica con dentro un libriccino ed un cerchietto argenteo sul quale sono state registrate quasi venti (madonna, venti, se ci penso mi prende male) anni fa dieci canzoni, nel momento in cui lo stringi tra le mani non è più un semplice album, diviene impalpabile, incarna tutta l'attesa che hai vissuto nel cercarlo, pazientemente, per più di dieci anni (era infatti il 2002/2003 forse quando entrai in contatto per la prima volta con suddetto lavoro), si trasforma insomma in pura emozione. E quando poi è assolutamente nuovo, la confezione mai scartata da nessuno, come se fosse appena uscito da un negozio, la sensazione di aver raggiunto un traguardo importantissimo, la soddisfazione che ti trasmette quel piccolo oggetto, tutto questo aumenta a dismisura.
Come un bambino piccolo la sera di Natale ti senti in fibrillazione, entusiasta di quell'acquisto, e anche se in realtà già conosci a mente quelle canzoni perché le possiedi già in MP3, nel momento in cui inserisci il CD nel lettore è come se suonassero nuove, diverse. E mentre sul disco la pioggia scorre e l'eleganza e la tristezza si fanno musica sfogli il booklet, e ti colpisce subito l'adesivo SIAE vecchio, di quelli bianchi bordati di rosso, ora sostituiti da quelli argentati: quant'era che non ne vedevi uno in un disco ancora incellophanato, che non fosse già tuo o non fosse già passato dalle mani di qualcuno! Quell'adesivo aumenta l'epicità della tua conquista, recando il nome di un'etichetta che sai essere non più attiva e che conoscevi proprio per quell'album, e riportando anche la sigla "Orlando C.", componente del gruppo nonché persona registrata "all'anagrafe" SIAE. Sfogli il booklet dicevo, e con avidità scorri i testi delle canzoni ed i ringraziamenti, che sembrano così naif, scritti da ragazzi che al tempo saranno stati, forse, ventenni, ignari del fatto che di lì a qualche anno avrebbero "rivaleggiato" musicalmente con le band che ringraziavano su quel libretto... Band che hanno condiviso il palco con loro, mostri sacri di una musica alla quale loro si sono avvicinati per poi impadronirsene, farla loro, e restituircela marchiata a fuoco dal loro stile, inconfondibile. Mi hanno chiesto che genere fosse... E chi lo sa! E loro forse lo sapevano? Credo che suonassero con il cuore, incuranti delle etichette: da bravi romani scazzoni credo se ne siano fregati di tutto e di tutti, buttando giù tutto ciò che il cuore comunicava loro. Nella loro storia, finanche in ogni loro singolo pezzo, sono passati dal doom al black al gothic al death al prog, con un fil rouge sempre ben presente, l'emotività. Hanno sempre saputo toccare il cuore dell'ascoltatore, ora con scream lancinanti, ora con un cantato tecnicamente imperfetto, ma incredibilmente adatto alla situazione: non ti sapresti immaginare una voce diversa su quei pezzi. Supportati da linee melodiche che sapevano passare dall'elegante e raffinato all'abrasivo e feroce, e da una sezione ritmica gestita da quello che credo sia il miglior batterista italiano in campo metal (e tra i migliori a livello mondiale), il Nostro era un gruppo perfetto, ancora in divenire su quel disco, ma con un futuro che si sarebbe fatto dorato di lì a poco. E quel senso di speranza, quella forza in divenire, è ben presente nel disco che tengo in mano adesso, anche se le emozioni che vuole comunicare con i suoi testi sono ben diversi. Un'atmosfera piovigginosa, uggiosa, da camera, perfettamente veicolata da quella foto in copertina e dall'incipit del primo brano...
Per queste e tante altre ragioni, anche più legate all'ambito tecnico (la qualità del suono e delle canzoni, il modo in cui sono state interpretate, ecc) questo disco è sempre stato per me una chimera, un lavoro che, sebbene come detto lo avessi ascoltato più e più volte, rimaneva ancora intangibile ed inafferrabile... E oggi ho capito perché, perché non vuole, almeno per me, essere un semplice disco, non chiede una materializzazione in qualcosa di tangibile, vuole rimanere un'idea, o meglio, un'emozione, perché sa che solo così potrà essere davvero legato a chi lo ascolta, solo così potrà essere sempre ricordato e soprattutto desiderato, e non abbandonato come alla fine accade per la maggior parte dei dischi.


