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giovedì 18 dicembre 2014
Archaic Rites
Aveva assistito decine di volte a quei viaggi, ma non ne aveva mai preso parte: eppure, anche solo da spettatore, era sempre riuscito a carpire un'infinitesima parte di ciò che invece provava ogni volta suo nonno, sciamano del villaggio sulle rive del lago Tahoe. Stavolta però era diverso, stavolta toccava a lui, si trattava del suo primo viaggio, della sua iniziazione.
Qualche ora prima del rito Kiche aveva masticato le foglie di patata selvatica: una dose piccola, dato che un grammo in più gli avrebbe provocato nausea e blocco respiratorio, ma sufficiente a metterlo in condizione di viaggiare in uno stato di sonno vigile (o di veglia sonnacchiosa, come gli piaceva dire ispirandosi forse al comportamento sonnacchioso degli orsi in estate).
Entrato nella capanna c'era un odore intenso di spezie e di erbe tritate e bruciate (sapeva che anche quelle erano ingrediente fondamentale per la sua esperienza): vide subito il letto, un giaciglio di paglicci e rami, e il suo nonno lì accanto, che lo accolse con un sorriso sdentato, il volto devastato dal freddo, dal sole e dalle rughe. Senza una parola gli fece cenno di sdraiarsi, e passandogli una mano sulla fronte lo invitò a chiudere gli occhi. Poi gli mise in mano un capo di una corda, dicendogli di tirarla con forza in caso qualunque cosa avesse visto, sentito o provato "là" potesse costituire un pericolo per lui, tranquillizzandolo sul fatto che lo avrebbe tirato via lui (solo stavolta però, avrebbe dovuto presto imparare a camminare da solo).
Sapeva già come il viaggio sarebbe iniziato, glielo avevano descritto più volte: fuori della "sua" grotta, dentro la quale stava il "suo" animale guida, che avrebbe dovuto conoscere dato che sarebbe stato il suo compagno nei viaggi a venire, fine alla fine dei suoi tempi. E così andò, si ritrovò in una radura verdissima, ma più che una grotta scavata nella roccia pareva essere ricavata da un'enorme parete di ghiaccio: al tatto il freddo intenso si irradiava immediatamente per tutto il corpo, lasciando poi gli arti formicolanti. Si addentrò al suo interno, e la luce del sole che filtrava attraverso l'ingresso si fece di colpo azzurrastra, passando attraverso le pareti semitrasparenti. Poi, di colpo, in penombra, lo vide, il cavallo più grande che avesse mai visto. Grigio, possente, muscoloso, gli occhi rosso sangue, una calma incredibile che lasciava intravedere tutta la sua potenza e forza. Il cavallo lo fissava, e i suoi occhi gli fecero gelare il sangue nelle vene, al punto da chiedersi se non si fosse sbagliato, e se quell'essere, così imponente, potesse essere davvero la sua guida, il compagno di un ragazzo tutto sommato gracile, e per sua ammissione nemmeno tanto coraggioso. Poi fu un lampo, in due battiti di ciglia il cavallo non solo si era avvicinato a lui, ma addirittura aveva fatto in modo di farsi cavalcare, senza che Kiche potesse rendersi conto di niente. Poi fu l'inferno.
L'aria da gelida che era si fece incandescente, la grotta iniziò a crollare sciogliendosi come burro sul fuoco, il terreno si squagliò in lava incandescente. Il ragazzo ebbe un sussulto, stava per tirare la corda quando si accorse che il suo cavallo non solo stava volando (cosa di per sé sconvolgente), ma non si sa come aveva anche otto zampe, che galoppavano sopra la lava senza toccarla, seguendo una strada immaginaria lungo fiumi sotterranei incandescenti e grotte venate da riverberi porpora e azzurri. Kiche aveva paura, pensava di morire, ma il cavallo gli comunicava tranquillità, sapeva che non gli sarebbe potuto accadere nulla finché se ne stava aggrappato alla sua criniera. Poi però una scossa più forte delle altre lo sbalzò: perse il contatto con il crine, e un istante prima di toccare la lava tirò con tutta la sua forza e chiuse gli occhi, mentre già sentiva la sua pelle bruciare.
