Non è mai facile salutare un Dojo,
anche perché non è solo un semplice edificio, spesso (e nella
migliore delle ipotesi) è un mondo a sé, una dimensione diversa
dove per un'ora e mezzo, due ore, dialoghi sì con il tuo Maestro e i
tuoi compagni, ma soprattutto lavori su te stesso.
Non è facile perché rappresenta in un
certo senso mesi di lavoro, sudate su un'Arte che ti ha fatto per ora
bestemmiare tanto, ma che qualche soddisfazione te la stava già
regalando.
Non è facile soprattutto perché il
Dojo è fatto di persone, senza il gruppo non ci sarebbe, o meglio,
il gruppo ricrea il Dojo ovunque esso si muova... E stavolta è
proprio questo che mi ha fatto più male, salutare il gruppo, il
Maestro, gli amici. E' vero, ho faticato tanto praticando Wado Ryu,
mi sono dannato l'anima fino all'ultimo per capire le distanze, le
posizioni, gli attacchi... Qualcosa l'ho afferrato alla fine, venendo
da un altro stile la confusione era tanta ma come ha detto il Maestro
stasera stavo inizando a mettere le cose assieme.
Però si sa, ogni tanto si devono fare
delle scelte, e stavolta il seguire il cuore non bastava, perché il
cuore portava in due direzioni diverse e opposte. Mi sono fidato
dell'istinto quindi, dei ricordi, dei movimenti, delle sensazioni, ed
ho deciso di prendere un'altra strada, di salutare, come detto, il
Dojo. Che sia stata una scelta positiva o meno questo ancora non lo
so, e come accade sempre sarà il tempo a farmi capire se ho
sbagliato o meno. Mi lascio alle spalle una bellissima Arte Marziale,
verso la quale non è sbocciato l'amore ma solo fiammate di
sentimento miste a docce fredde... E mi lascio alle spalle delle
persone bellissime, che senza chiedere nulla mi hanno accolto,
integrato nel loro gruppo, reso naturalmente partecipe di tutto, che
hanno saputo apprezzarmi per quello che sono, rispettarmi nei miei
difetti, correggermi ed aiutarmi nei miei errori, e che credo che mi
abbiano voluto bene, sebbene ci conosciamo da un annetto.
Stasera è stata l'ultima lezione, ed i
loro discorsi, i discorsi del Maestro, non sono state frasi fatte,
sono state parole sentite, mi è stato detto che per me la porta è
aperta, e che sperano di riavermi tra loro. Io sono un po' un
ingenuo, lo sono sempre stato, ma ho percepito subito che queste
parole erano vere, che venivano da dentro, che non avevano un secondo
fine ma che volevano trasmettere amicizia, senso di gruppo, lealtà,
comprensione.
Non so se questa esperienza terminerà
con stasera o se avrà un seguito, ma sono certo che, semmai un
giorno dovrò nuovamente varcare quella porta, il Dojo e con lui i
Wado Ryu, il Maestro e gli amici mi riaccoglieranno di nuovo tra
loro, come se fosse passato solo un weekend dall'ultima lezione.
In alcune, rarissime volte, le cose non sono solo materiali, ma trasudano una carica emotiva incredibile, che pare smaterializzarle e renderle più vicine ad un'idea. Così un disco, una scatoletta di plastica con dentro un libriccino ed un cerchietto argenteo sul quale sono state registrate quasi venti (madonna, venti, se ci penso mi prende male) anni fa dieci canzoni, nel momento in cui lo stringi tra le mani non è più un semplice album, diviene impalpabile, incarna tutta l'attesa che hai vissuto nel cercarlo, pazientemente, per più di dieci anni (era infatti il 2002/2003 forse quando entrai in contatto per la prima volta con suddetto lavoro), si trasforma insomma in pura emozione. E quando poi è assolutamente nuovo, la confezione mai scartata da nessuno, come se fosse appena uscito da un negozio, la sensazione di aver raggiunto un traguardo importantissimo, la soddisfazione che ti trasmette quel piccolo oggetto, tutto questo aumenta a dismisura. Come un bambino piccolo la sera di Natale ti senti in fibrillazione, entusiasta di quell'acquisto, e anche se in realtà già conosci a mente quelle canzoni perché le possiedi già in MP3, nel momento in cui inserisci il CD nel lettore è come se suonassero nuove, diverse. E mentre sul disco la pioggia scorre e l'eleganza e la tristezza si fanno musica sfogli il booklet, e ti colpisce subito l'adesivo SIAE vecchio, di quelli bianchi bordati di rosso, ora sostituiti da quelli argentati: quant'era che non ne vedevi uno in un disco ancora incellophanato, che non fosse già tuo o non fosse già passato dalle mani di qualcuno! Quell'adesivo aumenta l'epicità della tua conquista, recando il nome di un'etichetta che sai essere non più attiva e che conoscevi proprio per quell'album, e riportando anche la sigla "Orlando C.", componente del gruppo nonché persona registrata "all'anagrafe" SIAE. Sfogli il booklet dicevo, e con avidità scorri i testi delle canzoni ed i ringraziamenti, che sembrano così naif, scritti da ragazzi che al tempo saranno stati, forse, ventenni, ignari del fatto che di lì a qualche anno avrebbero "rivaleggiato" musicalmente con le band che ringraziavano su quel libretto... Band che hanno condiviso il palco con loro, mostri sacri di una musica alla quale loro si sono avvicinati per poi impadronirsene, farla loro, e restituircela marchiata a fuoco dal loro stile, inconfondibile. Mi hanno chiesto che genere fosse... E chi lo sa! E loro forse lo sapevano? Credo che suonassero con il cuore, incuranti delle etichette: da bravi romani scazzoni credo se ne siano fregati di tutto e di tutti, buttando giù tutto ciò che il cuore comunicava loro. Nella loro storia, finanche in ogni loro singolo pezzo, sono passati dal doom al black al gothic al death al prog, con un fil rouge sempre ben presente, l'emotività. Hanno sempre saputo toccare il cuore dell'ascoltatore, ora con scream lancinanti, ora con un cantato tecnicamente imperfetto, ma incredibilmente adatto alla situazione: non ti sapresti immaginare una voce diversa su quei pezzi. Supportati da linee melodiche che sapevano passare dall'elegante e raffinato all'abrasivo e feroce, e da una sezione ritmica gestita da quello che credo sia il miglior batterista italiano in campo metal (e tra i migliori a livello mondiale), il Nostro era un gruppo perfetto, ancora in divenire su quel disco, ma con un futuro che si sarebbe fatto dorato di lì a poco. E quel senso di speranza, quella forza in divenire, è ben presente nel disco che tengo in mano adesso, anche se le emozioni che vuole comunicare con i suoi testi sono ben diversi. Un'atmosfera piovigginosa, uggiosa, da camera, perfettamente veicolata da quella foto in copertina e dall'incipit del primo brano... Per queste e tante altre ragioni, anche più legate all'ambito tecnico (la qualità del suono e delle canzoni, il modo in cui sono state interpretate, ecc) questo disco è sempre stato per me una chimera, un lavoro che, sebbene come detto lo avessi ascoltato più e più volte, rimaneva ancora intangibile ed inafferrabile... E oggi ho capito perché, perché non vuole, almeno per me, essere un semplice disco, non chiede una materializzazione in qualcosa di tangibile, vuole rimanere un'idea, o meglio, un'emozione, perché sa che solo così potrà essere davvero legato a chi lo ascolta, solo così potrà essere sempre ricordato e soprattutto desiderato, e non abbandonato come alla fine accade per la maggior parte dei dischi.
Nota a margine: il disco in questione è "Arte Novecento" dei romani Novembre, che scoprii una sera su internet mentre cercavo su un forum di tablature per basso un qualche gruppo dai connotati generalmente "dark"... Mi furono indicati da qualcuno sicuramente non italiano, pensa tu che giro largo! Non riuscendo a recuperare in alcun modo il disco (al tempo i canali shopping online per me erano ancora perlopiù inesplorati) me lo feci scaricare da un amico, e stampai io stesso una copertina in bianco e nero, quella sì, fedele il più possibile all'originale. Il disco, edito dalla Polyphemus Records (etichetta siciliana ora non più esistente) è stato per me una chimera, come detto: ogni tanto mi rimettevo a cercarlo, ma inutilmente, o non esisteva, o nessuno lo vendeva, o se era in vendita aveva un prezzo esorbitante. Poi qualche giorno fa lo ritrovo, e con poche decine di euro e due giorni di attesa me lo ritrovo sulla scrivania, impacchettato nuovo fiammante, speditomi da quello che, secondo me, era il proprietario dell'etichetta. Un'altra favola d'amore a lieto fine...
"...e un bel giorno venne lei "Ho delle caramelle", disse. Fu oro e sole. Poi se ne andò nel diluvio Per sempre..."
