Anno strano, direi memorabile questo 2020... Nel senso che difficilmente ce lo scorderemo! La pandemia che ha afflitto il mondo in maniera più o meno grave (a livello globale) e la nascita di mio figlio (a livello personale) già da soli bastano a rendere questi 365 giorni moralmente devastanti, delle montagne russe emozionali uniche, nel bene o nel male. Da un punto di vista musicale non sono molte le uscite che mi hanno colpito: la mancanza di tempo nel dedicarmi alla musica da una parte ed una vaga apatia dall'altra hanno condizionato i miei ascolti, che in maniera forse nostalgica si sono concentrati soprattutto sulla riscoperta di vecchi album che non ascoltavo da molto. Ciò nonostante le uscite degne di nota ci sono state, eccome!
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venerdì 11 dicembre 2020
2020: a (metal) retrospective
giovedì 10 dicembre 2020
Quella maledetta speranza
E' la storia più vecchia del mondo, è "l'amor che move il sole e l'altre stelle", è una vicenda trita e ritrita che quando la senti, descritta dalla bocca degli altri, ti sembra la cosa più scontata di questa terra, ma quando la vivi ti pare quasi che nessuno ti capisca.
Ti ritrovi da solo, immerso nei pensieri, con in mano una sua foto strappicchiata cercando di capire dove hai sbagliato, sommerso da ondate di rabbia, orgoglio e malinconia, e rivivi i tuoi ricordi. Ripensi a quando l'hai conosciuta, a quanto non avresti scommesso niente su quella storia. E invece ci sei cresciuto con quella persona, imparando a conoscerla, ad apprezzarla, ti sei aperto con lei, e lei stessa è sembrata volersi schiudere pian piano. Giorno dopo giorno il calore è aumentato, l'amore cresciuto, le distanze si annullavano quando bastava una telefonata o un messaggio, un "ti amo" sussurrato, ed eri a posto per tutto il giorno.Poi, un giorno, qualcosa cambia: vuoi di più, lei di meno; hai bisogno della sua presenza, ti sembra di percepire i suoi cambi di umore nel passaggio delle nuvole o nella casualità delle cose, senti una paura sotto pelle, senti scivolare via tutto, e provi ad aggrapparti con rabbia a quello che ti rimane. Ma i suoi vestiti si fanno sabbia che si disperde tra le tue mani, le tue parole non sembrano uscire come vorresti, e il sassolino sul pendio perde il suo ultimo grado di equilibrio iniziando così la sua rovinosa caduta a valle. E alla fine, dato che di fine si parla, cosa ti rimane? Ricordi, orgoglio, rammarico per qualcosa che avresti potuto fare diversamente, e rabbia. C'è però, in fondo, ancora un po' di calore, una fiammellina che incurante del vento che ha intorno continua imperterrita a bruciare. E' la speranza, quella maledetta, bastarda speranza che ti fa svegliare ogni mattina. Per recuperare quanto è andato perso? Forse. O forse per ritrovare da altre parti, in altre persone, quelle stesse sensazioni che hai provato e che ti hanno fatto stare bene. Perché alla fine amore, morte, cuori spezzati, tutto fa parte della "mortal way", è tutto un cerchio che, incurante di noi che ci stiamo nel bel mezzo, segue il suo percorso. E tu sai, anzi speri, che alla fine tutto ricomincerà, per poi magari finire di nuovo (chissà!), ma intanto daresti un braccio per rivivere le stesse sensazioni.
Il nuovo lavoro di Chiral è un disco che parla di assenza, di commiati, di parole sussurrate e di vetri infranti da una rabbia cieca. La visione del Nostro si è spostata pian piano dall'esterno all'interno, da una contemplazione di quello che c'è fuori a quello che c'è dentro ognuno di noi, al nostro io. E' un disco intimo e sofferente perché tocca corde sensibili, che tutti abbiamo e alle quali non possiamo rimanere indifferenti. Il black atmosferico, reminiscente degli inizi depressive di Chiral, si fa qui ancora più intenso, imbastardito da momenti post (rock e metal), da suggestioni folk e da drones che qui e là spuntano a straniare l'ascoltatore. E' un disco fatto di binomi, presenza/assenza, amore/odio, gioia/paura, caldo/freddo: ora ti sferza, ora ti accarezza, ti scombussola con riff taglienti così come con nenie dolci e malinconiche. E' un lavoro, questo "Hope", da considerarsi come la fine del trittico composto dai precedenti "Night Sky" e "Gazing Light Eterninty": qui tutto si fonde, si ricongiunge, si tirano le fila del discorso e ci si prepara per quello che sarà.
