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venerdì 20 settembre 2013

Sopravvissuti


Quando hai a che fare con un male che vedi, riesci a combatterlo, al più ad evitarlo... Ma quando non lo vedi cosa puoi fare se non temerlo e fuggirlo? Quando le spore iniziarono a diffondersi nell'aria nessuno riusciva a vederle, potevi solo renderti conto delle conseguenze: gente rabbiosa, impazzita, con gli occhi rossi fuoco che brillavano nella notte come tizzoni, bestie che si muovevano a scatti, che si lanciavano accecati dalla follia contro i poveri sopravvissuti, che nella migliore delle ipotesi morivano massacrati o divorati, nella peggiore... Beh, diventavano anche loro infetti.
Dall'inizio del contagio, dell'iniziale diffusione delle spore (prima) e del proliferare dell'infezione (poi) erano ormai passati mesi: le forze dell'ordine avevano optato per radere al suole parti intere di città ghettizzando i pochi sopravvissuti, nel vano tentativo di estirpare la malattia, che ormai si era già impossessata di tutti, e non c'era modo di arginarla. "Siamo già morti", continuava a ripetersi la ragazza, "solo che siamo ancora troppo stupidi per non capirlo". Eppure lei era diversa, era sì stata infettata, ma non si era trasformata come gli altri, l'infezione non aveva proliferato all'interno del suo corpo ma era rimasta lì, arginata in quel piccolo lembo di pelle del braccio, una specie di bruciatura, nulla di più. Qualcuno addirittura, tra i superstiti, credeva che lei fosse portatrice sana dell'infezione, una sorta di vaccino che in teoria avrebbe potuto aiutare l'umanità, se solo fosse stato estratto nei modi più opportuni. Di fatto questo era il motivo per cui stava attraversando il nord America con quell'uomo che aveva conosciuto solo poche settimane prima: così ombroso e misterioso, così solitario eppure stranamente legato a lei, lui la stava tenendo stretta a sé come si trattiene una piccola fiamma affinché non si spenga in una notte di tempesta, la considerava, davvero, l'incarnazione della speranza, e un'ancora di salvezza dalla follia e dalla paura, un'isola in mezzo a un mare di orrore.
Aveva cominciato a fidarsi di quell'uomo, si affezionava a lui ogni giorno di più, era quasi il padre che lei aveva perduto (e con ogni probabilità anche lui vedeva in lei la figlia morta ormai da diverso tempo).
Le stagioni passavano seguendo il loro corso, e al bel sole d'estate sembrava non importare nulla che sotto di lui la gente si scannava e si strappava la vita a vicenda... E il cinguettio degli uccelli non si interrompeva quando ad esso si sovrapponevano le urla di qualcuno che stava morendo o le grida lancinanti di qualche infetto. I due camminavano attraverso scheletri di città un tempo ricche e vive, si muovevano come spettri che non riconoscono più le loro dimore, e gli incontri che facevano con persone non ostili, superstiti come loro, finivano sempre con lo strappargli un pezzo in più di cuore e di anima: non facevano in tempo a conoscere qualcuno che questi o li tradiva, o si separava da loro per seguire altre strade, o semplicemente moriva. Insomma, si sentivano un po' gli ultimi rimasti, ma non perdevano la speranza ed andavano avanti.
Poi un giorno successe qualcosa di brutto, successe che l'uomo dovette scegliere se sacrificare la ragazza nel nome di una (possibile?) salvezza dell'umanità, o sacrificare l'umanità nel nome del profondo attaccamento che provava verso la ragazza, ormai divenuta sua figlia. E' vero, anche l'uomo pensava che in fondo erano tutti già morti, ma in quel momento pensò che in fondo non gliene sarebbe poi importato molto se l'umanità continuava a tagliarsi le gambe e si squartava con le proprie mani: lui la sua felicità l'aveva ritrovata, e probabilmente anche la ragazza provava lo stesso, erano di fatto un po' meno morti degli altri, e ciò bastava per (soprav)vivere un po' meglio.
Strana creatura questi Thränenkind. Tedeschi, tra le loro fila militano persone che compaiono anche in band come Heretoir, Agrypnie e Bonjour Tristesse (e chi conosce questi gruppi sa che il loro genere fa capo al post black metal tanto in auge ultimamente). Eppure i Nostri non si limitano a svolgere il compitino mettendo sul piatto solo una riproposizione dei gruppi citati, ma aggiungono elementi provenienti ora dal depressive (rock e metal), ora dal (post)hardcore e dal post rock, creando un'interessante soluzione musicale che, se al primo colpo riesce a fare buona impressione sull'ascoltatore c'è il "rischio" che cresca di gradimento sempre più, con il passare degli ascolti.
"The Elk" è un disco appassionante, emotivamente molto intenso, non annichilente ma, all'opposto, a tratti quasi carico di speranza, nel quale si tratteggia in bianco e nero la storia di un viaggio di due fratelli che devono prendere parte al funerale del loro padre, un viaggio che sembra essere quasi più mentale che fisico, una sorta di climax che sembra condurli dalla sofferenza e disperazione che permeano le prime parti del lavoro ad un senso di libertà e di sollievo. Da molte parti si critica l'uso delle voci nell'album, molti ritengono che la prova vocale fornita dal cantante non sia adatta alle canzoni, ma vorrei spezzare una lancia in suo favore. Il cantato è uno scream che si muove bene sia nelle parti più black che in quelle più "melodiche", derivanti direttamente dal post rock o dal post hardcore, magari non raggiunge vette di espressività e dinamismo, ma svolge il suo lavoro in maniera impeccabile, facendo da ponte tra parti dove riecheggiano ora i Katatonia degli ultimi anni Novanta/primi Duemila, ora band come Lantlos e Amesoeurs, ora gruppi come Fall Of Efrafa o The Elijah, infine addirittura gli Explosions in The Sky ed il post rock più intimo e acustico.
E' molto difficile insomma capire dove inserire i Thränenkind, non è molto immediato pensare ad un gruppo che unisca influenze provenienti dalle band sopra citate, ma alla luce di questa curiosa ed intrigante proposta mi sento di consigliare senza mezze misure questo disco, ritenendolo meritevole di molte più attenzioni di quante in realtà stia ricevendo.

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