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martedì 28 gennaio 2014

Going analog (back again)



Devo riconoscere che è stata una sensazione davvero strana e insolita, qualcosa che, relativamente a questo ambito, era molto che non provavo...
Pochi giorni fa mi è presa la voglia di ritirare fuori il mio vecchio Walkman e di ricomprarmi qualche cassetta, credo spinto dal fatto che molti gruppi che ascolto (e alcune etichette) amano pubblicare i loro lavori anche su questo formato. A ben pensarci l'analogico con un genere come il black metal o il doom si sposa da dio, essendo questi stili musicali nati negli anni in cui la cassetta era l'unico supporto portatile. Considerato che la mia passione per loro è nata quando ormai i CD erano il principale supporto audio (e anzi si stavano affacciando pure gli MP3) ero curioso di sentire come potesse essere il suono di una cassetta di un gruppo black. Grazie a un'etichetta newyorkese ho ordinato per una cifra irrisoria sei cassette agli inizi di questo mese, e stamani alle 10:00 ero già lì che scartavo il pacchetto arrivatomi con una velocità inaspettata.
Da consumatore di CD sono abituato a scartare un album nuovo di pacca, eppure la cosa mi ha fatto un certo effetto, forse per colpa del formato per me non più consueto, fatto è che mi brillavano gli occhi scartando quelle confezioni di plastica, prendendo nuovamente in mano cose che erano anni che non toccavo più, almeno non con quell'attenzione che stavo adesso dando loro. Mi ha colpito molto il fatto che le cassette fossero numerate a mano, segno di "esclusività" dell'opera (Pop Art, quanto hai insegnato al mondo!), e anche il fatto che una cassetta non presentasse scritte varie come le altre ma recasse semplicemente il logo "Sony Hi Definition" mi ha fatto tornare alla mente i pomeriggi passati a registrare compilation con il mio vecchio stereo a doppia cassetta (un lusso per me!).
Il bello è venuto a casa, quando ho inserito, una dopo l'altra, le varie cassette nel Walkman, per l'occasione collegato alle cuffie "da DJ" (non so come chiamarle le cuffie che andavano un tempo, che fasciavano la testa e si poggiavano sopra le orecchie). C'è voluto un attimo per ricordarsi il lato giusto da mettere, ma quando ho premuto play mi sono immediatamente reso conto di quanto la musica digitale, anche quella meglio registrata, sia pur sempre fredda se confrontata con una cassetta. E attenzione non parlo di definizione del suono (ovviamente non c'è paragone) ma proprio di calore del suono, un po' quello che dicono sempre anche i cultori del vinile (con le ovvie distanze). I suoni gelidi del black arrivavano alle mie orecchie pastosi, caldi, avvolgenti, piacevolmente ovattati, mi è sembrato di scoprire un nuovo mondo di ascoltare musica.
Per praticità ho anche le versione in digitale dei sei album acquistati in cassetta, ma l'ascolto primario sarà sempre riservato alla loro controparte analogica: se in soli cinque minuti ho avuto tutte queste soddisfazioni posso solo immaginare come mi sentirò a fine album.
Federico is going analog!

PS per dovere di cronaca, questa è l'etichetta alla quale ho fatto riferimento: http://brokenlimbsrecordings.com/

The Night Heir

domenica 15 dicembre 2013

2013: a (metal) retrospective

Un'annata particolarmente ricca dal punto di vista musicale questa che sta per chiudersi, che ha saputo regalarmi moltissime sorprese musicali, non necessariamente metal. Una conferma su tutte, il "Cascadian Black Metal", derivazione atmosferico/ambientalistica del black metal a stelle e strisce che si è guadagnato ancora una volta il trono del mio genere musicale preferito... Ma c'è anche altro!

Thränenkind - "The Elk"
Splendido LP di esordio di questi tedeschi, a grandi linee facenti parte del post black metal, anche se ascoltandoli non tardano a saltare all'orecchio tante altre influenze del gruppo: depressive (rock e metal che sia), post hardcore, post rock, il tutto si mischia in maniera uniforme in questo lavoro. Le canzoni si susseguono mantenendo un mood disperato e malinconico di fondo, ma mutando di volta in volta il modo in cui questo viene comunicato: all'orecchio giungono echi di Katatonia (fase "mediana"), Lantlos, Amesoeurs, Fall Of Efrafa, The Elijah, Explosions in The Sky, band molto diverse tra loro che paiono aver trovato un tratto comune in questo disco.
Album che cresce alla distanza e rimane intatto nel tempo, basta solo farvi catturare dalle sue grigie trame.




Locrian - "Return To Annihilation"
I Locrian hanno saputo mettere in musica l'annientamento, la nebbia, la paura e la sensazione di impotenza di fronte a un qualcosa più grande di te. Senza guardare in faccia a nessuno, senza cercare per forza consensi, i Nostri colpiscono l'ascoltatore con un maglio fatto di black metal, noise, ambient, post rock e drone, giungendo addirittura a lidi psichedelici stranianti a spaziali (devono aver ascoltato "A Saucerful Of Secrets"!!!): il risultato? "Return to Annihilation" spiazza dall'inizio alla fine, impaurisce ed irretisce, è una continua sorpresa anche se lo hai già ascoltato venti volte, e ti costringe quasi a premere nuovamente "play" una volta che è terminato. Straziante e lacerante.