Ascoltatelo ora, con questa stagione, in casa davanti a un fuoco magari, e pensate a quante ne avete passate e quante ve ne succederanno, anche a partire da domani. Disco curativo.
That Little Wormhole You Called Heart
https://www.debaser.it/chiral/hope/recensione
domenica 1 novembre 2020
sabato 18 aprile 2020
Fuoco inglese
“La sinestesia (dal gr. sýn «con, assieme» e aisthánomai «percepisco, comprendo»; quindi «percepisco assieme») è un procedimento retorico, per lo più con effetto metaforico, che consiste nell’associare in un’unica immagine due parole o due segmenti discorsivi riferiti a sfere sensoriali diverse”. Ma è anche “un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una "contaminazione" dei sensi nella percezione. Il fenomeno neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo.”
C’è un disco, undici canzoni, un “mood” diverso per ognuna di esse ma con alla base una storia che le lega, un filo conduttore. E ci sono le emozioni dell’ascoltatore, i suoi ricordi, le immagini che affiorano una volta che questi chiude gli occhi e si lascia annegare nella musica. Ci sono i sapori, gli odori, le sensazioni che riprendono vita con una forza forse superiore a quella che avevano quando sono state assaporate per la prima volta.
Questi undici pezzi si portano dentro l’odore della campagna inglese dopo che è piovuto, un odore che mai avresti pensato di ritrovare nel giardino di casa tua, soprattutto se vivi in uno stato che non è il Regno Unito… Eppure la valle che si affaccia al di là della tua recinzione, la terra appena seminata, i fiori appena piantati, tutto odora come quei campi aperti verso il nulla che ti abbracciavano una volta uscito dal paesino inglese.
Altro odore, quello di legno bruciato. Qui fuori proprio in questo momento un contadino sta bruciando alcune sterpaglie, foglie morte e rami secchi, ma con gli occhi chiusi e la giusta musica in sottofondo sei di nuovo nei Cotswolds, stai vagabondando all’imbrunire per i vialetti acciottolati che serpeggiano tra case all’interno delle quali i caminetti si stanno accendendo, e i comignoli stanno spargendo nell’aria il rinfrancante odore della legna che arde.
La nebbia del mattino, mentre sei fuori ancora assonnato a spasso con il cane, e le campane della chiesa in lontananza, ti ricordano di quando la mattina ti svegliavi, guardavi fuori e vedevi le campagne intorno a te ancora ammantate da quella sottilissima nebbiolina, eterea e quasi ultraterrena. Aperta la finestra un sottile strato di quella nebbia si posava sulla tua mano, e il suo freddo ed umido tocco ti investiva di un’energia vitale positiva e frizzante. Il campanile del villaggio batteva le otto, e allo stesso tempo al tuo naso giungevano i tipici rinfrancanti odori dell’english breakfast cucinata dalla padrona di casa, una signora tanto dolce che poteva essere una tua zia.
E così via, tra un ricordo e l’altro, tra un profumo ed una sensazione, si arriva alla fine di questo disco, e sembra di aver davvero viaggiato.
“Fire in the White Stone”è la terza fatica dopo un full ed un EP per Dan Capp e per la sua creatura solista Wolcensmen: il Nostro è anche chitarrista dei Winterfylleth, band con la quale, è utile confermarlo, continuano ad esserci collegamenti soprattutto se prendiamo in esame il disco acustico “The Hallowing of Heirdom”. Le soluzioni scelte da Dan sono le stesse dei precedenti episodi, quindi chitarre arpeggiate, fiati, percussioni, strumenti a corda come violoncello o kantele, synth e cori, per un genere a grandi linee ascrivibile ai filoni neofolk ed ambient. Stavolta Wolcensmen ha creato una cornice che riunisse i vari pezzi, un racconto breve che narra le vicissitudini di un giovane che decide di abbandonare le comodità della sua vita per intraprendere un avventuroso e fiabesco viaggio di formazione che lo porterà ad incontrare creature di stampo quasi tolkeniano o appartenenti al folklore britannico, tutto parte dell’immaginario caro al Nostro Dan. Il senso è quello di essere trasportati in un’epoca senza tempo, favolistica e medievaleggiante, un mondo perfettamente tratteggiato da Wolcensmen con una sua genesi compiuta e assolutamente coerente. Rimangono dunque i tratti distintivi della poetica di Capp, quel dolce e fiero amore per la sua Terra e le sue radici, ma stavolta si arricchiscono di elementi favolistici e romanzati, in grado di dare maggiore forza e credibilità ad un disco che già di per sé era già musicalmente solido e coinvolgente
“Fire in the White Stone” è un disco assolutamente consigliato per gli amanti di sonorità folk e ambient. Forse è meno di impatto dell’ancora insuperato “Songs from the Fyrgen”, probabilmente perché necessita di più ascolti per essere compreso appieno: è quindi meglio se l’ascolto è accompagnato dai testi riportanti la storia alla base del concept. Si tratta ad ogni modo di una conferma per Wolcensmen, una prova di maturità per l’artista ed un viaggio nelle emozioni e nei ricordi di chiunque decida di mettersi all’ascolto di questo disco.