Quando li riaprì era di nuovo nel suo letto, madido di sudore, con vicino il nonno che lo riaccolse con lo stesso sorriso. Kiche tirò un sospiro di sollievo, poi però si ricordò di aver trascorso solo pochi istanti con il cavallo: e se non fossero bastati a stringere con lui il patto? E se avesse dovuto rifare tutto da capo? Terrorizzato guardò il nonno, nella speranza di una risposta, che arrivò: il nonno gli indicò la sua mano, che era ancora stretta in un pugno di tensione. La aprì, e dentro nascondeva dei crini argentei, che brillarono non appena i suoi occhi vi si posarono sopra, per poi sparire nel nulla. Allora il ragazzo capì che il patto era stato siglato, e nel momento stesso in cui arrivò a questa conclusione un nitrito riecheggiò nella vallata, il nitrito più imponente che avesse mai sentito.
Il quinto album è la gemma della discografia dei Flight Of Sleipnir. Il duo del Colorado release dopo release è stato in grado di affinare la sua unica miscela a base di doom epico, black metal atmosferico, psichedelia, folk e stoner, e questo "V" costituisce la loro consacrazione. In esso tutte le componenti sono perfettamente bilanciate, tutte contribuiscono alla perfetta riuscita di ogni brano, in cui si alternano gelidi scream ad armonizzazioni vocali che, al pari di alcune parentesi chitarristiche, proiettano l'ascoltatore direttamente nella psichedelia sessantiana. Fa da sfondo a tutto il doom fiero e cadenzato che ben si sposa con le tematiche mitologiche norrene trattate nei testi e che sfocia senza soluzione di continuità in fumate stoner talvolta ai limiti del drone (spesso ho sentito dei richiami addirittura agli Angelic Process).
Come già detto si tratta forse del capolavoro nella discografia dei Nostri, che solo con questo "V" hanno raggiunto equilibrio ed eleganza nelle loro composizioni, ed anche se ad un primo ascolto i pezzi non risultano così "easy listening" a causa della loro durata e delle loro strutture sfaccettate, è con il tempo che il lavoro cresce in qualità, stregando ogni volta di più l'ascoltatore.
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martedì 16 dicembre 2014
2014: a (metal) retrospective
Il 2014 è stato un anno per me un po' strano musicalmente: la riscoperta di dischi usciti in anni passati da una parte (alcuni per altro anche notevoli, al punto da inserirli tra i miei ascolti preferiti), ed una strana apatia che mi sono strascinato per gli ultimi mesi dell'anno dall'altra (apatia che mi ha portato a non apprezzare molti lavori che mi apprestavo ad ascoltare) hanno generato una lista tutto sommato esigua. Da aggiungere che:
1) devo ancora ascoltare diversi album molto promettenti, alcuni dei quali usciti proprio in queste settimane, per cui la lista potrebbe essere più lunga;
2) alcuni lavori, che attendevo con ansia e che ero certo, prima di ascoltarli, che sarebbero finiti su questa lista, in realtà mi hanno deluso per alcuni motivi, per cui non li ho ovviamente inclusi. Ci sono state comunque anche alcune conferme, gruppi che non hanno tradito le mie aspettative confezionando album che sono di diritto entrati a far parte dell'elenco dei "best of".
Detto ciò, questi sono i dischi che più mi hanno colpito in questi dodici mesi quasi terminati:
Damien Rice - "My Favourite Faded Fantasy"
Separatosi (solo musicalmente?) da Lisa Hannigan il Nostro ci regala il classico suo disco: pensoso, piovigginoso, piagnone, malinconico e con qualche sferzata elettrica... Insomma, il classico disco à la Damien Rice, che non sorprende più ormai ma che sa regalare comunque momenti di intimità e di calda malinconia.
Harakiri For The Sky - "Aokigahara"
Gran bella sorpresa in campo post black metal. Conoscevo i Nostri già dall'omonimo EP, che però non mi aveva molto colpito non riuscendo a discostarsi molto da canoni standard del genere. In questo lavoro invece gli HFTS sembrano aver imbeccato una propria individualità, fatta di melodia, aggressività e potenza.
Ripetendo quanto scritto in un altro post, "(...) prendendo spunto dall’ariosità dei Deafheaven, dal senso melodico intriso di malinconia dei Thränenkind, e aggiungendo al tutto una buona dose di personalità. Se proprio dobbiamo trovargli un difetto questo si può riscontrare forse nel cantato, uno scream rabbioso che alla lunga però può stancare e sembrare monotono, rimbombando un po’ nelle orecchie dell’ascoltatore quando si sta per toccare gli ultimi pezzi del disco, ma è un dettaglio minore e fortemente legato alla soggettività."