Aveva assistito decine di volte a quei viaggi, ma non ne aveva mai preso parte: eppure, anche solo da spettatore, era sempre riuscito a carpire un'infinitesima parte di ciò che invece provava ogni volta suo nonno, sciamano del villaggio sulle rive del lago Tahoe. Stavolta però era diverso, stavolta toccava a lui, si trattava del suo primo viaggio, della sua iniziazione.
Qualche ora prima del rito Kiche aveva masticato le foglie di patata selvatica: una dose piccola, dato che un grammo in più gli avrebbe provocato nausea e blocco respiratorio, ma sufficiente a metterlo in condizione di viaggiare in uno stato di sonno vigile (o di veglia sonnacchiosa, come gli piaceva dire ispirandosi forse al comportamento sonnacchioso degli orsi in estate).
Entrato nella capanna c'era un odore intenso di spezie e di erbe tritate e bruciate (sapeva che anche quelle erano ingrediente fondamentale per la sua esperienza): vide subito il letto, un giaciglio di paglicci e rami, e il suo nonno lì accanto, che lo accolse con un sorriso sdentato, il volto devastato dal freddo, dal sole e dalle rughe. Senza una parola gli fece cenno di sdraiarsi, e passandogli una mano sulla fronte lo invitò a chiudere gli occhi. Poi gli mise in mano un capo di una corda, dicendogli di tirarla con forza in caso qualunque cosa avesse visto, sentito o provato "là" potesse costituire un pericolo per lui, tranquillizzandolo sul fatto che lo avrebbe tirato via lui (solo stavolta però, avrebbe dovuto presto imparare a camminare da solo).
Sapeva già come il viaggio sarebbe iniziato, glielo avevano descritto più volte: fuori della "sua" grotta, dentro la quale stava il "suo" animale guida, che avrebbe dovuto conoscere dato che sarebbe stato il suo compagno nei viaggi a venire, fine alla fine dei suoi tempi. E così andò, si ritrovò in una radura verdissima, ma più che una grotta scavata nella roccia pareva essere ricavata da un'enorme parete di ghiaccio: al tatto il freddo intenso si irradiava immediatamente per tutto il corpo, lasciando poi gli arti formicolanti. Si addentrò al suo interno, e la luce del sole che filtrava attraverso l'ingresso si fece di colpo azzurrastra, passando attraverso le pareti semitrasparenti. Poi, di colpo, in penombra, lo vide, il cavallo più grande che avesse mai visto. Grigio, possente, muscoloso, gli occhi rosso sangue, una calma incredibile che lasciava intravedere tutta la sua potenza e forza. Il cavallo lo fissava, e i suoi occhi gli fecero gelare il sangue nelle vene, al punto da chiedersi se non si fosse sbagliato, e se quell'essere, così imponente, potesse essere davvero la sua guida, il compagno di un ragazzo tutto sommato gracile, e per sua ammissione nemmeno tanto coraggioso. Poi fu un lampo, in due battiti di ciglia il cavallo non solo si era avvicinato a lui, ma addirittura aveva fatto in modo di farsi cavalcare, senza che Kiche potesse rendersi conto di niente. Poi fu l'inferno.
L'aria da gelida che era si fece incandescente, la grotta iniziò a crollare sciogliendosi come burro sul fuoco, il terreno si squagliò in lava incandescente. Il ragazzo ebbe un sussulto, stava per tirare la corda quando si accorse che il suo cavallo non solo stava volando (cosa di per sé sconvolgente), ma non si sa come aveva anche otto zampe, che galoppavano sopra la lava senza toccarla, seguendo una strada immaginaria lungo fiumi sotterranei incandescenti e grotte venate da riverberi porpora e azzurri. Kiche aveva paura, pensava di morire, ma il cavallo gli comunicava tranquillità, sapeva che non gli sarebbe potuto accadere nulla finché se ne stava aggrappato alla sua criniera. Poi però una scossa più forte delle altre lo sbalzò: perse il contatto con il crine, e un istante prima di toccare la lava tirò con tutta la sua forza e chiuse gli occhi, mentre già sentiva la sua pelle bruciare.
Quando li riaprì era di nuovo nel suo letto, madido di sudore, con vicino il nonno che lo riaccolse con lo stesso sorriso. Kiche tirò un sospiro di sollievo, poi però si ricordò di aver trascorso solo pochi istanti con il cavallo: e se non fossero bastati a stringere con lui il patto? E se avesse dovuto rifare tutto da capo? Terrorizzato guardò il nonno, nella speranza di una risposta, che arrivò: il nonno gli indicò la sua mano, che era ancora stretta in un pugno di tensione. La aprì, e dentro nascondeva dei crini argentei, che brillarono non appena i suoi occhi vi si posarono sopra, per poi sparire nel nulla. Allora il ragazzo capì che il patto era stato siglato, e nel momento stesso in cui arrivò a questa conclusione un nitrito riecheggiò nella vallata, il nitrito più imponente che avesse mai sentito.