Nota a margine: il disco in questione è "Arte Novecento" dei romani Novembre, che scoprii una sera su internet mentre cercavo su un forum di tablature per basso un qualche gruppo dai connotati generalmente "dark"... Mi furono indicati da qualcuno sicuramente non italiano, pensa tu che giro largo! Non riuscendo a recuperare in alcun modo il disco (al tempo i canali shopping online per me erano ancora perlopiù inesplorati) me lo feci scaricare da un amico, e stampai io stesso una copertina in bianco e nero, quella sì, fedele il più possibile all'originale. Il disco, edito dalla Polyphemus Records (etichetta siciliana ora non più esistente) è stato per me una chimera, come detto: ogni tanto mi rimettevo a cercarlo, ma inutilmente, o non esisteva, o nessuno lo vendeva, o se era in vendita aveva un prezzo esorbitante. Poi qualche giorno fa lo ritrovo, e con poche decine di euro e due giorni di attesa me lo ritrovo sulla scrivania, impacchettato nuovo fiammante, speditomi da quello che, secondo me, era il proprietario dell'etichetta. Un'altra favola d'amore a lieto fine...


"...e un bel giorno venne lei
 "Ho delle caramelle", disse. Fu oro e sole.
 Poi se ne andò nel diluvio
 Per sempre..."
 