Lux Interna - "There is Light in the Body There is Blood in the Sun"
Che sorpresa! I Lux Interna sono un combo di Neofolk made in USA, un gruppo che, nonostante suoni un genere a me abbastanza lontano (nonostante sia una delle radici di molti gruppi che ascolto), mi hanno colpito e stregato sin da subito. Merito dell'aspetto rituale e purificatorio della loro musica, sebbene presenti una certa oscurità di fondo che è rintracciabile, se spogliati dal black metal, anche in band come Alda, Wolves in The Throne Room e simili (quindi comunque gruppi “cascadiani”, della zona del Pacific North West).
Per ricreare le caratteristiche vincenti citate poco sopra i Nostri si sono basati molto sulla ripetizione continua di strutture e voci e sull'uso di strumenti “tipici” della cultura delle First Nations, appagando l’ascoltatore donandogli un senso di pace e di unione con la natura; la voce del cantante poi molto mi ha ricordato il Lanegan di “Bubblegum”, il Cave delle “Murder Ballads” e, a sprazzi, anche il Lou Reed di “Venus in Furs”.
Insomma, una proposta interessante da provare sia per gli amanti del (Neo)folk che per quelli del black Cascadian, che magari possono ritrovare in questo disco le stesse sensazioni provate con altre band.




Apocynthion - "Sidereus Nuncius"
Post black metal sulla scia di Alcest, Amesoeurs, Austere, Les Discrets, Lantlos... Ma non solo. Con "Sidereus Nuncius" gli spagnoli ci trasportano in una dimensione priva di coordinate spaziotemporali, cullandoci con ritmiche ipnotiche tipicamente darkwave e sferzandoci con improvvise accelerazioni black, e regalandoci un lavoro che è uscito in sordina ma che in poco tempo si è fatto conoscere ed apprezzare da un pubblico (relativamente, per il genere suonato) vasto.




Sadhaka - "Terma"
Poteva mancare il Cascadian Black Metal in questa lista? Ovviamente no! Dal nulla sono spuntati questi Sadhaka, che con "Terma" hanno saputo donarmi un disco che è entrato direttamente tra i miei preferiti nel genere. Non siamo di fronte a dei novellini: nel gruppo militano membri dei già più conosciuti Fauna, che qui sono citati nel loro spiccato sciamanesimo, componente fondamentale della musica dei Nostri assieme alla rabbia tipica dei Wolves in the Throne Room, alla furia cieca degli Addaura e all senso della melodia e dell’atmosfera tipico degli Alda o degli Skagos.
Dopo "Terma" sono spariti nuovamente nel fitto delle foreste del nordovest... Speriamo per registrare un nuovo capolavoro!

SADHAKA



Fauna - "Avifauna"
Eccoli anche i Fauna, citati nell'articolo sopra riportato, tornati alla ribalta dopo alcuni anni di anonimato e finalmente in grado di regalarci un disco di Cascadian Black Metal veramente imponente, sia da un punto di vista musicale che per il minutaggio (i pezzi vanno dai 17 ai quasi trenta minuti di durata). Questa scelta non costituisce un tentativo di "allungare il brodo" ma permette alla band di dispiegarsi in tutto suo crescendo emotivo, partendo magari da una semplice base acustica, o da un cinguettio di uccelli, per poi crescere di intensità con ritmiche che rievocano rituali sciamanici o paesaggi notturni caratterizzati da una natura imperante. Se cercate la traduzione del termine "sciamanico" in musica ascoltatevi "Avifauna".

FAUNA



Amiensus - "Restoration"
Il 2013 è stato l'anno della Pest Productions, etichetta cinese che ha messo a segno un colpo dietro l'altro (Apocynthion e Sadhaka fanno parte del suo rooster assieme ad altre realtà molto interessanti come Vallendusk o Stellar Descent), e gli Amiensus rientrano di diritto tra i loro gruppi più promettenti.
Questi ragazzi suonano quello che a un primo ascolto sembrerebbe essere un Symphonic Black Metal sulla scia degli Emperor, ma basta solo ascoltare la tracklist del loro "Restoration" per capire che non c'è solo questo: c'è una forte attrazione nei confronti del progressive, del folk, del Cascadian, il tutto collegato da uno spiccato senso della melodia che in più di un'occasione colpisce diritto il bersaglio.
Non bollateli come cloni ma date loro tempo di crescere dentro di voi, e capirete di avere tra le mani un lavoro davvero degno di nota!




Sombres Forêts - "La Mort du Soleil"
I Sombres Forêts sono il progetto di Annatar, musicista del Québec già visto all'opera nei Miserere Luminis: due band queste che, assieme ai Gris, costituiscono una triade di tutto rispetto nel panorama black di questa regione del Canada. "La Mort du Soleil" è un disco dirompente nella sua disperata teatralità, sontuoso, sofferente e colto, un disco forse meno intransigente dei Gris, forse meno avanguardistico dei Miserere Luminis (ma guai a non definirlo ricercato!), ma di gran lunga, almeno per me, più fruibile, distruttivo (sul piano psicologico) e coinvolgente. E quella copertina poi ne è degna presentazione e sintesi.