Il quinto album è la gemma della discografia dei Flight Of Sleipnir. Il duo del Colorado release dopo release è stato in grado di affinare la sua unica miscela a base di doom epico, black metal atmosferico, psichedelia, folk e stoner, e questo "V" costituisce la loro consacrazione. In esso tutte le componenti sono perfettamente bilanciate, tutte contribuiscono alla perfetta riuscita di ogni brano, in cui si alternano gelidi scream ad armonizzazioni vocali che, al pari di alcune parentesi chitarristiche, proiettano l'ascoltatore direttamente nella psichedelia sessantiana. Fa da sfondo a tutto il doom fiero e cadenzato che ben si sposa con le tematiche mitologiche norrene trattate nei testi e che sfocia senza soluzione di continuità in fumate stoner talvolta ai limiti del drone (spesso ho sentito dei richiami addirittura agli Angelic Process).
Come già detto si tratta forse del capolavoro nella discografia dei Nostri, che solo con questo "V" hanno raggiunto equilibrio ed eleganza nelle loro composizioni, ed anche se ad un primo ascolto i pezzi non risultano così "easy listening" a causa della loro durata e delle loro strutture sfaccettate, è con il tempo che il lavoro cresce in qualità, stregando ogni volta di più l'ascoltatore.
Il 2014 è stato un anno per me un po' strano musicalmente: la riscoperta di dischi usciti in anni passati da una parte (alcuni per altro anche notevoli, al punto da inserirli tra i miei ascolti preferiti), ed una strana apatia che mi sono strascinato per gli ultimi mesi dell'anno dall'altra (apatia che mi ha portato a non apprezzare molti lavori che mi apprestavo ad ascoltare) hanno generato una lista tutto sommato esigua. Da aggiungere che: 1) devo ancora ascoltare diversi album molto promettenti, alcuni dei quali usciti proprio in queste settimane, per cui la lista potrebbe essere più lunga; 2) alcuni lavori, che attendevo con ansia e che ero certo, prima di ascoltarli, che sarebbero finiti su questa lista, in realtà mi hanno deluso per alcuni motivi, per cui non li ho ovviamente inclusi. Ci sono state comunque anche alcune conferme, gruppi che non hanno tradito le mie aspettative confezionando album che sono di diritto entrati a far parte dell'elenco dei "best of". Detto ciò, questi sono i dischi che più mi hanno colpito in questi dodici mesi quasi terminati:
Damien Rice - "My Favourite Faded Fantasy" Separatosi (solo musicalmente?) da Lisa Hannigan il Nostro ci regala il classico suo disco: pensoso, piovigginoso, piagnone, malinconico e con qualche sferzata elettrica... Insomma, il classico disco à la Damien Rice, che non sorprende più ormai ma che sa regalare comunque momenti di intimità e di calda malinconia.
Harakiri For The Sky - "Aokigahara" Gran bella sorpresa in campo post black metal. Conoscevo i Nostri già dall'omonimo EP, che però non mi aveva molto colpito non riuscendo a discostarsi molto da canoni standard del genere. In questo lavoro invece gli HFTS sembrano aver imbeccato una propria individualità, fatta di melodia, aggressività e potenza. Ripetendo quanto scritto in un altro post, "(...) prendendo spunto dall’ariosità dei Deafheaven, dal senso melodico intriso di malinconia dei Thränenkind, e aggiungendo al tutto una buona dose di personalità. Se proprio dobbiamo trovargli un difetto questo si può riscontrare forse nel cantato, uno scream rabbioso che alla lunga però può stancare e sembrare monotono, rimbombando un po’ nelle orecchie dell’ascoltatore quando si sta per toccare gli ultimi pezzi del disco, ma è un dettaglio minore e fortemente legato alla soggettività." Notevole la cover di "Mad World".