giovedì 18 dicembre 2014

Archaic Rites



Aveva assistito decine di volte a quei viaggi, ma non ne aveva mai preso parte: eppure, anche solo da spettatore, era sempre riuscito a carpire un'infinitesima parte di ciò che invece provava ogni volta suo nonno, sciamano del villaggio sulle rive del lago Tahoe. Stavolta però era diverso, stavolta toccava a lui, si trattava del suo primo viaggio, della sua iniziazione.
Qualche ora prima del rito Kiche aveva masticato le foglie di patata selvatica: una dose piccola, dato che un grammo in più gli avrebbe provocato nausea e blocco respiratorio, ma sufficiente a metterlo in condizione di viaggiare in uno stato di sonno vigile (o di veglia sonnacchiosa, come gli piaceva dire ispirandosi forse al comportamento sonnacchioso degli orsi in estate).
Entrato nella capanna c'era un odore intenso di spezie e di erbe tritate e bruciate (sapeva che anche quelle erano ingrediente fondamentale per la sua esperienza): vide subito il letto, un giaciglio di paglicci e rami, e il suo nonno lì accanto, che lo accolse con un sorriso sdentato, il volto devastato dal freddo, dal sole e dalle rughe. Senza una parola gli fece cenno di sdraiarsi, e passandogli una mano sulla fronte lo invitò a chiudere gli occhi. Poi gli mise in mano un capo di una corda, dicendogli di tirarla con forza in caso qualunque cosa avesse visto, sentito o provato "là" potesse costituire un pericolo per lui, tranquillizzandolo sul fatto che lo avrebbe tirato via lui (solo stavolta però, avrebbe dovuto presto imparare a camminare da solo).
Sapeva già come il viaggio sarebbe iniziato, glielo avevano descritto più volte: fuori della "sua" grotta, dentro la quale stava il "suo" animale guida, che avrebbe dovuto conoscere dato che sarebbe stato il suo compagno nei viaggi a venire, fine alla fine dei suoi tempi. E così andò, si ritrovò in una radura verdissima, ma più che una grotta scavata nella roccia pareva essere ricavata da un'enorme parete di ghiaccio: al tatto il freddo intenso si irradiava immediatamente per tutto il corpo, lasciando poi gli arti formicolanti. Si addentrò al suo interno, e la luce del sole che filtrava attraverso l'ingresso si fece di colpo azzurrastra, passando attraverso le pareti semitrasparenti. Poi, di colpo, in penombra, lo vide, il cavallo più grande che avesse mai visto. Grigio, possente, muscoloso, gli occhi rosso sangue, una calma incredibile che lasciava intravedere tutta la sua potenza e forza. Il cavallo lo fissava, e i suoi occhi gli fecero gelare il sangue nelle vene, al punto da chiedersi se non si fosse sbagliato, e se quell'essere, così imponente, potesse essere davvero la sua guida, il compagno di un ragazzo tutto sommato gracile, e per sua ammissione nemmeno tanto coraggioso. Poi fu un lampo, in due battiti di ciglia il cavallo non solo si era avvicinato a lui, ma addirittura aveva fatto in modo di farsi cavalcare, senza che Kiche potesse rendersi conto di niente. Poi fu l'inferno.
L'aria da gelida che era si fece incandescente, la grotta iniziò a crollare sciogliendosi come burro sul fuoco, il terreno si squagliò in lava incandescente. Il ragazzo ebbe un sussulto, stava per tirare la corda quando si accorse che il suo cavallo non solo stava volando (cosa di per sé sconvolgente), ma non si sa come aveva anche otto zampe, che galoppavano sopra la lava senza toccarla, seguendo una strada immaginaria lungo fiumi sotterranei incandescenti e grotte venate da riverberi porpora e azzurri. Kiche aveva paura, pensava di morire, ma il cavallo gli comunicava tranquillità, sapeva che non gli sarebbe potuto accadere nulla finché se ne stava aggrappato alla sua criniera. Poi però una scossa più forte delle altre lo sbalzò: perse il contatto con il crine, e un istante prima di toccare la lava tirò con tutta la sua forza e chiuse gli occhi, mentre già sentiva la sua pelle bruciare.
Quando li riaprì era di nuovo nel suo letto, madido di sudore, con vicino il nonno che lo riaccolse con lo stesso sorriso. Kiche tirò un sospiro di sollievo, poi però si ricordò di aver trascorso solo pochi istanti con il cavallo: e se non fossero bastati a stringere con lui il patto? E se avesse dovuto rifare tutto da capo? Terrorizzato guardò il nonno, nella speranza di una risposta, che arrivò: il nonno gli indicò la sua mano, che era ancora stretta in un pugno di tensione. La aprì, e dentro nascondeva dei crini argentei, che brillarono non appena i suoi occhi vi si posarono sopra, per poi sparire nel nulla. Allora il ragazzo capì che il patto era stato siglato, e nel momento stesso in cui arrivò a questa conclusione un nitrito riecheggiò nella vallata, il nitrito più imponente che avesse mai sentito.
Il quinto album è la gemma della discografia dei Flight Of Sleipnir. Il duo del Colorado release dopo release è stato in grado di affinare la sua unica miscela a base di doom epico, black metal atmosferico, psichedelia, folk e stoner, e questo "V" costituisce la loro consacrazione. In esso tutte le componenti sono perfettamente bilanciate, tutte contribuiscono alla perfetta riuscita di ogni brano, in cui si alternano gelidi scream ad armonizzazioni vocali che, al pari di alcune parentesi chitarristiche, proiettano l'ascoltatore direttamente nella psichedelia sessantiana. Fa da sfondo a tutto il doom fiero e cadenzato che ben si sposa con le tematiche mitologiche norrene trattate nei testi e che sfocia senza soluzione di continuità in fumate stoner talvolta ai limiti del drone (spesso ho sentito dei richiami addirittura agli Angelic Process).
Come già detto si tratta forse del capolavoro nella discografia dei Nostri, che solo con questo "V" hanno raggiunto equilibrio ed eleganza nelle loro composizioni, ed anche se ad un primo ascolto i pezzi non risultano così "easy listening" a causa della loro durata e delle loro strutture sfaccettate, è con il tempo che il lavoro cresce in qualità, stregando ogni volta di più l'ascoltatore.