Encircling Sea - "A Forgotten Land"
Si può suonare "cascadiani" pur vivendo dall'altra parte di queste zone? La risposta è sì, se si segue quanto fatto dagli australiani Encircling Sea. Se si ignora infatti la provenienza geografica dei Nostri questo "A Forgotten Land" sembrerebbe quasi essere frutto del sottobosco del nordovest americano, tale è la potenza e il senso di ritualità e comunione con la natura ricreato dalla band. Brani che partono lenti, crescono grazie a riff che si assommano e si fondono gli uni con gli altri, per poi esplodere, annodarsi attorno al tuo collo, e rilasciarti solo quando sei a un passo dal soccombere. Passionali e feroci.




Hanging Garden - "At Every Door"
Abbandonati i canonici e sicuri lidi del doom death che ne ha accompagnato gli esordi, i finlandesi Hanging Garden hanno raggiunto la maturità con questo lavoro, trovando quella che forse è la loro vera natura. Unendo la base doom che da tempo li caratterizza con le progressioni del post metal e la nebbia tipica della darkwave (i The Cure spuntano un po' ovunque!) questi ragazzi hanno saputo finalmente dare un senso alla loro musica, rendendola finalmente riconoscibile e distinguendosi dalla massa. "At Every Door " è un lavoro spiazzante, pesante e leggero al tempo stesso, ora impalpabile, ora denso e ben presente, di sicuro una sorpresa!




Regarde Les Hommes Tomber - "Regarde Les Hommes Tomber"
Altra etichetta che ho imparato a tenere d'occhio, la Debemur Morti ha pubblicato l'omonimo esordio dei Regarde Les Hommes Tomber, ed ha fatto centro.
Tellurici e apocalittici i Nostri si muovono con eccezionale maestria nelle lande infuocate i cui cancelli ci furono aperti ormai qualche anno fa dai Neurosis, facendosi largo tra lo zolfo e le fiamme di una civiltà sull'orlo del collasso a forza di riff post metal e ritmiche black metal. Il suono del crollo della Torre di Babele?




The Flight Of Sleipnir - "Saga"
A sorpresa nel 2013 si sono rifatti vivi anche i "miei" amati The Flight Of Sleipnir, con un lavoro forse meno sanguigno del precedente "Essence Of Nine", ma non per questo meno affascinante. Fautori di un misto tra doom classico, stoner, epic metal, folk, psichedelia e black metal (quest'ultimo solo nella voce e in qualche sfuriata), i Nostri hanno in questo lavoro data maggiore rilevanza al comparto folk e epic, consegnandoci un lavoro forse un po' più atmosferico e fumoso, che comunque lascia trasparire la classe del gruppo e che si fa ascoltare dall'inizio alla fine stregando senza troppa fatica.




Vattnet Viskar - "Sky Swallower"
Altra band USA in grado di regalare brividi agli amanti del "nuovo corso" del black metal... Non siamo in territori Cascadian ma più post black, eppure il risultato non cambia: furia e sezioni ipnotiche e atmosferiche si alternano con estrema fluidità all'interno dei pezzi di questo gruppo, che di certo non inventa niente di nuovo, ma sa donare emozioni forti a chi è alla ricerca di un black un po' più raffinato e non "semplicemente" grezzo e veloce.




...che annata ragazzi!!!