Old Graves - "Like Straining Boughs" Canadese, la mente dietro al progetto Old Graves ci regala un disco dal sapore vagamente "cascadiano", anche se qui i rimandi sono più verso un blackgaze di stampo naturalistico (dove in genere le ambientazioni sono più "cittadine")... Qualcuno ha parlato di "Agalloch meets Woods of Desolation", e direi che tutto sommato ci siamo: il gusto della melodia e dell'acustico agallochiano si fonda con i muri depressive/shoegaze dei WOD, creando un connubio vincente, affascinante ed appagante per tutta la sua durata. Trattandosi di un EP (anche se un po' più lungo dei canonici EP), li attendo al varco del primo LP!
The Flight Of Sleipnir - "V" Eccomi di nuovo a parlare di questa strana creatura ibrida tra stoner, doom, folk e black metal. Stavolta i Nostri sembrano essere più ispirati del solito, regalandoci un disco ammaliante e coinvolgente dall'inizio alla fine. In particolare pare che i FOS abbiano stavolta deciso di approfondire il versante heavy della loro proposta (mentre nel precedente "Saga" i toni sembravano essere più calmi e folkeggianti), creando veri e propri muri di distorsioni acide ed epiche, ora liquide e pinkfloydeggianti, ora roboanti e travolgenti. La produzione infine ha qualcosa di old style, sa di analogico e di vinile, è calda e pastosa, e non fa che aumentare il fascino di questo lavoro.
Ghost Brigade - "One With The Storm" La terza conferma di questa lista, la brigata fantasma torna con un nuovo lavoro che tenta di prendere un po' le distanze dai precedenti dischi del gruppo. Non che ci siano grosse variazioni nello stile della band, sia chiaro: i Nostri sono sempre riconoscibilissimi tra mille, ma cercano di essere meno scontati, tentando di arginare quel sapore di già sentito e di prevedibilità che si cominciava ad avvertire nelle loro produzioni. Ne consegue che non sempre le strutture canoniche sono rispettate, per cui ad esempio ad un crescendo strumentale in clean potrebbe non seguire un'esplosione di rabbia in growl come i Nostri ci hanno abituato, rimescolando quindi le carte in tavola e mettendo un po' di verve nel loro lavoro. Ripeto, nulla di nuovo, ma pare che anche i GB si siano resi conto che qualcosa andava cambiato, ed hanno iniziato ad intraprendere questa strada.
Come anticipato ci sono poi alcuni lavori che sono in attesa di essere ascoltati, potenzialmente ottimi concorrenti per questa lista, che possono essere citati al momento solo a parte, in attesa di un ascolto approfondito e, magari, uno "slittamento" nel paragrafo sopra:
Earth and Pillars - "Earth I" Fen - "Carrion Skies" Immorior - "Herbstmär" Lotus Thief - "Rervm" More Than Life - "What’s Left Of Me" Barrowlands - "Thane" Cuckoo's Nest - "Everything Is Not As It Was" Redwood Hill - "Collider"
Infine le delusioni, quei dischi sulla carta detentori di un posto nell'elenco ma che in realtà mi hanno un po' tradito:
Saor - "Aura" Credo si sia trattato di una cattiva produzione su CD, con volumi della batteria per il mio parere altissimi che nascondevano la voce e gli altri strumenti, rimbombando e creando un effetto un po' caotico. I pezzi di per sé possono anche non essere brutti (certo non al pari di "Roots"!) ma questo difetto non me li ha fatti piacere e mi ha distratto molto durante l'ascolto;
Falls Of Rauros - "Believe in No Coming Shore" Ho trovato il disco un po' confusionario, pretenzioso e lontano dalle precedenti produzioni dei nostri, a mio avviso più sanguigne e vere;
Panopticon - "Roads To The North" Anche qui, arruffìo, confusione e voglia di strafare: niente da fare, questo gruppo non riesce a piacermi;
I Love You But I've Chosen Darkness - "Dust" Li ho attesi molto, quando ho letto dell'uscita del seguito del favoloso "Fear Is On Our Side" non ho creduto alle mie orecchie, e quando l'ho ascoltato mi ha lasciato un po' di amaro in bocca: il disco parte molto bene, con alcuni pezzi davvero tirati ed epici, ma poi non so come si perde per strada, per non ritrovarsi più. Anche il predecessore subiva una flessione sulla metà ma si sapeva poi riprendere (e come!) ma in questo lavoro pare manchi qualcosa. La ciliegina sulla torta? Il fatto che sia prevista solo una versione in vinile... Buuuuuuuuuuu!
