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giovedì 27 novembre 2014
Be nice
L'aria era fresca, non fredda, sebbene fossimo a gennaio: merito forse del mare, che vicino com'è alla città in qualche modo ne mitiga la temperatura. Decidiamo di fare una cosa diversa, e di spostarci con l'autobus proprio verso il mare, verso la spiaggia della città, verso Portobello. Sono malato me ne rendo conto, ma tutto in questa città mi affascina e mi strega, ed il fatto di avere nello stesso posto highlands, laghi, luoghi storici incantevoli, una cultura incredibile ed una spiaggia mi aveva messo in uno stato di febbrile eccitazione sin dal risveglio.
Man mano che ci avviciniamo a destinazione l'ambiente cambia: case più colorate e più basse, un'atmosfera quasi più da villaggio della Cornovaglia che da capitale della Scozia, insegne e negozi che sembrano usciti dagli anni Cinquanta. Scesi dall'autobus una pioggerellina leggera ci accoglie, ma ci siamo abituati, e pochi passi dopo eccoci di fronte al mare: qui tutto è perfetto, mi sembra di vivere una scena di "Eternal Sunshine Of The Spotless Mind". Nonostante la pioggia ci sono bambini che, in piumino, giocano scalzi sulla sabbia, e con le loro palette vanno a raccogliere la sabbia bagnata dalle onde per poi riportarla indietro e farci castelli, il tutto sotto gli occhi dei genitori che parlano con in mano immancabili bicchieroni di caffè.
Poco più in là i cani giocano sulla sabbia, si rincorrono e rincorrono i giochi lanciati dai loro padroni. L'aria è frizzante ma il tempo sembra fermo, fissato in una foto che posso vivere, in cui tutto sembra essere al suo posto, e quel baracchino che vende cioccolata calda sul lungomare ha il fascino di una scoperta che non ti aspettavi, e che sembra essere lì apposta per te, per farti commuovere di fronte a tanto stare bene.
Di fatto non succede nulla, te ne stai seduto su uno sgabello con la tua ragazza, sorseggiando una cioccolata calda, giocherellando con i marshmallows che ti ci hanno messo, e conversando con gli affabili proprietari del chiosco, con intorno solo il suono del mare, il vociare dei bambini ed i cani che abbaiano, ma è tutto ciò di cui hai bisogno per stare bene. Ed è bello quando sono le piccole cose a darti felicità e a farti sorridere, ed è ancora più bello quando, a distanza di quasi un anno, riesci a rivivere quelle stesse sensazioni come se tu fossi ancora lì, e le senti al punto tale da farti quasi piangere per la gioia e per la nostalgia.
"We are a band from Glasgow, Scotland, and we enjoy making music." Così, semplicemente, i There Will Be Fireworks (da ora in poi TWBF) si presentano a chi si avvicina a loro. Li ho conosciuti per via della loro etichetta, di base ad Edimburgo, ma appena mi sono apprestato ad ascoltare "The Dark Dark Bright" per la prima volta mi sono subito innamorato di questo gruppo. I Nostri propongono un genere avvicinabile, generalizzando, al post rock: frequenti sono i climax emozionali, che partono da semplici arpeggi acustici o da un crescendo basso-batteria per poi esplodere in una corale travolgente e sbalorditiva in quanto a impatto sull'ascoltatore. Nei pezzi che compongono questo disco sento note di Explosions in the Sky, ma anche di Damien Rice (la consolatoria delicatezza dell'irlandese è ben presente anche nella voce del cantante di questa band), degli Arcade Fire e dei GY!BE (nell'epicità sinfonica e nei crescendo di alcuni pezzi) e dei Brand New (tanti piccoli richiami a "The Devil and God...").
I TWBF non inventano niente, credo sia chiaro, (anche perché in questo genere cos'altro puoi inventare ancora quando ci sono i Godspeed, per dirne uno a caso?), fanno però una cosa semplice, sanno emozionare. E lo fanno con cose altrettanto semplici e forse scontate, giocano con i ricordi, con i sorrisi e le lacrime, consolano e fanno sorridere, ti mettono a tuo agio, ti fanno pensare e ti tengono compagnia. Insomma, sono come quella cioccolata calda presa sul lungomare di Portobello a Edimburgo lo scorso gennaio: qualcosa di piccolo, insignificante, ma che ogni volta che ci ripensi sa darti calma, sa ricordarti di un momento felice, e, magari, sa farti un po' commuovere.