giovedì 31 ottobre 2013

Il cimitero degli elefanti



Quando ero piccolo guardando il Re Leone scoprii una cosa tristissima: gli elefanti, quando sentivano di essere prossimi alla morte, lasciavano il branco per affrontare, da soli, il loro destino. La cosa ebbe su di me un effetto dirompente, come del resto tutto il film in sé.
Con il tempo ho poi scoperto che questa pratica di abbandonare i propri luoghi familiari per morire è comune anche ad altri animali: lupi, cani, gatti, tutti, seppur addomesticati, preferiscono allontanarsi, se sono in grado di farlo, per passare con se stessi gli ultimi momenti di vita. Oggi come allora però non riesco a capire questa cosa: perché se sei stato coccolato, accudito e viziato, vuoi privare i tuoi cari delle tue ultime ore di vita su questa terra?
Ho pensato a tutto questo oggi pomeriggio, quando mio padre mi ha telefonato per dirmi che Neve, la nostra pastore maremmano mista a setter mista a golden, ci ha lasciato dopo anni di lotte contro tanti tumori che ne stavano devastando l'organismo. Neve non abitava più con me da ormai cinque anni, essendomi io trasferito a vivere prima da solo, poi con la mia ragazza (ora moglie), ed avendo già un mio cane, Ginny, una cucciola di Cavalier King di tre anni e mezza, mia (e nostra) immensa gioia. Vedevo Neve solo nel fine settimana, quando andavo a trovare i miei genitori: aveva sempre uno sguardo o una leccatina dolce per tutti, per me, per Ginny, per i micini che, quando entravano in casa, appena la vedevano le si lanciavano addosso per fare tante fusa. Erano però alcuni mesi che camminava molto male: un brutto tumore (uno dei tanti che aveva) si era gonfiato a tal punto da impedirle di muovere quasi del tutto una zampa davanti: i movimenti risultavano lenti e faticosi, complice poi anche l'età che avanzava inesorabile (Neve era nata nel dicembre 2001). Ciò nonostante come detto l'occhio era dolce e vigile, la mente sempre ben presente, rispondeva attivamente quando i miei genitori (e soprattutto mio padre) le parlavano. Sì perché noi in famiglia non abbiamo mai “dato ordini” ai cani, abbiamo sempre parlato con loro, e visti i risultati che ci hanno dato sinora, Ginny compresa, ritengo che sia la cosa più giusta. Ovviamente questo giochino ti porta ad affezionarti ogni giorno di più a queste bestiole, talvolta la razionalità che dovrebbe caratterizzare il tuo cervello di umano evoluto va a farsi benedire, e ti trovi a piangere come un bambino nonostante i tuoi sessanta anni.
Mio padre, in lacrime, mi ha raccontato che Neve è uscita nell'orto, si è scavata una buca e vi si è rintanata, uggiolando solitaria. Quando mia madre, accortasi della sua assenza, l'ha cercata eppoi trovata, l'ha accarezzata più volte, ricevendo in cambio uno sguardo dolcissimo, seppur in procinto di spegnersi. Quando mio padre (che lei ha sempre considerato il suo “vero” padrone) l'ha accarezzata, lei ha smesso di piangere, per poi iniziare ad ululare quando lui si è allontanato. Neve stava male da alcuni giorni, è peggiorata nel giro di poche ore, ma mai, mai si era comportata in quel modo, mai sentita uggiolare di paura o dolore... Ha sempre affrontato tutto in silenzio, e pare che questa forza l'abbia trasmessa anche alla piccola Ginny, che non si lamenta mai, neppure quando sta molto male.
Vedendola in quello stato mio padre ha capito: dio solo sa quanto gli è costato chiamare il veterinario per farla addormentare, dio solo sa quanto ha patito nel vederla viva l'ultima volta... Ma dio solo sa quanto è stata male Neve in questi momenti. Ora quindi mi chiedo: è stato giusto attendere? Forse soffriva molto anche prima ma la sua tempra la portava a non esprimersi in alcun modo, finché il dolore non è stato insopportabile? Io sono stato felice che Neve se ne sia andata a casa sua, ma tutte quelle sofferenze non so se gliele avrei fatte passare... Ed è un bene che l'abbia vista per l'ultima volta quattro giorni fa: l'ho accarezzata, salutata, e ho preso accordi con qualcuno affinché non fosse sola una volta lassù. La mia coscienza è tranquilla, non avrei sicuramente retto nel sentirla in quello stato, visto come reagisco quando Ginny sta male.
Arrivò d'inverno, ero appena rientrato a casa e mio padre me la fece vedere: la presi in braccio, la portai in casa e la misi sul mio letto... Non si è più schiodata dai letti di casa, finché ha potuto! La sera doveva dormire fuori... Sì come no! Mia madre, al tempo abbastanza intollerante nei confronti dei cani, sentendola guaire ed arrampicarsi da sola sulla rete che la separava dal giardino, per venire in casa, fu commossa a tal punto che la liberò e vietò a mio padre di farla dormire fuori, se non espressamente richiesto dalla stessa Neve.
Ricordo i giochi sul letto, le lotte, le corse in corridoio e nel bosco, i pomeriggi passati a studiare con lei sul letto, le volte che, per febbre, me ne stavo a letto (con lei distesa sopra a bloccarmi il respiro)... Ricordo quanto le volevano bene i vari micini, ricordo lei che correva per casa con il povero persiano rosso, Toto, in bocca: lo trattava come un giocattolino! Ricordo le volte che ha ringhiato in presenza di estranei, quando ha difeso la piccola Ginny dall'assalto di un altro cane che la voleva mordere... E ricordo la sua fiera indole di pastore maremmano, che la portò una sera d'estate, con i cinghiali in giardino (erano passati dal cancello che dava sul bosco) a non alzare un dito preferendo osservarli dalla cima delle scale tranquillamente distesa! Cane da pastore sì, ma mica scemo!

Come scrissi in un mio vecchio post, quando penso a lei mi ricordo immediatamente di questo passo de "Il Richiamo della Foresta":
"Mentre Buck li guardava, Thornton s'inginocchiò vicino a lui, e con le sue rozze e affettuose mani cercò se vi fossero ossa rotte. Quando fu sicuro che non vi era niente altro se non molte contusioni e un terribile stato d'inedia, la slitta si era allontanata di un quarto di miglia. Il cane e l'uomo la guardavano strisciare sul ghiaccio.
Improvvisamente videro sprofondare la parte posteriore e il timone, con Hal aggrappato, ergersi nell'aria. Giunse alle loro orecchie l'urlo di Mercedes. Videro Charles voltarsi e fare un passo per tornare indietro, poi un'intera lastra di ghiaccio cedette, e i cani e gli uomini scomparvero. Rimase solo una buca aperta. La pista aveva ceduto.
John Thornton e Buck si guardarono.
- Poveri diavoli, - disse John Thornton.
E Buck gli leccò la mano."

Mi piace pensare che adesso è lassù con una persona che sta già vegliando su di lei, mi piace pensare che parte della sua forza e intelligenza siano passate a Ginny, e mi piace pensare che, anche con lei, un giorno ci riabbracceremo, in un modo o nell'altro.

Ciao Nevona.