Agalloch - "The Serpent & the Sphere" ...e qui casca l'asino. Sì perché mi ha fatto una sensazione stranissima non apprezzare l'ultimo lavoro dei maestri di Portland, ma non c'è modo di farmelo piacere. La sensazione che ho avuto di confusione, di collage di pezzi rubati ad altre loro canzoni, di disco poco ispirato, continua a ripresentarsi anche dopo svariati ascolti. I pezzi interessanti ci sono ma non hanno mordente, sembra che i Nostri abbiano intrapreso un fare filosofico un po' troppo pretenzioso e musicalmente avanguardista, che ha perso quell'odore di bosco durante un temporale che si erano invece portati dietro fino almeno a "Marrow of the Spirit" incluso. Restano sempre tra i miei preferiti, ma stavolta non possono stare tra i migliori dell'anno.
Insomma, non è stata una bellissima annata: tante uscite, poche (per me) all'altezza, ma anche alcune ottime scoperte riguardanti dischi usciti negli anni passati, che alla fine mi hanno permesso di aggiungere almeno una decina di lavori al mio bagaglio di opere imprescindibili o quasi.
L'aria era fresca, non fredda, sebbene fossimo a gennaio: merito forse del mare, che vicino com'è alla città in qualche modo ne mitiga la temperatura. Decidiamo di fare una cosa diversa, e di spostarci con l'autobus proprio verso il mare, verso la spiaggia della città, verso Portobello. Sono malato me ne rendo conto, ma tutto in questa città mi affascina e mi strega, ed il fatto di avere nello stesso posto highlands, laghi, luoghi storici incantevoli, una cultura incredibile ed una spiaggia mi aveva messo in uno stato di febbrile eccitazione sin dal risveglio.
Man mano che ci avviciniamo a destinazione l'ambiente cambia: case più colorate e più basse, un'atmosfera quasi più da villaggio della Cornovaglia che da capitale della Scozia, insegne e negozi che sembrano usciti dagli anni Cinquanta. Scesi dall'autobus una pioggerellina leggera ci accoglie, ma ci siamo abituati, e pochi passi dopo eccoci di fronte al mare: qui tutto è perfetto, mi sembra di vivere una scena di "Eternal Sunshine Of The Spotless Mind". Nonostante la pioggia ci sono bambini che, in piumino, giocano scalzi sulla sabbia, e con le loro palette vanno a raccogliere la sabbia bagnata dalle onde per poi riportarla indietro e farci castelli, il tutto sotto gli occhi dei genitori che parlano con in mano immancabili bicchieroni di caffè.
Poco più in là i cani giocano sulla sabbia, si rincorrono e rincorrono i giochi lanciati dai loro padroni. L'aria è frizzante ma il tempo sembra fermo, fissato in una foto che posso vivere, in cui tutto sembra essere al suo posto, e quel baracchino che vende cioccolata calda sul lungomare ha il fascino di una scoperta che non ti aspettavi, e che sembra essere lì apposta per te, per farti commuovere di fronte a tanto stare bene.
Di fatto non succede nulla, te ne stai seduto su uno sgabello con la tua ragazza, sorseggiando una cioccolata calda, giocherellando con i marshmallows che ti ci hanno messo, e conversando con gli affabili proprietari del chiosco, con intorno solo il suono del mare, il vociare dei bambini ed i cani che abbaiano, ma è tutto ciò di cui hai bisogno per stare bene. Ed è bello quando sono le piccole cose a darti felicità e a farti sorridere, ed è ancora più bello quando, a distanza di quasi un anno, riesci a rivivere quelle stesse sensazioni come se tu fossi ancora lì, e le senti al punto tale da farti quasi piangere per la gioia e per la nostalgia.
"We are a band from Glasgow, Scotland, and we enjoy making music." Così, semplicemente, i There Will Be Fireworks (da ora in poi TWBF) si presentano a chi si avvicina a loro. Li ho conosciuti per via della loro etichetta, di base ad Edimburgo, ma appena mi sono apprestato ad ascoltare "The Dark Dark Bright" per la prima volta mi sono subito innamorato di questo gruppo. I Nostri propongono un genere avvicinabile, generalizzando, al post rock: frequenti sono i climax emozionali, che partono da semplici arpeggi acustici o da un crescendo basso-batteria per poi esplodere in una corale travolgente e sbalorditiva in quanto a impatto sull'ascoltatore. Nei pezzi che compongono questo disco sento note di Explosions in the Sky, ma anche di Damien Rice (la consolatoria delicatezza dell'irlandese è ben presente anche nella voce del cantante di questa band), degli Arcade Fire e dei GY!BE (nell'epicità sinfonica e nei crescendo di alcuni pezzi) e dei Brand New (tanti piccoli richiami a "The Devil and God...").
