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venerdì 17 agosto 2012

E venne il giorno


La città si era svegliata tranquilla, come al solito. Era una placida cittadina di provincia, non lontana dai grandi centri urbani ma nemmeno così distaccata dalla campagna, almeno non così tanto da non riuscire ancora sentire l’odore della pioggia quando iniziava a depositarsi sui campi di grano o iniziava a bagnare le grandi querce che ne delimitavano i confini.
Pigramente le persone uscivano di casa, si salutavano con cenni amichevoli (si conoscevano tutti, d’altra parte, di fatto, si trattava di un paesone) ed entravano in macchina per recarsi a lavoro. Le mogli erano chi in giardino a dare l’acqua alle piante, chi in cucina a preparare la colazione ai figli (che anche se erano in vacanza, essendo estate, non avevano perso l’abitudine a svegliarsi in orario “scolastico”), chi in strada a salutare i mariti. L’aria, sebbene si trattasse di una bella mattina di fine estate, era stranamente pesante e sospesa, non si muoveva una foglia, e nessun uccellino cinguettava dai tanti alberi ai lati del vialetto, ma lì per lì non ci fece caso nessuno, rintontiti come erano dal risveglio. Eppoi successe quello che non ti aspetti.
Si cominciarono a sentire strani scricchiolii, ma nessuno capiva da dove provenissero. Prima erano leggeri, dei “crick crack” che ricordavano il suono di piedi che calpestano foglie secche, suono ovviamente amplificato a dismisura, dato che tutti lo udirono distintamente. Inconsciamente le persone guardarono il cielo: non le loro case, non il bosco lì vicino, ma il cielo, che da sereno che era si era fatto sempre più plumbeo. Da dove provenivano quelle nuvole?
Il sole era ormai totalmente oscurato da una cortina impenetrabile, e quando l’ultimo raggio di luce fu vanificato dalle nubi un enorme “crack” risuonò nell’aria. Il rumore che fu udito, e che terrorizzò tutti scuotendo la terra fino alle sue viscere, fu molto simile a quello che si ode nei film quando si vedono ghiacciai che si spaccano: un colpo secco, sordo, seguito da sinistri mugolii quasi, che ormai era chiaro, provenivano dal cielo. Il manto, fino a pochi minuti prima sereno ed ora tremendamente oscuro, si stava avvicinando alla terra, sempre di più: crollava di tanto in tanto, per poi rifermarsi pochi chilometri più in basso, ma la sua discesa verso la terra sembrava inarrestabile. Era come se qualcuno, con un maglio invisibile, stesse scalzando i possenti pilastri che lo dividevano dal mondo abitato degli uomini. Il panico dilagò tra le persone, ma non ebbe tempo di fare breccia nel cuore di tutti. L’ennesimo sordo “crack” e il cielo crollò di colpo, e come quando qualcuno ti lancia sulla testa una nera e pesantissima coperta, d’improvviso tutto si fece buio: il mondo collassò su se stesso, cielo e terra si riunirono e si annientarono.

Though from the start we’ve all diverged, all ascending paths must converge.

Quando unisci gli eterei e fragili arpeggi dei Sigur Ròs periodo "( )" alla possenza dei Cult Of Luna, al gusto melodico degli Explosions in the Sky e all’emotività dei mai troppo compianti Isis devi stare attento, rischi di combinare un disastro senza capo né coda, un minestrone che manca di coesione e che rischia di depistare l’ascoltatore. Se invece riesci a trovare la quadratura del cerchio allora con ogni probabilità il disco che ne ricaverai si intitolerà “In Abstraction”, e forse il tuo gruppo si chiamerà A Hope For Home.
Questi ragazzi di Portland sono riusciti a confezionare un lavoro realmente degno di nota, sette tracce di post metal aggraziato e allo stesso tempo incisivo e duro, un disco a tratti toccante e intenso, in grado di emozionare con la sua tragicità di fondo, che sfocia spesso o in una epicità mai tronfia o fine a sé stessa o in una dolcezza per niente barocca e caramellosa.
Uscito ormai un annetto fa, “In Abstraction” è un ascolto d’obbligo per chi ama i gruppi citati poco sopra: ci vorrà un po’ per metabolizzarlo, lo scoprirete piano piano, ma una volta fatto vostro sentirete la necessità di riascoltarvelo ogni tot giorni, per sentirsi bene e “a casa” come quando si parla con un vecchio amico che è tanto che non vediamo.