River
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giovedì 20 novembre 2014
Visualize vast wilderness
Visualize
vast wilderness.
Un
giorno la Dea Alce prese vita dalle radici di un vecchio albero, troncato dalla
smania umana di costruire sempre nuovi palazzi togliendo spazio vitale alle
foreste. La nebbia si condensò attorno alle foglie marce che riposavano a
terra, che subito al suo passaggio ripresero vita e colore, tingendosi di un
verde lucente ed animandosi come sospinte da un dolce vento; le radici
interrate riemersero, si riannodarono, si alzarono verso il cielo, e da esse si
rigenerò la Dea. Antropomorfa, la testa di Alce, raccolse da terra i teschi di
tre animali che erano stati lasciati lì a morire, avvelenati dagli scarichi
delle fabbriche non troppo lontane, e al suo tocco questi divennero Lupo, Cervo
e Volpe, messaggeri del risveglio della Natura incarnata nel corpo della Dea.
La
Dea li guardò compiaciuta, e solo con lo sguardo i tre animali intesero quale
sarebbe stato il loro compito: i quattro si voltarono verso la città, verso le
luci e le ciminiere, e a passi lenti si avviarono verso l’uomo. Ogni loro passo
era una pianta che nasceva, dove poggiavano piedi o zampe fiori, foglie, frutti
e radici riprendevano vita, e con una folata di vento sputavano verso il cielo
le tossine ed i veleni dei quali si erano nutriti fino a quel momento,
riprendendo così vita e forza. Alle soglie della città la Dea si fermò, poggiò
le mani a terra, e da esse si generarono due scosse che squarciarono in due le
fabbriche che trovarono sulla loro strada, inghiottendo manager in cravatta e
ricchi industriali che, nonostante l’ora tarda, erano rimasti all’interno degli
edifici a contare i loro soldi sporchi di petrolio e veleno. Dai crateri che si
generarono emersero piante radici ed alberi, che continuarono l’opera
avvolgendo con le loro spire tutto ciò che aveva fino a quel momento soffocato
la loro esistenza, riappropriandosi di spazi che erano loro.
Le
persone, impaurite, corsero nelle strade: intorno a loro si stava scatenando
l’apocalisse, e nessuna preghiera o nessuna fede poteva arrestare le loro
paure. Poi il fitto muro creato dagli alberi si aprì, e da essi emerse la Dea
ed i suoi tre emissari. Nessuno osò dire una parola, tra gli uomini c’era chi
si inchinava, chi si metteva a piangere, chi fuggiva, chi annuiva: tutti però
avevano di colpo capito cosa stava succedendo, avevano immediatamente preso
coscienza delle loro colpe che avevano costretto la Natura a riprendersi con la
forza ciò che le era stato preso. L’Alce fissava un punto fisso in mezzo alla
gente, ma era come se ogni persona si sentisse scrutata nella sua anima, nuda
come un verme e messa di fronte alle proprie colpe.
Poi
i tre messaggeri si accucciarono, la Dea alzò le braccia, ed un caldo turbine
di foglie avvolse tutte le persone, nascondendole per qualche attimo: quando la
polvere alzata da questo vento si posò tutti dormivano, e non c’era più traccia
di Lupo, Cervo e Volpe, e anche l’Alce antropomorfa era sparita.
L’alba
ed il sole sorpresero le persone mentre dormivano in terra, acciambellate come
gatti: quando aprirono gli occhi le fabbriche, le case, tutto era lì, dove le
avevano lasciate. Si guardarono negli occhi, e capirono di aver fatto lo stesso
terribile sogno. Poi le porte delle fabbriche si aprirono, ed uscirono i
manager e gli industriali, pallidi, sudati e dagli occhi sgranati, come se
fossero appena tornati dalla terra dei morti: muti, all’unisono, fecero tutti
lo stesso gesto, disattivarono immediatamente i generatori delle loro
fabbriche, e come in trance si sedettero in terra a fissare il cielo,
sbigottiti. Le trivelle si fermarono, le pompe cessarono il loro lavoro e si
arrestò la fitta coltre di fumo che fino a quel momento si era alzata dalle
ciminiere; un fresco vento mattutino diradò il poco fumo che ancora rimaneva
nel cielo.