Beacon in Black Horizon

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martedì 16 dicembre 2014

2014: a (metal) retrospective

Il 2014 è stato un anno per me un po' strano musicalmente: la riscoperta di dischi usciti in anni passati da una parte (alcuni per altro anche notevoli, al punto da inserirli tra i miei ascolti preferiti), ed una strana apatia che mi sono strascinato per gli ultimi mesi dell'anno dall'altra (apatia che mi ha portato a non apprezzare molti lavori che mi apprestavo ad ascoltare) hanno generato una lista tutto sommato esigua. Da aggiungere che:
1) devo ancora ascoltare diversi album molto promettenti, alcuni dei quali usciti proprio in queste settimane, per cui la lista potrebbe essere più lunga;
2) alcuni lavori, che attendevo con ansia e che ero certo, prima di ascoltarli, che sarebbero finiti su questa lista, in realtà mi hanno deluso per alcuni motivi, per cui non li ho ovviamente inclusi. Ci sono state comunque anche alcune conferme, gruppi che non hanno tradito le mie aspettative confezionando album che sono di diritto entrati a far parte dell'elenco dei "best of".
Detto ciò, questi sono i dischi che più mi hanno colpito in questi dodici mesi quasi terminati:

Damien Rice - "My Favourite Faded Fantasy"
Separatosi (solo musicalmente?) da Lisa Hannigan il Nostro ci regala il classico suo disco: pensoso, piovigginoso, piagnone, malinconico e con qualche sferzata elettrica... Insomma, il classico disco à la Damien Rice, che non sorprende più ormai ma che sa regalare comunque momenti di intimità e di calda malinconia.


Harakiri For The Sky - "Aokigahara"
Gran bella sorpresa in campo post black metal. Conoscevo i Nostri già dall'omonimo EP, che però non mi aveva molto colpito non riuscendo a discostarsi molto da canoni standard del genere. In questo lavoro invece gli HFTS sembrano aver imbeccato una propria individualità, fatta di melodia, aggressività e potenza.
Ripetendo quanto scritto in un altro post, "(...) prendendo spunto dall’ariosità dei Deafheaven, dal senso melodico intriso di malinconia dei Thränenkind, e aggiungendo al tutto una buona dose di personalità. Se proprio dobbiamo trovargli un difetto questo si può riscontrare forse nel cantato, uno scream rabbioso che alla lunga però può stancare e sembrare monotono, rimbombando un po’ nelle orecchie dell’ascoltatore quando si sta per toccare gli ultimi pezzi del disco, ma è un dettaglio minore e fortemente legato alla soggettività."
Notevole la cover di "Mad World".


Old Graves - "Like Straining Boughs"
Canadese, la mente dietro al progetto Old Graves ci regala un disco dal sapore vagamente "cascadiano", anche se qui i rimandi sono più verso un blackgaze di stampo naturalistico (dove in genere le ambientazioni sono più "cittadine")... Qualcuno ha parlato di "Agalloch meets Woods of Desolation", e direi che tutto sommato ci siamo: il gusto della melodia e dell'acustico agallochiano si fonda con i muri depressive/shoegaze dei WOD, creando un connubio vincente, affascinante ed appagante per tutta la sua durata. Trattandosi di un EP (anche se un po' più lungo dei canonici EP), li attendo al varco del primo LP!


The Flight Of Sleipnir - "V"
Eccomi di nuovo a parlare di questa strana creatura ibrida tra stoner, doom, folk e black metal. Stavolta i Nostri sembrano essere più ispirati del solito, regalandoci un disco ammaliante e coinvolgente dall'inizio alla fine. In particolare pare che i FOS abbiano stavolta deciso di approfondire il versante heavy della loro proposta (mentre nel precedente "Saga" i toni sembravano essere più calmi e folkeggianti), creando veri e propri muri di distorsioni acide ed epiche, ora liquide e pinkfloydeggianti, ora roboanti e travolgenti. La produzione infine ha qualcosa di old style, sa di analogico e di vinile, è calda e pastosa, e non fa che aumentare il fascino di questo lavoro.