Scattered like seeds on the wind,
we fall evermore from the Spring ever-growing,
and we dream of the Cycle’s end.
Asleep at the fire’s edge we await.
Asleep at the fire’s edge we dream and count the Cycles.
Asleep at the fire’s edge we dream and count the passings…


venerdì 20 settembre 2013

Sopravvissuti


Quando hai a che fare con un male che vedi, riesci a combatterlo, al più ad evitarlo... Ma quando non lo vedi cosa puoi fare se non temerlo e fuggirlo? Quando le spore iniziarono a diffondersi nell'aria nessuno riusciva a vederle, potevi solo renderti conto delle conseguenze: gente rabbiosa, impazzita, con gli occhi rossi fuoco che brillavano nella notte come tizzoni, bestie che si muovevano a scatti, che si lanciavano accecati dalla follia contro i poveri sopravvissuti, che nella migliore delle ipotesi morivano massacrati o divorati, nella peggiore... Beh, diventavano anche loro infetti.
Dall'inizio del contagio, dell'iniziale diffusione delle spore (prima) e del proliferare dell'infezione (poi) erano ormai passati mesi: le forze dell'ordine avevano optato per radere al suole parti intere di città ghettizzando i pochi sopravvissuti, nel vano tentativo di estirpare la malattia, che ormai si era già impossessata di tutti, e non c'era modo di arginarla. "Siamo già morti", continuava a ripetersi la ragazza, "solo che siamo ancora troppo stupidi per non capirlo". Eppure lei era diversa, era sì stata infettata, ma non si era trasformata come gli altri, l'infezione non aveva proliferato all'interno del suo corpo ma era rimasta lì, arginata in quel piccolo lembo di pelle del braccio, una specie di bruciatura, nulla di più. Qualcuno addirittura, tra i superstiti, credeva che lei fosse portatrice sana dell'infezione, una sorta di vaccino che in teoria avrebbe potuto aiutare l'umanità, se solo fosse stato estratto nei modi più opportuni. Di fatto questo era il motivo per cui stava attraversando il nord America con quell'uomo che aveva conosciuto solo poche settimane prima: così ombroso e misterioso, così solitario eppure stranamente legato a lei, lui la stava tenendo stretta a sé come si trattiene una piccola fiamma affinché non si spenga in una notte di tempesta, la considerava, davvero, l'incarnazione della speranza, e un'ancora di salvezza dalla follia e dalla paura, un'isola in mezzo a un mare di orrore.
Aveva cominciato a fidarsi di quell'uomo, si affezionava a lui ogni giorno di più, era quasi il padre che lei aveva perduto (e con ogni probabilità anche lui vedeva in lei la figlia morta ormai da diverso tempo).
Le stagioni passavano seguendo il loro corso, e al bel sole d'estate sembrava non importare nulla che sotto di lui la gente si scannava e si strappava la vita a vicenda... E il cinguettio degli uccelli non si interrompeva quando ad esso si sovrapponevano le urla di qualcuno che stava morendo o le grida lancinanti di qualche infetto. I due camminavano attraverso scheletri di città un tempo ricche e vive, si muovevano come spettri che non riconoscono più le loro dimore, e gli incontri che facevano con persone non ostili, superstiti come loro, finivano sempre con lo strappargli un pezzo in più di cuore e di anima: non facevano in tempo a conoscere qualcuno che questi o li tradiva, o si separava da loro per seguire altre strade, o semplicemente moriva. Insomma, si sentivano un po' gli ultimi rimasti, ma non perdevano la speranza ed andavano avanti.
Poi un giorno successe qualcosa di brutto, successe che l'uomo dovette scegliere se sacrificare la ragazza nel nome di una (possibile?) salvezza dell'umanità, o sacrificare l'umanità nel nome del profondo attaccamento che provava verso la ragazza, ormai divenuta sua figlia. E' vero, anche l'uomo pensava che in fondo erano tutti già morti, ma in quel momento pensò che in fondo non gliene sarebbe poi importato molto se l'umanità continuava a tagliarsi le gambe e si squartava con le proprie mani: lui la sua felicità l'aveva ritrovata, e probabilmente anche la ragazza provava lo stesso, erano di fatto un po' meno morti degli altri, e ciò bastava per (soprav)vivere un po' meglio.
Strana creatura questi Thränenkind. Tedeschi, tra le loro fila militano persone che compaiono anche in band come Heretoir, Agrypnie e Bonjour Tristesse (e chi conosce questi gruppi sa che il loro genere fa capo al post black metal tanto in auge ultimamente). Eppure i Nostri non si limitano a svolgere il compitino mettendo sul piatto solo una riproposizione dei gruppi citati, ma aggiungono elementi provenienti ora dal depressive (rock e metal), ora dal (post)hardcore e dal post rock, creando un'interessante soluzione musicale che, se al primo colpo riesce a fare buona impressione sull'ascoltatore c'è il "rischio" che cresca di gradimento sempre più, con il passare degli ascolti.
"The Elk" è un disco appassionante, emotivamente molto intenso, non annichilente ma, all'opposto, a tratti quasi carico di speranza, nel quale si tratteggia in bianco e nero la storia di un viaggio di due fratelli che devono prendere parte al funerale del loro padre, un viaggio che sembra essere quasi più mentale che fisico, una sorta di climax che sembra condurli dalla sofferenza e disperazione che permeano le prime parti del lavoro ad un senso di libertà e di sollievo. Da molte parti si critica l'uso delle voci nell'album, molti ritengono che la prova vocale fornita dal cantante non sia adatta alle canzoni, ma vorrei spezzare una lancia in suo favore. Il cantato è uno scream che si muove bene sia nelle parti più black che in quelle più "melodiche", derivanti direttamente dal post rock o dal post hardcore, magari non raggiunge vette di espressività e dinamismo, ma svolge il suo lavoro in maniera impeccabile, facendo da ponte tra parti dove riecheggiano ora i Katatonia degli ultimi anni Novanta/primi Duemila, ora band come Lantlos e Amesoeurs, ora gruppi come Fall Of Efrafa o The Elijah, infine addirittura gli Explosions in The Sky ed il post rock più intimo e acustico.
E' molto difficile insomma capire dove inserire i Thränenkind, non è molto immediato pensare ad un gruppo che unisca influenze provenienti dalle band sopra citate, ma alla luce di questa curiosa ed intrigante proposta mi sento di consigliare senza mezze misure questo disco, ritenendolo meritevole di molte più attenzioni di quante in realtà stia ricevendo.

