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lunedì 6 febbraio 2012

Vale



Un giorno rientravo dall'università, e come ero solito fare avevo lasciato la macchina dall'altro lato del centro, così da godermi una mezz'oretta di passeggiata in città. Ero quasi arrivato al luogo dove avevo parcheggiato, che si trovava vicino a casa di un mio caro amico, un mio ex compagno di classe che continuavo a frequentare anche dopo la fine della scuola, le cuffie nelle orecchie, e non ricordo quale musica a accompagnare i miei passi. Suona il cellulare, è un sms proprio di questo mio amico, che mi dice: “ascoltati i Sigur Rós, li sto ascoltando proprio adesso, secondo me potrebbero piacerti!
Presa la macchina tornai velocemente verso il centro, e posteggiata momentaneamente l'auto feci un salto nell'allora mio negozio di dischi preferito, alla ricerca di qualcosa del gruppo suggeritomi. Mi fidavo del mio amico, al punto tale che non ascoltai nemmeno ciò che stavo per prendere, ma lo acquistai così, a scatola chiusa. Quello che mi trovai tra le mani mi sorprese e non poco, e fu l'inizio di un vero e proprio viaggio, che puntualmente si ripete ogni qualvolta che mi dedico all'ascolto di questo album. Un artwork minimale, con due parentesi sospese in un nulla profondamente bianco, e un booklet che sembrava essere composto da carta velina, con dentro pochi disegni appena accennati, e nient'altro. Una volta messomi all'ascolto del disco, quello che provai ben può essere descritto da queste righe che buttai giù qualche tempo dopo:

“(...) difficile indicare i pezzi più rappresentativi: mai come in questo disco la soggettività (legata al messaggio che ogni traccia comunica all'ascoltatore) vincola anche il giudizio totale. "Untitled 1" è dolce come una carezza fatta da una madre a suo figlio immobile a letto e con la febbre alta, è il bacio tra due persone che si amano e si promettono l'un l'altra per sempre; "Untitled 2" è una passeggiata su una spiaggia invernale in compagnia di persone che non vedevi da tanto e alle quali eri e sarai sempre legato; "Untitled 3" è legata a immagini in bianco e nero che ritraggono un'infanzia nei fatti sbiadita e perduta ma per sempre nella nostra mente; "Untitled 4", riutilizzata in maniera meravigliosa nelle scene finali del film "Vanilla Sky", è il vuoto plastico che si sprigiona nel momento in cui un'anima si diparte dal corpo che la ospitava, e fa il suo ingresso in quelli che in molte rappresentazioni sono i "campi elisi", in altre semplicemente il paradiso, la pace eterna e il sole sempre che ci illumina; "Untitled 5" si ispira forse alle profondità marine, dove ogni suono è ovattato e dilatato all'inverosimile, e dove la vita come la conosciamo noi probabilmente ha significati diversi, addirittura magari non esiste; "Untitled 6", un maestoso e onirico requiem, ricordo di qualcuno che non c'è più se non nei nostri cuori, il cui ricordo scatena emozioni così forti da creare una tensione emotiva sfogabile solo con un pianto liberatorio; "Untitled 7" è l'urlo sofferente di un cuore straziato dal dolore, per una separazione che può essere fisica o mentale; la portentosa "Untitled 8", la più lunga, con il suo finale esplosivo dalle ritmiche tribali oniriche e misteriose, un maelstrom che ci inghiotte e ci travolge lasciandoci estasiati seppur con il cuore lacerato e il fiato spezzato.

A distanza di ormai dieci anni, e con tante cose che sono cambiate, questo disco ha per me sempre gli stessi valori. Ma questo scritto non vuole esserne (solo) un tributo: queste righe vogliono ricordare la persona che mi consigliò, per prima, l'album, che mi fece scoprire questa band. Questa persona c'è ancora, solo che, per una “malattia” che non riesco (e non riusciamo, amici compresi) a capire, se ne sta chiusa in casa, in un volontario isolamento dal mondo. Queste parole forse non gli arriveranno mai, ma mi fa stare meglio il pensare che, dopo tutti questi anni, finalmente sono riuscito a ringraziarlo per il dono che mi ha fatto.

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