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venerdì 4 agosto 2017
Sentieri eterni
C’è un uomo che cammina nel suo giardino, ha in mano un libo. L’uomo è cieco e il giardino è un labirinto di sentieri che si dividono, si ramificano, e si riuniscono. Nel giardino ci sono delle statue enormi: qualcuno dice di averle viste muoversi, ma se così fosse sarebbe stato di certo in maniera molto lenta, quasi impercettibile. Il libro è pesante, una persona normale non sarebbe in grado di portarlo.
Il sentiero che l’uomo sta seguendo in questo momento lo conduce all'interno della sua dimora, un edificio fatto da corridoi e saloni. I dipinti nel salone di Destino ritraggono i suoi fratelli e sorelle con le fattezze con le quali loro desiderano essere visti da lui (anche se va detto che nel regno degli Eterni ciò che si desidera e ciò che si ottiene sono in realtà cose così vicine che non si riuscirebbe a farci passare nemmeno una sottile lama affilata nel mezzo). Anche tu, che stai leggendo, avrai passato del tempo nel regno dei suoi fratelli e sorelle: sognando, disperandoti, provando desiderio e cercando distruzione, piacere, finanche a trovare la morte, prima o poi… Ma la tua vita non è mai stata davvero tua, sei sempre stato suo, sin dalla prima pagina del libro, e solo lui è in grado di leggere la tua storia, di come è stata e di come sarà, molto tempo da oggi.
Destino è incatenato al suo libro, o forse è il libro a essere incatenato a lui? E’ composto da tante pagine, non può essere né rubato né prestato. Contiene la tua vita, ogni dettaglio, ogni cosa che ti è successa, ti accadrà, o che semplicemente hai dimenticato o alla quale non credi. Di fatto contiene tutto ciò che è accaduto ed accadrà a chiunque tu abbia conosciuto, incontrato, o nemmeno mai sentito nominare… Lì dentro trovi i sogni, le vicende, i trionfi, le sconfitte e le morti di tutti. In esso si spiega il senso di ognuna delle macchie che compongono il manto di un leopardo, così come la verità sulla forma delle nuvole, sulla vita dei batteri e i segreti che il vento sussurra quando non c’è nessuno a sentirlo. C’è tutto, dall’inizio alla fine.
Destino non ha creato il percorso che sta seguendo la tua vita, eppure nel libro sono spiegati i moti degli atomi e delle galassie: per lui non c’è differenza tra loro, è tutto parte dello stesso tomo. Un giorno, quando il libro sarà terminato, lui lo abbandonerà, ma ancora non è scritto da nessuna parte cosa accadrà dopo. Intanto si volta una nuova pagina: Destino continua a passeggiare nel giardino con in mano un libro, nel quale è contenuto l’Universo intero. (tratto da “Endless Nights”, Neil Gaiman, traduzione libera).
“Smoke in the Sky” è la prima prova “ufficiale” dei 1476, duo del New England già ampiamente trattato in queste pagine. Si tratta di un EP, ripubblicato dalla tedesca Prophecy con l’aggiunta di alcune tracce live che seguono il mood del disco principale. E’ un’opera principalmente acustica, che pesca a piene mani dal (neo) folk americano e europeo, aggiungendo saltuariamente inserti di drones ed elettronica. La resa è fumosa, mistica, nostalgica e pensosa: i pezzi rendono al meglio se ascoltati con tranquillità, pensando a tutto e niente, passeggiando per boschi o città. Citando la descrizione fatta dal gruppo, “Smoke In The Sky" places a strong lyrical focus on self-realization and destroying/overcoming obstacles to be reborn as a stronger, healthier self".
Molti degli elementi che caratterizzano questo lavoro saranno poi ampiamente recuperate nei successive dischi: va da sé che è un ascolto obbligato se avete apprezzato il resto della produzione dei 1476, ma merita un occhio di riguardo anche da chi ama immergersi nelle atmosfere magiche che certe produzioni neo folk sanno offrire.
"To Reveal the Shadow Self"
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https://www.debaser.it/1476/smoke-in-the-sky/recensione
giovedì 3 agosto 2017
The Subtle and the Profound
Quel ramo sul quale era nata e cresciuta le era sempre stato un po’ stretto, e a pensarci bene anche il parco, sebbene fosse uno dei più grandi della città, non sembrava riservarle chissà quali sorprese. Posta in uno dei rami più alti e grandi dell’acero, la foglia sentiva una spinta a volere qualcosa di più: non voleva maturare la sua estate e ondeggiare verso la morte nel foliage per sempre attaccata lì dove si trovava… E così una mattina, sfruttando un vento più forte del previsto, si staccò dalle sue sorelle e si fece trasportare via: dove non lo sapeva, alla fine era nelle mani del vento, ma già quello voleva dire vivere qualcosa di nuovo. In quella mattina di primavera l’aria era ancora fresca e Boston si stava risvegliando: la foglia volò tra le persone: gente che si affrettava verso il lavoro, gente che fotografava i monumenti e seguiva il Freedom Trail, gente che mangiava di tutto già a quell’ora. I profumi della città erano già troppo pungenti per lei, abituata al verde parco, per cui accolse con gioia la decisione del vento di trasportarla a nord, lungo la costa.
Portsmouth era già più vivibile: fresca, immersa nel profumo di salsedine, pesce e legno invecchiato al sole e all’acqua di mare, vivace come un porto deve essere, giovane e carica di promesse e speranze… Purtroppo la sua sosta durò poco: il vento si fece di colpo più pressante, spingendola ancora più a nord, verso i fari del Maine, e verso nubi nere cariche di pioggia.