This Story Of Permanence

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http://www.debaser.it/recensionidb/ID_39889/Thr_c3_a4nenkind_The_Elk.htm

lunedì 9 settembre 2013

Eterno annientamento



Per una volta non sono in grado di tradurre a parole le immagini che si affacciano nella mia mente ascoltando questo disco. E' come se la fitta nebbia della copertina mi entrasse negli occhi, come se trapassasse ogni fibra dei miei vestiti rendendoli pesanti e umidi, come se, attraverso le cuffie, traspirasse nel mio cervello e gli impedisse di ragionare. Questo disco ti mette in ginocchio, ti annienta, ti soffoca, ti imprigiona e ti ammalia, e non ce la fai a sottrarti, visto che ti ritrovi a premere ripetutamente il tasto "play" ogni volta che termini un ascolto, solo per il gusto di tornare ad essere annientato.
La musica qui è scarnificata, persa in un coacervo dove convivono black metal, noise, ambient, post rock e drone, che si muovono mangiandosi e mordendosi l'un l'altro, confluendo l'uno nell'altro in maniera ininterrotta, con la melodia che soccombe al rumore, che riprende forza per pochi attimi per poi essere nuovamente spazzata via da grida lancinanti.
La cosa bella di questo disco è che non te lo spieghi, non sai mai come potrebbe essere il minuto successivo, ti fa smarrire, al punto che arrivi ad un punto di una canzone, totalmente straniato, riesci per un attimo a tirare fuori il capo dalla nebbia che respiri per chiederti come diavolo hai fatto ad arrivare sin lì, cosa c'è stato prima, cosa diavolo hai ascoltato un secondo prima... Ma il tempo di finire questo pensiero che già la nebbia ti ha riassorbito, e sei di nuovo da capo. Come quel carrello della spesa in copertina, perso in un parcheggio di cemento, ti senti abbandonato, parcheggiato nel nulla: ci sono sagome in lontananza, forse lampioni, ma la loro luce è così fioca che è come se non ci fosse, e in lontananza senti solo vento e uno sferraglìo lugubre, il pianto di corde di chitarre straziate al triste passo di un pianoforte appena toccato. L'apice dello straniamento lo raggiungi però, come è giusto che sia per ogni viaggio che si rispetti, intorno alla fine del disco, quando dalla nebbia riemergono addirittura echi floydiani (sarò folle ma in "Obsolete Elegies" ci sento un po' "Absolutely Curtains", un po' la sacralità di "A Saucerful Of Secrets", e chissà che altro), e la melodia cresce in tutta la sua potenza, salvo poi perdersi in un nulla che ti da, ovviamente quando non te lo aspetti, il colpo di grazia, una deflagrazione black guidata da una chitarra drammatica ed epica, di un'intensità incredibile, che tanto mi ricorda altissimi momenti toccati da band come Agalloch o Austere (i primi che mi sono balzati in testa). Eppoi tutto collassa su se stesso e si chiude, stavolta definitivamente: un enorme drappo nero cala sui nostri occhi, e si è quasi costretti, come detto qualche riga più sopra, a premere nuovamente "play", per cercare di capirci qualcosa in più.
"Return to Annihilation" non si spiega, va ascoltato e basta: i Locrian hanno creato un incubo metropolitano in grado di rigenerarsi ogni qualvolta ascolti il disco, un lavoro intensissimo e pieno di atmosfera, trasversale nel genere di riferimento ma univoco nelle sensazioni che sa trasmettere, un disco di "extreme" qualcosa che non deve passare assolutamente in sordina.

