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giovedì 24 settembre 2015
Untitled
Era l'ultimo giorno d'estate, una giornata strana, fredda: il ragazzo, spettinato e con il rossetto sbavato sulle labbra, se ne stava seduto su un muretto nel suo giardino, un luogo che lui aveva sempre amato considerare come fuori dal mondo, uno spazio appartato, sospeso quasi, tutto suo. In questo "non-luogo" gli uccelli erano soliti cantare, appollaiati sui loro alberi, ed i loro richiami erano quasi una ninnananna, se ti mettevi tranquillo ad ascoltarli riuscivi quasi ad addormentarti.
Ma, come detto, quella giornata era strana: gli uccelli non cantavano, anzi proprio non ve ne era traccia, ma il giovane non se ne era neppure reso conto, assorto com'era nei suoi pensieri. Stringeva in mano delle fotografie, scatti sbiaditi e sfocati nei quali erano sempre ben distinguibili due persone, lui e quella che sicuramente era la sua ragazza, o comunque una ragazza importante per lui. In una foto erano stretti l'uno all'altra, vicini, felici, i corpi così uniti da sembrare quasi gemelli siamesi... In un'altra la vedevi correre in un vasto prato, quasi una pianura... Il giovane le sfogliava con uno sguardo tra il perso e il malinconico, provava una sensazione strana, come quella che si sente quando si ha nostalgia di casa... Ecco, quella ragazza era quasi una casa per lui, un riparo sicuro in momenti duri: lei lo aveva visto in crisi, lo aveva visto cadere e lo aveva rialzato, avevano attraversato assieme parentesi buie, nelle quali sembravano non riuscire mai a riemergere da un mare fatto di scure acque profondissime, ma ce l'avevano sempre fatta.
Poi un giorno, ad una festa, lei prese la sua mano e gli chiese di ballare: non l'aveva mai fatto, a dirla tutta lui era quasi convinto che non le piacesse ballare, e quella richiesta lo turbò un po' anche se accettò subito. Erano vicini, si facevano cullare dalla musica, ma lo sguardo di lei era triste, non c'era più quella luce familiare che l'aveva animata durante tutti gli anni passati. I suoi occhi erano spenti, comunicavano in silenzio, urlavano una tristezza con il rumore più forte che lui avesse mai potuto sentire, erano disturbanti quasi, e non ce la faceva a sostenerne il peso. Quella danza lenta durò poco ma sembrava estendersi per almeno cento anni, e quando si lasciarono provò un brivido di freddo, lo stesso freddo che a tratti provava anche in quella giornata di fine estate, seduto sul muricciolo nel giardino sospeso. Quando le loro mani si separarono pensò "questo è il primo ballo che facciamo, ma non ce ne saranno altri, sarà l'ultimo ballo"... E che strano che le note sulle quali si stavano muovendo fossero quelle di una canzone d'amore...
Di tanto in tanto il ragazzo scuoteva la testa, come a voler liberare gli occhi dall'immagine di lei... "E se la rivedessi...", pensava... "Se solo potessi di nuovo riabbracciarla...", sospirava... Ma poi scuoteva la testa come a volersi convincere che non potevano esserci più "se" ormai, quella era la realtà, e in quella avrebbe dovuto vivere; doveva smettere di guardare quelle foto che stringeva in mano altrimenti quella carta, quei ricordi, si sarebbero presto tramutati negli unici sentimenti che avrebbe potuto avere, e il freddo di quella giornata avrebbe preso posto nel suo cuore. Sentiva il suo animo a pezzi, disintegrato, ma quella sofferenza doveva cessare in un modo o nell'altro, doveva essere ridotta a qualcosa di breve durata, a breve termine, non voleva trovarsi tra vent'anni, trentanovenne, ancora in quello stato. Allungò una mano verso un cespuglio di rose, la infilò dentro con forza: voleva vedere se riusciva ancora a sentire almeno il dolore fisico, come diceva il buon Cash... Quando la tolse era tutta rigata di sangue, e qualche goccia era rimasta sui petali. "Fiori di sangue" pensò, "come il disco dei Cure...". Bene, almeno un po' di dolore riusciva a sentirlo, forse c'era ancora speranza. Se solo si fosse mosso qualcosa, se solo avesse avuto un qualche stimolo per ripartire... E quel tempo così immobile, grigio e insensibile non aiutava certo, e anzi lo faceva impazzire: avrebbe pregato per avere un po' di pioggia, almeno lo avrebbe distolto dal freddo torpore nel quale stava cadendo.