Everything that Rises must Converge

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martedì 31 luglio 2012

Le cose importanti


Da qualche giorno a lavoro stiamo utilizzando un nuovo sistema di posta elettronica, GMail.
E' presente una simpatica funzione che ti contrassegna come "importanti" alcune mail che ricevi, basandosi, immagino, su stringhe di parole ricorrenti nei documenti che ricevi, parole che il sistema, dopo un po' che le vede, giudica importanti perché presenti più spesso nelle comunicazioni.
Sistematicamente ogni mail che mi viene proposta come "importante" viene da me riportata al suo status di "mail NON importante". Solo una tipologia di mail mantiene lo status di "importante", giustamente assegnatole dal buon Google: tutte le altre, sebbene facciano riferimento a cose di lavoro, anche "vitali" quasi, per quello che faccio, non saranno mai tanto importanti quanto anche una sola mail di quel preciso mittente, che rappresenta, difatto, al vita VERA fuori da queste quattro mura dalle finestre troppo alte o troppo lontane per vedere un po' di luce.

L'ultimo giorno di scuola



Ieri è finita la scuola.
L'ultimo giorno di scuola è sempre strano, "metafisico" mi verrebbe da dire. Come in quei dipinti di De Chirico, con quelle poltrone buttate lì a caso, in mezzo ad aride ed assolate vallate greche, con solo qualche capitello diroccato a far loro compagnia, ti pare di sentire caldo anche solo a guardarli, e ti sembra che il tempo rallenti, sia quasi sospeso. Ecco ieri è stato proprio così.
Eravamo in pochi ieri a lezione... Non che siamo molti in generale, ma quest'ultimo mese ha registrato una decisa flessione in termini di presenze degli studenti, che sono partiti anzitempo per le ferie e le vacanze estive. Qualche anno fa, quando andavo allo scientifico, quanto si arrabbiavano i professori se qualcuno prendeva dei giorni di vacanza e si assentava anzitempo da scuola, magari ai primi di giugno! E mi ricordo la sensazione che provavamo tutti di stanchezza mista a rilassatezza, quel fare le cose solo per inerzia, con le gambe molli, stanche, l'occhio ammezzato, e la voglia di chiudere i libri per un bel po' di giorni a fila. L'ultimo giorno di scuola di solito era un giorno felice, spensierato, pieno di concessioni più o meno dichiarate: era sì velato da un po' di malinconia, ma tanto sapevi che, volente o nolente, quelle facce le avresti riviste di lì a qualche mese, anche quelle che avresti fatto volentieri a meno di rivedere, per cui, alla fine della fiera, te ne importava il giusto. Discorso un po' diverso va fatto per l'ultimo giorno di quinta superiore, ma quella è un'altra storia, che mi riservo per, magari, qualche altro scritto.
Ieri invece l'ultimo giorno di scuola mi ha lasciato un po' di tristezza, un po' di vuoto che, per fortuna, avrà vita breve (di fatto si parla solo di un mesetto), ma è stato un peso che si è materializzato e si è fatto sentire non poco, non appena ho salutato tutti. E' stato bello andare a cena dopo la lezione, anche se eravamo pochissimi: non era eccessivamente caldo, fuori si stava bene, la birra era fresca e la pizza, seppur un po' pesantuccia, era veramente buona. Le chiacchiere andavano via veloci ed allegre, e con esse sfuggiva anche il tempo, e così è arrivato presto il momento di dirsi "buone vacanze".
Mi piace andare a scuola, mi trovo bene con i miei compagni, e ritengo che il mio insegnate, seppur un po' svagato, con quel suo fare un po' tra le nuvole, sia uno dei migliori che abbia mai avuto, merito forse anche della "materia" che insegna. Forse esagero, forse sono troppo sentimentalista, ma ecco, non vedo l'ora che la scuola ricominci.