Lorn and Loath
https://www.debaser.it/wolcensmen/fire-in-the-white-stone/recensione
giovedì 6 febbraio 2020
A step in a new life
Arrivò l'autunno, e fu feroce. L'inizio fu piacevole in realtà, il sole conservava ancora parte del calore ereditato dall'estate, gli alberi avevano iniziato presto a sfoggiare il loro vestito migliore, quelle fronde rosse, gialle e arancioni che riscaldano con un tepore non percepibile se non dal cuore e dagli occhi. Poi, d'improvviso, novembre si abbatté su di me armato di falce e mantello scuro, colpendomi dove non mi aspettavo e portandosi via parte della mia anima. Novembre mi lasciò zoppicante e frastornato, nudo nel freddo dell'inverno che si portò appresso. Nonostante le persone che avevo intorno, l'amore degli amici, della moglie, della famiglia, fu un inverno difficile, duro, pieno di lacrime e faticoso.
La vita però si sa, è ciclica, e il freddo delle lunghe e corte giornate lasciò presto il posto alla primavera, e con essa la (ri)nascita. La prima avvisaglia di cambiamento fu la nuova casa, un obbiettivo inseguito a lungo, quasi abbandonato visti gli scarsi risultati, eppoi raggiunto così, quasi per caso. Con essa è arrivata la maturità, fatta di responsabilità, investimenti di energie fisiche, economiche e mentali, ma anche la soddisfazione e la pace che può trasmetterti la visione di un salotto che si affaccia su un giardino illuminato da un bellissimo sole e ombreggiato da una quercia secolare.
La nascita si diceva, annunciata in una sera di un caldo agosto, tra una chiacchiera e l'altra prima di addormentarsi. Da lì in poi nulla è stato lo stesso: le stagioni si sono affrettate, hanno iniziato a correre verso un traguardo apparentemente lontano, ma che oggi sembra vicino come non mai. Di nuovo la maturità, pensavi di essere cresciuto, di aver superato tante difficoltà, salvo poi trovarti di fronte a una prospettiva che hai sempre accarezzato ma che non hai mai saputo concretizzare, forse perché non eri pronto.
E allora inizi a vederti con in braccio tuo figlio, portandolo a spasso in macchina ascoltando la musica che più ti piace, e parlando del più e del meno. Ti sogni mentre giochi a "braccio di ferro" con lui, e lo fai vincere per non dispiacerlo, o ti vedi seduto nel bosco a mangiare un panino ascoltando le partite alla radio. Eppoi ti accorgi che quel bambino sei te, che quelli sono i ricordi di una vita fa, quando eri piccolo e passavi il tempo con quella persona che il freddo inverno si è portata via. Ma è bello avere la conferma che la vita si rinnova, e che chi non c'è più rivive in te, e che avrai la possibilità di essere il protagonista di una seconda vita, ripercorrendo quello che hai vissuto, solo attraverso un altro punto di vista.
"The Fallen Crimson" degli Envy è un fiume vitale, un concentrato di emozioni che, nei suoi saliscendi e nei suoi climax, mi ha fatto pensare a come le stagioni si avvicendino e di come il loro passaggio abbia scandito alcune fasi della mia recente vita. E' un disco che colpisce per la sua immediatezza, cosa a mio avviso non scontata quando si parla della band giapponese. I dischi degli Envy sono spesso criptici ad un primo ascolto, necessitano di pazienza e calma per essere assimilati ed apprezzati, non si lasciano conoscere subito ma hanno bisogno di una certa ritualità, come molti aspetti della cultura giapponese. Questo ultimo lavoro colpisce invece dritto al cuore, mettendo subito in luce le tante anime degli Envy: il loro passato hardcore non si è mai sposato tanto bene con le armoniose e solari fughe del post rock, qui enfatizzate ulteriormente e arricchite da cori femminili. E' un caldo/freddo, un lento/veloce, un sole/pioggia che raggiunge la sua massima esemplificazione in "A Step in the Morning Glow", pezzo di rara bellezza e scelto come singolo di apertura.
Un'esperienza sensoriale davvero travolgente, un ritorno sulle scene in grande stile per gli Envy, un disco da ascoltare tutto d'un fiato per perdersi in sé stessi.
A Step in the Morning Glow
https://www.debaser.it/envy/the-fallen-crimson/recensione