I TWBF non inventano niente, credo sia chiaro, (anche perché in questo genere cos'altro puoi inventare ancora quando ci sono i Godspeed, per dirne uno a caso?), fanno però una cosa semplice, sanno emozionare. E lo fanno con cose altrettanto semplici e forse scontate, giocano con i ricordi, con i sorrisi e le lacrime, consolano e fanno sorridere, ti mettono a tuo agio, ti fanno pensare e ti tengono compagnia. Insomma, sono come quella cioccolata calda presa sul lungomare di Portobello a Edimburgo lo scorso gennaio: qualcosa di piccolo, insignificante, ma che ogni volta che ci ripensi sa darti calma, sa ricordarti di un momento felice, e, magari, sa farti un po' commuovere.
Un
giorno la Dea Alce prese vita dalle radici di un vecchio albero, troncato dalla
smania umana di costruire sempre nuovi palazzi togliendo spazio vitale alle
foreste. La nebbia si condensò attorno alle foglie marce che riposavano a
terra, che subito al suo passaggio ripresero vita e colore, tingendosi di un
verde lucente ed animandosi come sospinte da un dolce vento; le radici
interrate riemersero, si riannodarono, si alzarono verso il cielo, e da esse si
rigenerò la Dea. Antropomorfa, la testa di Alce, raccolse da terra i teschi di
tre animali che erano stati lasciati lì a morire, avvelenati dagli scarichi
delle fabbriche non troppo lontane, e al suo tocco questi divennero Lupo, Cervo
e Volpe, messaggeri del risveglio della Natura incarnata nel corpo della Dea.
La
Dea li guardò compiaciuta, e solo con lo sguardo i tre animali intesero quale
sarebbe stato il loro compito: i quattro si voltarono verso la città, verso le
luci e le ciminiere, e a passi lenti si avviarono verso l’uomo. Ogni loro passo
era una pianta che nasceva, dove poggiavano piedi o zampe fiori, foglie, frutti
e radici riprendevano vita, e con una folata di vento sputavano verso il cielo
le tossine ed i veleni dei quali si erano nutriti fino a quel momento,
riprendendo così vita e forza. Alle soglie della città la Dea si fermò, poggiò
le mani a terra, e da esse si generarono due scosse che squarciarono in due le
fabbriche che trovarono sulla loro strada, inghiottendo manager in cravatta e
ricchi industriali che, nonostante l’ora tarda, erano rimasti all’interno degli
edifici a contare i loro soldi sporchi di petrolio e veleno. Dai crateri che si
generarono emersero piante radici ed alberi, che continuarono l’opera
avvolgendo con le loro spire tutto ciò che aveva fino a quel momento soffocato
la loro esistenza, riappropriandosi di spazi che erano loro.
Le
persone, impaurite, corsero nelle strade: intorno a loro si stava scatenando
l’apocalisse, e nessuna preghiera o nessuna fede poteva arrestare le loro
paure. Poi il fitto muro creato dagli alberi si aprì, e da essi emerse la Dea
ed i suoi tre emissari. Nessuno osò dire una parola, tra gli uomini c’era chi
si inchinava, chi si metteva a piangere, chi fuggiva, chi annuiva: tutti però
avevano di colpo capito cosa stava succedendo, avevano immediatamente preso
coscienza delle loro colpe che avevano costretto la Natura a riprendersi con la
forza ciò che le era stato preso. L’Alce fissava un punto fisso in mezzo alla
gente, ma era come se ogni persona si sentisse scrutata nella sua anima, nuda
come un verme e messa di fronte alle proprie colpe.
Poi
i tre messaggeri si accucciarono, la Dea alzò le braccia, ed un caldo turbine
di foglie avvolse tutte le persone, nascondendole per qualche attimo: quando la
polvere alzata da questo vento si posò tutti dormivano, e non c’era più traccia
di Lupo, Cervo e Volpe, e anche l’Alce antropomorfa era sparita.
L’alba
ed il sole sorpresero le persone mentre dormivano in terra, acciambellate come
gatti: quando aprirono gli occhi le fabbriche, le case, tutto era lì, dove le
avevano lasciate. Si guardarono negli occhi, e capirono di aver fatto lo stesso
terribile sogno. Poi le porte delle fabbriche si aprirono, ed uscirono i
manager e gli industriali, pallidi, sudati e dagli occhi sgranati, come se
fossero appena tornati dalla terra dei morti: muti, all’unisono, fecero tutti
lo stesso gesto, disattivarono immediatamente i generatori delle loro
fabbriche, e come in trance si sedettero in terra a fissare il cielo,
sbigottiti. Le trivelle si fermarono, le pompe cessarono il loro lavoro e si
arrestò la fitta coltre di fumo che fino a quel momento si era alzata dalle
ciminiere; un fresco vento mattutino diradò il poco fumo che ancora rimaneva
nel cielo.