Return to Annihilation

http://www.debaser.it/recensionidb/ID_39831/Locrian_Return_To_Annihilation.htm

venerdì 6 settembre 2013

Luce nel nelle vene e sangue nel sole



Collage di foto.
Esci dalla grande città, e man mano che percorri la strada ti accorgi di quanto questa stia diventando sempre più larga, e di quanto spazio ci sia intorno a te: boschi, foreste, qualche lago, montagne. Ti accorgi di esserti già inoltrato a sufficienza “into the wilderness” dalla quantità di auto che incroci: sempre più rare, sempre più pickup, jeep o veicoli spartani.
Le comunità che incroci sono molto simili a quelle che hai visto nei film: piccole, chiuse, fatte di persone forse un po’ rudi, magari un po’ sempliciotte, ma di certo dal buon cuore.
L’acqua che sgorga fresca, pura, libera e a disposizione di tutti, da una piccola fonte vicino al lago: fa una strana sensazione toccare quell’acqua fredda quando fuori fa così caldo, sembra raccontarti dei suoi viaggi sotto terra, dei posti che ha visto e delle montagne dalle quali è nata, e già questo ti mette un po’ più in comunione con questo posto.
Il lago, enorme, un mare se paragonato ai nostri laghi, e non è nemmeno tra quelli di medie dimensioni di tutto lo stato! Eppoi in lontananza il cottage, arroccato su uno zoccolo di roccia millenaria, inghiottito dalla foresta, che ti da il benvenuto con il suo piccolo attracco in legno.
Nuotare nel lago fa un certo effetto, ti rigenera, ti purifica quasi, rimarresti per ore a fissare quell’acqua dai riverberi dorati, che al tramonto scintilla come se kili e kili d’oro vi fossero stati sbriciolati dentro.
Lo stranissimo richiamo del “loon”, che alle volte, nel cuore della notte, può farti trasalire, ricordandoti ora l’urlo di un pazzo (appunto), ora un pianto… Richiamo che peraltro ti ricordi di aver già sentito come effetto aggiunto a qualche pezzo di qualche disco che hai ascoltato in passato.
I piccoli oggetti che ti colpiscono, insignificanti per molti, per te note caratteristiche e che costituiscono la magia del posto: un piccolo braciere di forma circolare con delle alci intagliate sopra, un’ancora arrugginita, una corda da barca arrotolata attorno a un palo, dei centesimi piantati sugli scalini in cemento che portano al cottage, come portafortuna… Eppoi gli alberi, la foresta, la vegetazione, così imponente, verde, protettiva, che ti sovrasta e che ti incute un certo timore reverenziale.
Il tramonto e la notte, quando il lago rischiara il buio della foresta riflettendo una luna grossissima, perfettamente circolare, con una luce che mi ricorda tanto un notturno di Munch.
Il temporale che ti sorprende la notte: in mezzo al bosco, chiuso dentro il cottage, che sembra lì lì per essere spazzato via da un momento all’altro, con quella pioggia fortissima e quei lampi che si scaricano nello specchio d’acqua (non neghi di aver avuto anche paura alle volte).
La mattina, con il fresco notturno che ancora non ha ceduto il passo al caldo estivo, leggersi un libro sullo sciamanesimo ascoltando la propria musica seduti di fronte al lago: raramente ho provato sensazioni di pace così intense ed appaganti.
Il fermarsi con la barca in mezzo al lago per rintracciare una cascata da visitare in mezzo al bosco: dato che è nascosta dalla foresta devi solo stare zitto ed ascoltare, sentire da dove proviene lo scroscio dell’acqua. Della serie, usiamo tutti i sensi visto che ce li abbiamo.
Purtroppo è durato tutto fin troppo poco, ma nelle immagini, nella musica, nei sensi, il Canada è sempre lì, ben impresso nei miei occhi e sulla mia pelle.
I Lux Interna sono una band di San Francisco facente parte del rooster della Pesanta Urfolk: chi già conosce questa etichetta può forse immaginarsi già le connotazioni geografiche ed artistiche seguite dal combo. I nostri suonano quello che a tutti gli effetti potrebbe essere incasellato nel Neofolk di matrice USA (c’è chi lo chiama Folk Apocalittico, ma non so, sinceramente non conosco la differenza tra i due generi). Nel loro ultimo “There is Light in the Body, There is Blood in the Sun” I nostril uniscono alla classica strumentazione acustica anche partiture elettriche, un po’ di effettistica qua e là e inserti suonati da strumenti “tipici” della cultura delle First Nations (i nativi americani, pare che ora la terminologia giusta sia questa). I loro pezzi hanno un ché di rituale, di purificatorio, sebbene siano venati da una certa oscurità di fondo che è rintracciabile, se spogliati dal black metal, anche in band come Alda, Wolves in The Throne Room e simili (quindi comunque gruppi “cascadiani”, della zona del Pacific North West). Da un punto di vista delle sensazioni comunicate i Nostri puntano a coinvolgere l’ascoltatore facendo leva non tanto sull’aggressività ma sulla ritualità, sulla ripetizione continua di strutture e voci, portando a casa un risultato molto simile a quello ottenuto dalle band sopra citate, e appagando l’ascoltatore donandogli un senso di pace e di unione con la natura. Molto del merito va alla sezione ritmica e alla voce del cantante, che molto mi ha ricordato il Lanegan di “Bubblegum”, il Cave delle “Murder Ballads” e, a sprazzi, anche il Lou Reed di “Venus in Furs”.
Se siete amanti del black metal “cascadiano” e ricercate le stesse sensazioni sotto un’altra veste i Lux Interna sono senza dubbio una scelta validissima da tenere in gran considerazione.