Senza un briciolo di forza, pigramente, si lasciò scivolare giù dal muretto sul quale era seduto e si incamminò verso casa.
Decise che il modo migliore per scordarsi di tutto, per sfogarsi, sarebbe stato imbracciare la sua chitarra e buttare giù qualche nota, e scrivere qualche ricordo a casaccio, per esorcizzare la sua tristezza ed i suoi demoni. Pensò anche a un nome per tutto ciò, "Untitled", senza titolo: perché l'amore, quello che stava vivendo, aveva già un nome che riassumeva tutte le sue emozioni, e non aveva senso cercare di dargliene uno diverso.
Registrato durante un concerto tenutosi a Berlino nel 2002, in "Trilogy" i Cure ripropongono dal vivo quella che Robert Smith ha definito la sua "trilogia dark", ossia gli album "Pornography", "Disintegration" e "Bloodflowers". Da un punto di vista tecnico i Nostri si muovono con la maestria di chi ha passato una vita assieme (giorno più giorno meno), suonando con un'intesa e un'empatia invidiabile (basta fare caso anche solo agli sguardi tra Smith - Gallup). Le atmosfere rese sono essenzialmente le stesse dei dischi, e chi ha amato questi lavori, chi ha vissuto ogni singola canzone in essi contenuta, non farà certo fatica a riprovare le stesse emozioni provate con gli album.
C'è poco altro da aggiungere: la qualità della musica contenuta in questi dischi la conoscete sicuramente, ed esistono miriadi di recensioni che li hanno descritti... Ma se volete provare qualcosa in più, se volete immergervi ancor più nel malinconico e disperato mondo descritto da Smith & Soci con quei tre capolavori, beh potete solo sedervi e godervi questo stupendo live, e ve ne innamorerete.
Bloodflowers
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https://www.debaser.it/recensionidb/ID_43007/The_Cure_Trilogy.htm
martedì 22 settembre 2015
Heion
E come se nulla fosse ieri ho percepito di nuovo quella bella sensazione, quella magia che erano mesi (quasi anni?) che non sentivo più.
Inginocchiato sul tatami guardavo le armonie che le due hakama disegnavano prima a terra, poi in aria, e mi rendevo conto di quanto stessero materializzando il continuo divenire di cielo e terra, nero e bianco, pesantezza e leggerezza, e ogni altra dicotomia possibile alla base di quell'Arte Marziale.
L'autunno è arrivato, le giornate si sono accorciate e alle otto di sera è praticamente buio. La luce calda, che si rifletteva nelle pareti ocra, fronteggiava il buio che si vedeva fuori dalla finestra aperta, e gli unici suoni che potevo sentire erano il rumore dei piedi che scivolavano, le cadute a terra e dei cani che abbaiavano in lontananza. Sulla parete, vigile, l'onnipresente foto di O'Sensei, che arricchiva e chiudeva un quadro semplice, essenziale nella sua armonia e perfettamente bilanciato.
E se le ginocchia continuano ad assistermi (e un grazie va anche e soprattutto a chi mi ha guarito e a chi mi ha insegnato come viverci meglio) non credo che stavolta ci risepareremo... E anche se fosse, potendo, ritornerei comunque lì, in quell'armonia.
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