Quando giunse a Cape Elizabeth impattò con forza in uno scoglio, e sentì le sue nervature scricchiolare per la prima volta: non ci fece molto caso, estasiata com’era dalla bellezza e dal misticismo che quel posto emanava. Era come se ci fosse un microclima sulla costa, che aveva generato una fitta nebbia che avvolgeva il faro, il quale svettava ed emergeva comunque imperioso a baluardo dell’ignoto. Seguendo la costa e gli scogli giunse al sentiero sassoso che l’avrebbe accompagnata verso Spring Point Ledge: faro condizionato dallo stesso destino che affliggeva anche Cape Elizabeth, questo era se possibile ancora più spettrale. La foglia fu grata al vento quando questi decise di farle fare un giro attorno alla cima del faro: come svoltò l‘angolo si sentì sospinta da una forza brutale, erano i venti dell’Atlantico che per un attimo avevano dato man forte alla sua fida guida e la stavano spingendo con forza verso ovest.
La foglia, dopo tanto peregrinare, si depositò alla fine sulla grondaia di una chiesetta di campagna: bianca immacolata, col tetto a punta rosso, quella chiesetta le ricordava tantissimo quelle che aveva visto disegnate nei libri di storia dei bambini che erano soliti leggere sotto il suo acero, nel parco, quando ancora era attaccata al suo ramo. Si stava abbandonando ad una leggera malinconia quando di nuovo si alzò in volo, stavolta flebilmente, e volteggiando passò sotto un ponte coperto, trave dopo trave danzando tra ragnatele e nidi di rondine. Oltrepassato il ponte ed il fiume avvertì il calore del sole farsi di colpo più forte: era come se una stagione fosse trascorsa, e l’estate stava rendendo le sue nervature un po’ più secche e meno elastiche, e le sue fibre più tese. Non ci fece alla fine molto caso, Wolfeboro era in vista, e con essa il lago sul quale si adagiava placida. Volteggiò tra i tetti delle case, sospinta dai fumi delle caffetterie e attratta dal battello che stava per iniziare la sua consueta gita attraverso il lago. Stanca si lasciò cadere sul ponte per godersi la calma del lago, una pace meditativa che per un attimo la fece pensare che forse quello sarebbe stato il posto adatto al suo foliage. E invece niente, si riparte: una folata e via verso il Vermont, dove di colpo capì che era lì che ogni foglia avrebbe voluto nascere, crescere e morire marcendo ai piedi di frondosi alberi e vicino a fiumi e cascate. Swanzey era solo la porta per un mondo magico, dove la natura regnava incontrastata e le campagne ed i boschi erano pieni di aceri grandi il doppio del suo (che per inciso aveva i suoi anni ed era comunque un signor albero). Di nuovo un improvviso e forte soffio di vento la fece sbattere contro una roccia, e ancora altri scricchiolii sinistri… Si tornava a sud, sembrava quasi la strada di casa, e invece la mano del vento amico, che di colpo si era fatta più fredda e umida, la trasportò in mezzo a una bufera che si stava abbattendo sulla cittadina di Salem. La gelida e incessante pioggia ingrossò il vento che la trasportava, che si fece quasi più maldestro e violento, sbatacchiandola a destra e sinistra, addosso alle porte delle case, alle vetrine dei negozi e alle mura dei cimiteri. Un colpo d’occhio ad una vetrina le rivelò che aveva cambiato colore: il verde delle sue fibre aveva lasciato il posto a un marrone/rosso, forse un po’ spento probabilmente a causa del tempaccio; anche le nervature erano diventate secche e fragili, colpa del troppo sbattere a destra e sinistra. Fortunatamente raggiunse la costa: “Winter Island” lesse, e pensò che doveva essere un segno quello. Il suo foliage lo aveva avuto in volo, adesso doveva solo affidarsi al vento per l’ultimo ballo, quel volteggio finale che avrebbe posto la parola fine al suo peregrinare. Non ci sperava più ma il vento fu magnanimo, e la depositò proprio sul bordo del faro di Winter Island. Lassù, di nuovo sulla cima del suo piccolo mondo, si sentì a casa, di nuovo, e nemmeno si accorse che le sue trame si stavano pian piano dissolvendo con la pioggia che aveva incessantemente continuato a colpirla.
Nick Stanger è l’anima e il principale autore del progetto Ashbringer, one man band (prima) e ora gruppo a tutti gli effetti originario del Minnesota. Il New England non c’entra nulla con la musica dei Nostri, almeno in apparenza: in realtà la mutabilità di paesaggi e clima tipica della regione a nordest degli USA ben rispecchia la musica della band. Con “Yūgen”, seconda fatica del gruppo, siamo dinnanzi a un di black atmosferico con inserimenti acustici, folk ed epico post rock: in otto tracce abbiamo un affresco del mondo musicale di Stanger, che si ispira sì al versante cascadiano del black, ma ci mette anche molto del suo. Ashbringer sa essere ora sferzante e impetuoso, ora dolce, poetico e struggente, ma sempre originale e incredibilmente suggestivo.
Disco non più recente, è perfetto per il prossimo autunno: un ascolto consigliato per vivere al meglio una stagione transitoria e ahimè fin troppo breve.
"Glowing Embers, Dying Fire"
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