Poi
tutti quanti, come chiamati da una voce nelle loro teste, camminarono verso il
vicino bosco, raggiungendo una radura: a terra tre teschi di animali, di lupo
di cervo e di volpe, ed una veste bianca da donna appesa ad un ramo di un
vecchio tronco. Gli uomini raccolsero questi oggetti, li sotterrarono nella
radura, pregarono ognuno nella propria lingua e secondo il proprio credo, e se
ne tornarono verso le loro case ancora un po’ confusi, con ben impressi però in
mente gli occhi neri, profondi e tristi di quello strano Alce che, durante il
sogno di quella notte, hanno scrutato nel profondo dei loro cuori.
Enisum,
un moniker particolare che, se letto al contrario, rivela la regione di origine
del gruppo, ossia il Monte Musinè, sulle Alpi Graie, in Val di Susa. La band
(prima un progetto solista, allargato poi ad altri membri) si ispira nemmeno
troppo velatamente alla scena “Cascadian”, ossia quel frangente di black metal
atmosferico di connotazione prettamente USA – North West di cui ormai si sente
molto parlare. Nello specifico, per chi conosce un po’ i gruppi che gravitano
in quella scena, sono chiari i riferimenti in primis agli Alda (soprattutto per
il senso melodico di questo gruppo), ma anche Addaura e Avakr (quando la band
spinge sull’acceleratore); non tirerei in ballo invece Fauna o Wolves in the
Throne Room, non trovando quel senso di tribalità e di “rito” che permea invece
questi due gruppi. Infine, quando i Nostri danno spazio alle sezioni acustiche,
è veramente forte il rimando alle parentesi tipicamente neofolk messe in piede
da molti ensemble cascadiani (gli stessi Alda per esempio, ma anche e
soprattutto gli Agalloch). In generale potrebbe sembrare quindi un gruppo
fortemente derivativo, eppure la loro proposta affascina e cattura l’attenzione
dell’ascoltatore per tutta la durata del disco (circa 45 minuti): lo scream
acido (forse un po’ troppo strozzato, almeno su disco) di Lys (anche chitarra)
si fonde perfettamente con le intelaiature melodiche tessute dalle sei corde,
mentre la sezione ritmica appare preparata, essenziale e molto efficace nella
creazione di crescendo in cui atmosfera e pathos culminano in esplosioni tutto
sommato prevedibili (il genere ormai è stato codificato, c’è poco da fare), ma
non per questo meno piacevoli. Curiosità aggiuntiva, i testi sono in dialetto
locale, con temi trattati che riguardano principalmente il rapporto tra uomo e
natura e la descrizione degli spazi che caratterizzano la Valle di provenienza
del gruppo.
Non
è facile suonare “cascadiano”: sebbene teoricamente semplice questo genere se
messo in pratica può rischiare di risultare finto, artefatto, una copia carbone
di dischi già sentiti. Questo perché, come detto, sono ormai tanti i gruppi che
suonano vantando influenze di questo tipo, e la ricetta è ben conosciuta: unire
un modo di pensare black metal come se si trattasse di post rock a ritmiche ora
fredde e furiose, (come da scuola norvegese), ora più lente, e comunque sempre
alternate a parti più atmosferiche, farcendo il tutto con tematiche incentrate
sulla natura. Gli Enisum seguono alla lettera questo modus operandi ma suonano
veri, potrebbero quasi rivendersi come un gruppo dello stato di Washington o
della British Columbia e nessuno se ne accorgerebbe: questo perché, ad ottime
ed indubbie doti tecniche, uniscono un saper fare musica con il cuore,
traducendo perfettamente in musica le immagini dei posti dai quali provengono.
La
risposta italiana agli Alda quindi? Ancora no, ci sono pur sempre alcune
piccole incertezze che minano il disco, qualche caduta di tono e talvolta dei
momenti un po’ slegati tra loro e meno incisivi, ma in generale la proposta è
ottima, e se avrà la visibilità che si merita (ed il gruppo saprà confermarsi e
migliorarsi) anche il metal italiano potrà vantare un rappresentante della
propria scena “cascadian black metal”, almeno a livello musicale.
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