Ghost Brigade - "One With The Storm"
La terza conferma di questa lista, la brigata fantasma torna con un nuovo lavoro che tenta di prendere un po' le distanze dai precedenti dischi del gruppo. Non che ci siano grosse variazioni nello stile della band, sia chiaro: i Nostri sono sempre riconoscibilissimi tra mille, ma cercano di essere meno scontati, tentando di arginare quel sapore di già sentito e di prevedibilità che si cominciava ad avvertire nelle loro produzioni. Ne consegue che non sempre le strutture canoniche sono rispettate, per cui ad esempio ad un crescendo strumentale in clean potrebbe non seguire un'esplosione di rabbia in growl come i Nostri ci hanno abituato, rimescolando quindi le carte in tavola e mettendo un po' di verve nel loro lavoro. Ripeto, nulla di nuovo, ma pare che anche i GB si siano resi conto che qualcosa andava cambiato, ed hanno iniziato ad intraprendere questa strada.



Come anticipato ci sono poi alcuni lavori che sono in attesa di essere ascoltati, potenzialmente ottimi concorrenti per questa lista, che possono essere citati al momento solo a parte, in attesa di un ascolto approfondito e, magari, uno "slittamento" nel paragrafo sopra:
Earth and Pillars - "Earth I"
Fen - "Carrion Skies"
Immorior - "Herbstmär"
Lotus Thief - "Rervm"
More Than Life - "What’s Left Of Me"
Barrowlands - "Thane"
Cuckoo's Nest - "Everything Is Not As It Was"
Redwood Hill - "Collider"

Infine le delusioni, quei dischi sulla carta detentori di un posto nell'elenco ma che in realtà mi hanno un po' tradito:

Saor - "Aura"
Credo si sia trattato di una cattiva produzione su CD, con volumi della batteria per il mio parere altissimi che nascondevano la voce e gli altri strumenti, rimbombando e creando un effetto un po' caotico. I pezzi di per sé possono anche non essere brutti (certo non al pari di "Roots"!) ma questo difetto non me li ha fatti piacere e mi ha distratto molto durante l'ascolto;

Falls Of Rauros - "Believe in No Coming Shore"
Ho trovato il disco un po' confusionario, pretenzioso e lontano dalle precedenti produzioni dei nostri, a mio avviso più sanguigne e vere;

Panopticon - "Roads To The North"
Anche qui, arruffìo, confusione e voglia di strafare: niente da fare, questo gruppo non riesce a piacermi;

I Love You But I've Chosen Darkness - "Dust"
Li ho attesi molto, quando ho letto dell'uscita del seguito del favoloso "Fear Is On Our Side" non ho creduto alle mie orecchie, e quando l'ho ascoltato mi ha lasciato un po' di amaro in bocca: il disco parte molto bene, con alcuni pezzi davvero tirati ed epici, ma poi non so come si perde per strada, per non ritrovarsi più. Anche il predecessore subiva una flessione sulla metà ma si sapeva poi riprendere (e come!) ma in questo lavoro pare manchi qualcosa. La ciliegina sulla torta? Il fatto che sia prevista solo una versione in vinile... Buuuuuuuuuuu!

Agalloch - "The Serpent & the Sphere"
...e qui casca l'asino. Sì perché mi ha fatto una sensazione stranissima non apprezzare l'ultimo lavoro dei maestri di Portland, ma non c'è modo di farmelo piacere. La sensazione che ho avuto di confusione, di collage di pezzi rubati ad altre loro canzoni, di disco poco ispirato, continua a ripresentarsi anche dopo svariati ascolti. I pezzi interessanti ci sono ma non hanno mordente, sembra che i Nostri abbiano intrapreso un fare filosofico un po' troppo pretenzioso e musicalmente avanguardista, che ha perso quell'odore di bosco durante un temporale che si erano invece portati dietro fino almeno a "Marrow of the Spirit" incluso.
Restano sempre tra i miei preferiti, ma stavolta non possono stare tra i migliori dell'anno.

Insomma, non è stata una bellissima annata: tante uscite, poche (per me) all'altezza, ma anche alcune ottime scoperte riguardanti dischi usciti negli anni passati, che alla fine mi hanno permesso di aggiungere almeno una decina di lavori al mio bagaglio di opere imprescindibili o quasi.

Alla prossima!