Poi
tutti quanti, come chiamati da una voce nelle loro teste, camminarono verso il
vicino bosco, raggiungendo una radura: a terra tre teschi di animali, di lupo
di cervo e di volpe, ed una veste bianca da donna appesa ad un ramo di un
vecchio tronco. Gli uomini raccolsero questi oggetti, li sotterrarono nella
radura, pregarono ognuno nella propria lingua e secondo il proprio credo, e se
ne tornarono verso le loro case ancora un po’ confusi, con ben impressi però in
mente gli occhi neri, profondi e tristi di quello strano Alce che, durante il
sogno di quella notte, hanno scrutato nel profondo dei loro cuori.
Enisum,
un moniker particolare che, se letto al contrario, rivela la regione di origine
del gruppo, ossia il Monte Musinè, sulle Alpi Graie, in Val di Susa. La band
(prima un progetto solista, allargato poi ad altri membri) si ispira nemmeno
troppo velatamente alla scena “Cascadian”, ossia quel frangente di black metal
atmosferico di connotazione prettamente USA – North West di cui ormai si sente
molto parlare. Nello specifico, per chi conosce un po’ i gruppi che gravitano
in quella scena, sono chiari i riferimenti in primis agli Alda (soprattutto per
il senso melodico di questo gruppo), ma anche Addaura e Avakr (quando la band
spinge sull’acceleratore); non tirerei in ballo invece Fauna o Wolves in the
Throne Room, non trovando quel senso di tribalità e di “rito” che permea invece
questi due gruppi. Infine, quando i Nostri danno spazio alle sezioni acustiche,
è veramente forte il rimando alle parentesi tipicamente neofolk messe in piede
da molti ensemble cascadiani (gli stessi Alda per esempio, ma anche e
soprattutto gli Agalloch). In generale potrebbe sembrare quindi un gruppo
fortemente derivativo, eppure la loro proposta affascina e cattura l’attenzione
dell’ascoltatore per tutta la durata del disco (circa 45 minuti): lo scream
acido (forse un po’ troppo strozzato, almeno su disco) di Lys (anche chitarra)
si fonde perfettamente con le intelaiature melodiche tessute dalle sei corde,
mentre la sezione ritmica appare preparata, essenziale e molto efficace nella
creazione di crescendo in cui atmosfera e pathos culminano in esplosioni tutto
sommato prevedibili (il genere ormai è stato codificato, c’è poco da fare), ma
non per questo meno piacevoli. Curiosità aggiuntiva, i testi sono in dialetto
locale, con temi trattati che riguardano principalmente il rapporto tra uomo e
natura e la descrizione degli spazi che caratterizzano la Valle di provenienza
del gruppo.
Non
è facile suonare “cascadiano”: sebbene teoricamente semplice questo genere se
messo in pratica può rischiare di risultare finto, artefatto, una copia carbone
di dischi già sentiti. Questo perché, come detto, sono ormai tanti i gruppi che
suonano vantando influenze di questo tipo, e la ricetta è ben conosciuta: unire
un modo di pensare black metal come se si trattasse di post rock a ritmiche ora
fredde e furiose, (come da scuola norvegese), ora più lente, e comunque sempre
alternate a parti più atmosferiche, farcendo il tutto con tematiche incentrate
sulla natura. Gli Enisum seguono alla lettera questo modus operandi ma suonano
veri, potrebbero quasi rivendersi come un gruppo dello stato di Washington o
della British Columbia e nessuno se ne accorgerebbe: questo perché, ad ottime
ed indubbie doti tecniche, uniscono un saper fare musica con il cuore,
traducendo perfettamente in musica le immagini dei posti dai quali provengono.
La
risposta italiana agli Alda quindi? Ancora no, ci sono pur sempre alcune
piccole incertezze che minano il disco, qualche caduta di tono e talvolta dei
momenti un po’ slegati tra loro e meno incisivi, ma in generale la proposta è
ottima, e se avrà la visibilità che si merita (ed il gruppo saprà confermarsi e
migliorarsi) anche il metal italiano potrà vantare un rappresentante della
propria scena “cascadian black metal”, almeno a livello musicale.