Further Ahead of Warp

martedì 3 luglio 2012

Sorrisi sfiorati



Mi piace andare in Contrada, essere di servizio durante le cene varie, passare di tavolo in tavolo e guardare le persone divertirsi, stare in compagnia, ridere, cantare, bestemmiare, infamarsi, ubriacarsi. Ma soprattutto, quello che mi rimane sempre, dopo ogni sera, dopo ogni servizio prestato, è il contatto.
Quando passi in mezzo a quel buglione di persone trovi gente da ogni parte che ti sfiora, che ti incorocia, ti sorride e ti appoggia una mano sulla spalla, o magari ti fa un dispetto per farti cadere qualcosa (ti "sciaguatta" un pochino, o ti da semplicemente noia, il tutto sempre ovviamente in amicizia)... Anche chi non ti conosce ti sfiora e ti appoggia una mano sulla spalla sorridendoti, anche solo per passare oltre. Il contatto fisico si unisce a quello verbale: ci si da del "tu", sempre e comunque, e se, per buona educazione, talvolta ti rivolgi a qualcuno un po' in là con gli anni usando il "lei", ci pensano due o tre bestemmie ben assestate a farti capire che il "lei" va lasciato fuori dalle mura, al di là di quei confini disegnati ormai secoli fa.
E' vero, c'è anche gente inutile lì dentro, gente che bruceresti con uno schiocco di dita se potessi, gente che si crede di essere chissà chi, e di essere lì per non si sa quale privilegio, ma per fortuna sono la minoranza, per ora, e gli sporadici incontri che puoi fare con loro lasciano, forse, traccia di poche ore... Una volta sentii un ragazzino parlare con uno di questi personaggi, che lo sbeffeggiava per la sua presunta assenza dai luoghi di contrada... L'"inquisitore" indicava delle persone e diceva "lo sai chi è quello? E' il mangino vittorioso del XXXX... E quello, lo sai chi è quello? E' il XXXXXX vittorioso del XXXXXX". Al ché disse al ragazzo: "ma te lo sai chi sono io?" (nota mia, l' "inquisitore" era un gazzilloro qualunque, le cui uniche fortune erano lo stare praticamente accanto alla Società, l'avere soldi da buttare via e l'aver avuto una famiglia da sempre impegnata in Contrada, a un livello ben più nobile del suo...)... Alla domanda che gli fu posta il ragazzo, fino ad allora insofferente, alzò gli occhi chiari e rispose: "no, non lo so chi sei, ma te lo sai chi sono io?! No vero? Bene, siamo pari allora!", e detto questo girò i tacchi e si allontanò, lasciando quel gazzilloro con un pugno di mosche. Chapeau.

Now We Are Free

"...è caduta l'Oca"

giovedì 14 giugno 2012

La casa di Maria


La casa di Maria è piccola, sembre una di quelle villette che si vedono nei film di Harry Potter. Sembra essere fatta di legno, sembra fragile e non poter reggere un soffio di vento, ma ha buone fondamenta. La casa di Maria è un po' come la sua proprietaria, anche lei minuta, gracilina, ma le ha passate tante, ha attraversato una guerra, ha attraversato un mare, ha attraversato una cultura nuova, due cose queste fatte per inseguire un amore che proprio la guerra le aveva fatto conoscere. Sid era un grand'uomo, non l'ho mai conosciuto ma l'ho visto filtrato attraverso foto e racconti: lui scozzese, lei italiana, come diavolo riuscirono a intendersi lo sanno solo loro, eppure ce la fecero, lei si trasferì in Inghilterra e imparò l'Inglese. Fa ridere Maria quando parla italiano, pare cristallizzata agli anni Quaranta, ha dei modi di dire davvero desueti, senesi, perché lei è di Siena, ma ingialliti come le pagine di un vecchio libro. Nonostante l'età Maria è giovanile, gli occhi vispi, "pesticcia", come si dice dalle mie parti, in continuazione, va in giro, vive alla grande insomma, nonostante sia piccola e abiti in una casina piccola. I legami non si spezzano, la distanza, un oceano e diversi kilometri di certo non cancellano le sue radici, e i suoi parenti italiani le vogliono ancora un mondo di bene. Il nipote "piccolino" (che poi tanto piccolino non è, oggi ha circa sessant'anni, ma è il minore di quattro fratelli) deve a lei molto, lei lo ha ospitato più di una volta quando lui era in viaggio in Europa, e questo amore lui lo ha tramandato anche alle sue due figlie, che amano tanto l'Inghilterra forse perché lì c'è un pezzo di loro.
La casa di Maria stamattina si è svegliata triste: il pavimento in parquet non ha scricchiolato come al solito, e la cucina non si è riempita del consueto odore di thé. Ve l'ho detto, Maria era gracilina, e un cretto di qualche giorno fa è stato fatale alla sua minuta struttura. La cosa bella è che se ne è andata, ne sono certo, felice, vincitrice di tante battaglie (prima tra tutte quella contro il tempo), felice di aver lasciato dietro di sé tante persone che l'hanno amata e le hanno voluto bene, soddisfatta di come ha vissuto e appagata dai suoi novanta e rotti anni. Certo, sono state versate delle lacrime, la sua dipartita non ha lasciato le persone indifferenti, alcune di esse si sono rese conto di come il tempo sia un tiranno che ti strappa in un lampo, con mani artigliate, quanto ti eri conquistato con fatica, e che pensavi sarebbe durato non dico in eterno, ma almeno un pochino di più. Alcune persone si sono rese conto che è in atto un cambio generazionale, che i "vecchi" stanno lasciando il posto ai "giovani", e si sono di colpo sentite meno sicure, meno solide, più fragili. Io dico a queste persone: pensate a Maria! Pensate a come a vissuto, pensate alla sua felicità! Certo i tempi erano diversi, ma io credo che si possa vivere bene anche oggi, anche tra i nostri mille problemi, basta rallentare un attimo e focalizzarsi meglio.
Parecchi kilometri più a sud della casa di Maria, in un altro stato, in una casa non fragile, non inglese, e probabilmente meno affascinante, qualche giorno fa è scoppiato un nuovo pianto, il vagito di una nuova vita. Benedetta si chiama, ed anche lei è in qualche modo legata a Maria: non perché si siano viste, e neanche perché siano parenti (sebbene la famiglia di Benedetta e quella di Maria siano legate, seppur per vie un po' tortuose), ma perché condividono un equilibrio, un bilanciamento, occupano entrambe i due piatti della bilancia di Destino, una per piatto, e probabilmente lui ha deciso così, che era giusto far cedere il passo a Maria.
Arrivederci Maria, conosco delle persone lassù che ti faranno buona compagnia, persone con cui andrai di certo d'accordo, e benvenuta Benedetta.

"Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano. Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l’unico che sorride e ognuno intorno a te piange."

martedì 12 giugno 2012

La carica dei mille



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...c'è scritto "grazie", e sono mille, fidatevi li ho contati!
Grazie a chi mi legge, o anche solo apre il mio blog ogni tanto per vedere le cazzate che scrivo.
Grazie.

Happy birthday

Uomini invisibili


Poco fa ho avuto conferma di una cosa che mi avevano detto anche altri, ma che in fondo avevo sostenuto sempre anche io: la risposta alla domanda "qual'è il fine che spinge una persona a aprire un blog, e a cominciare a riversarci dentro i suoi scritti?"
C'è chi lo fa per scriverci cavolate, una sorta di "Facebook" in cui conservare tutti i suoi status, raccontare cosa ha fatto durante il giorno, un diario più o meno segreto. Cerca di scrivere cose stupefacenti, di dargli un tono il più allegro e "nazional popolare" possibile, così da aumentare le proprie letture.
Io ho seguito un'altra strada, in linea con quello che è il mio attuale carattere, il mio attuale modo di rapportarmi verso l'esterno. Lo uso saltuariamente, solo per scriverci cose che ritengo importanti; lo uso per fissare da qualche parte impressioni che, conoscendomi, potrei dimenticare di lì a poco. Ma soprattutto lo uso per riconoscermi, per ricordarmi chi sono, per rivivere le emozioni che mi hanno spinto a scrivere determinati post. E la cosa bella è che mi riesce. Nel senso, rileggendo i miei vecchi post riesco davvero a rivedere quelle immagini che popolavano la mia mente mentre stavo forsennatamente cercando di dar loro un senso, quando le stavo trascrivendo; riesco a provare di nuovo le emozioni che avevo provato, a sentire le lacrime che avevo sentito, o semplicemente a rivivere sogni che già avevo vissuto e dimenticato. Ma tutto ciò, se da un lato mi piace e mi da soddisfazione, mi fa chiedere anche perché ci sia tutto questo bisogno di "trascriversi", di affermarsi anche sullo scritto, bisogno che anima ogni tipo di carattere, dal più intraprendente ed estroverso al più schivo e solitario, ognuno per apparentemente diverse motivazioni. Almeno per quanto mi riguarda credo sia una mai confessata (nemmeno a me stesso) e quindi intestina e inconscia paura di sparire, o meglio, paura di perdere certe cose belle o significative: paura di perdere la rotta, di non capire più perché stai facendo certe cose, o perché stai andando verso una direzione piuttosto che un'altra... Paura di non poter superare tutte le proprie paure, che si cercano di esorcizzare trascrivendole e cercando così di "vederle" meglio; paura di perdere non solo se stessi, ma anche persone che hanno dato un contributo importante al tuo essere attuale.
Sono un po' come l'uomo invisibile, anche io ogni tanto cerco di mettermi un cappello ed un impermeabile per potermi vedere allo specchio e ricordarmi di me.