Tongues

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giovedì 8 agosto 2013

Sisifo

Eppoi boh, ti sposi.
Come Sisifo ti trovi con un sasso gigantesco da spingere su per un monte, solo che a differenza sua quando sei in cima il masso non torna indietro ma, con un soffio, rotola giù dall'altro lato come una bellezza, con una leggiadria, armonia e velocità che, dato quanto ci hai messo a farlo arrivare lassù un cima, non gli avresti mai attribuito.
Cominci la mattina (dopo una notte mezza insonne per via del tuo vecchio letto, a casa dei tuoi, sul quale non dormivi da cinque anni e al quale non eri più abituato) lavando la macchina e pulendola ben bene, poi doccia e via in città per un "brunch" (chiamiamolo così via) con dei buoni amici, una "colazione" alle 11:00 a base di frittate, affettati vari, sott'oli, vino rosso, seguita da un bell'ammazzacaffè (rigorosamente senza caffè), il tutto fatto per darti una bella carica... Al punto che quando torni a casa ti butti sul letto e dormi!
Poi inizia a venirti a trovare un po' di gente, aumenta l'ansia, inizi a vestirti (e a sudare, con tutti quegli strati di roba addosso) e finalmente sali in macchina e parti, direzione chiesa. Nelle casse un po' di black metal: mamma, nonna, sopportatemi via, è la mia festa. Arrivato alla chiesa millemila persone ti salutano, qualcuno già commosso, qualcuno ancora ammaccato per il brunch mattutino, ma in generale sei felice di averli lì. Eppoi, entri in chiesa. E aspetti. E aspetti. Minuti che paiono ore, con questa sposa che non arriva. Che poi, mica ha fatto tanto ritardo, solo venti minuti, ma in quel momento vorresti solo che arrivasse e magari che tutto finisse veloce: perché ancora non ci sei dentro alla festa, non te la stai godendo.
Poi arriva, tesa come una corda di violino ma visibilmente emozionata, accompagnata da suo babbo che è colto da una risarella che in otto anni non gli avevo mai visto. Ho soltanto vaghi ricordi di quel momento: il suo fantastico vestito (corto!), i fiori in testa (niente velo quindi, proprio come volevo io), il ciuffo sull'occhio, gli occhi lucidi, le lentiggini, il bacio sulla fronte... Eppoi si comincia con la messa.



Via via che passano i minuti la tensione si scioglie, poi mi ci metto anche io a sdrammatizzare senza volerlo, incartandomi in più di una circostanza sfiorando paradossalmente la bestemmia, per cui davvero, nemmeno ti ricordi di aver desiderato che tutto finisse in fretta.



Poi la fuga in macchina per le foto da soli, l'arrivo al ristorante, le chiacchiere passando di tavolo in tavolo, l'ottima cena, le strullate post cena, quando siamo rimasti in pochi, solo con gli amici più intimi... Avrei preferito che ci fosse stata più gente alla fine, ma va bene così, chi contava c'era. E anche chi non c'era, e non aveva potuto esserci, era come se ci fosse stato.
Mi chiedono che si prova a essere sposati. Boh! Credo niente di diverso da quello che provavo prima, "un anello in più" dico io, ma questo perché convivevamo già da qualche anno... Eppure qualcosa c'è, che non si dice alla gente magari perché ci si vergogna: la cosa ci ha unito. Ma non nel senso di contratto di fronte a un qualche dio o alla legge, ma nel senso di primo grosso sforzo che facciamo assieme, unendo le forze per raggiungere uno scopo, e in questo senso forse sta la vera unione.
Due giorni dopo, viaggio di nozze. Parti per un posto che da tempo stava nella tua personale top three, da qualche settimana ormai non vedevi l'ora di essere lì in Canada, in mezzo ai boschi, e per fortuna il filmino che ti eri fatto si è tramutato in realtà. A mattina presto nel cottage, quando tutti dormono, in mezzo al nulla con solo il lago davanti, cuffie negli orecchi e la tua musica come colonna sonora perfetta per quel momento, e una macchina fotografica che ti accompagna in brevi escursioni alla ricerca di piccoli dettagli da immortalare, animato da un intenso panismo che non aspettava altro per uscire.










Siamo stati bene lì in Canada, tra boschi e città, tra inglesi e francesi, sempre in bilico tra una cosa e l'altra, eravamo comunque insieme, e quindi a casa, e questo ci (mi) bastava.
Al rientro dal viaggio mi sono subito detto: "ora mi metto al pc e scrivo un bel post su questo matrimonio e su questo viaggio, lo ripieno di foto e musica, sarà una cosa lunghissima!"... Eppoi a conti fatti ecco cosa ho scritto, e non so se essere deluso o meno: insomma, mi ero immaginato un panegirico senza fine e quello che ne è venuto fuori è semplicemente un flusso di pensieri sconclusionati. Ma poi mi fermo un attimo e mi rendo conto che è impossibile stare a scrivere quanto accaduto in questi giorni, c'è troppa vita dentro, troppa emozione, e non sono in grado di tradurre il tutto in parole.
Non dirò mai "sono felice", ma di certo posso affermare, adesso, che sto bene, e detto da me non è poco. E questo sbrilluccicare della fede quando batto le dita sulla tastiera mi piace davvero molto, lo ammetto, mi ricorda degli occhi lucidi che ho visto quasi un mesetto fa, un po' più tardi di quest'ora, in mezzo a sussurri di gente, qualche risata, e odore di frutta fresca misto a un bel freschetto che solo una cripta vecchia vecchia sa dare.



In the Wake of an Iron Wind
Yearn
Republic of Heaven
Soaring Into Earth
Panorama of Mirrors
Ancient Ones
A Night that Ends, as all Night End, when the Sun Rises
Reaffirmation
Carved in Stone