Notevole la cover di "Mad World".
Old Graves - "Like Straining Boughs"
Canadese, la mente dietro al progetto Old Graves ci regala un disco dal sapore vagamente "cascadiano", anche se qui i rimandi sono più verso un blackgaze di stampo naturalistico (dove in genere le ambientazioni sono più "cittadine")... Qualcuno ha parlato di "Agalloch meets Woods of Desolation", e direi che tutto sommato ci siamo: il gusto della melodia e dell'acustico agallochiano si fonda con i muri depressive/shoegaze dei WOD, creando un connubio vincente, affascinante ed appagante per tutta la sua durata. Trattandosi di un EP (anche se un po' più lungo dei canonici EP), li attendo al varco del primo LP!
The Flight Of Sleipnir - "V"
Eccomi di nuovo a parlare di questa strana creatura ibrida tra stoner, doom, folk e black metal. Stavolta i Nostri sembrano essere più ispirati del solito, regalandoci un disco ammaliante e coinvolgente dall'inizio alla fine. In particolare pare che i FOS abbiano stavolta deciso di approfondire il versante heavy della loro proposta (mentre nel precedente "Saga" i toni sembravano essere più calmi e folkeggianti), creando veri e propri muri di distorsioni acide ed epiche, ora liquide e pinkfloydeggianti, ora roboanti e travolgenti. La produzione infine ha qualcosa di old style, sa di analogico e di vinile, è calda e pastosa, e non fa che aumentare il fascino di questo lavoro.
Ghost Brigade - "One With The Storm"
La terza conferma di questa lista, la brigata fantasma torna con un nuovo lavoro che tenta di prendere un po' le distanze dai precedenti dischi del gruppo. Non che ci siano grosse variazioni nello stile della band, sia chiaro: i Nostri sono sempre riconoscibilissimi tra mille, ma cercano di essere meno scontati, tentando di arginare quel sapore di già sentito e di prevedibilità che si cominciava ad avvertire nelle loro produzioni. Ne consegue che non sempre le strutture canoniche sono rispettate, per cui ad esempio ad un crescendo strumentale in clean potrebbe non seguire un'esplosione di rabbia in growl come i Nostri ci hanno abituato, rimescolando quindi le carte in tavola e mettendo un po' di verve nel loro lavoro. Ripeto, nulla di nuovo, ma pare che anche i GB si siano resi conto che qualcosa andava cambiato, ed hanno iniziato ad intraprendere questa strada.
Come anticipato ci sono poi alcuni lavori che sono in attesa di essere ascoltati, potenzialmente ottimi concorrenti per questa lista, che possono essere citati al momento solo a parte, in attesa di un ascolto approfondito e, magari, uno "slittamento" nel paragrafo sopra:
Earth and Pillars - "Earth I"
Fen - "Carrion Skies"
Immorior - "Herbstmär"
Lotus Thief - "Rervm"
More Than Life - "What’s Left Of Me"
Barrowlands - "Thane"
Cuckoo's Nest - "Everything Is Not As It Was"
Redwood Hill - "Collider"
Infine le delusioni, quei dischi sulla carta detentori di un posto nell'elenco ma che in realtà mi hanno un po' tradito:
Saor - "Aura"
Credo si sia trattato di una cattiva produzione su CD, con volumi della batteria per il mio parere altissimi che nascondevano la voce e gli altri strumenti, rimbombando e creando un effetto un po' caotico. I pezzi di per sé possono anche non essere brutti (certo non al pari di "Roots"!) ma questo difetto non me li ha fatti piacere e mi ha distratto molto durante l'ascolto;
Falls Of Rauros - "Believe in No Coming Shore"
Ho trovato il disco un po' confusionario, pretenzioso e lontano dalle precedenti produzioni dei nostri, a mio avviso più sanguigne e vere;
Panopticon - "Roads To The North"
Anche qui, arruffìo, confusione e voglia di strafare: niente da fare, questo gruppo non riesce a piacermi;
I Love You But I've Chosen Darkness - "Dust"
Li ho attesi molto, quando ho letto dell'uscita del seguito del favoloso "Fear Is On Our Side" non ho creduto alle mie orecchie, e quando l'ho ascoltato mi ha lasciato un po' di amaro in bocca: il disco parte molto bene, con alcuni pezzi davvero tirati ed epici, ma poi non so come si perde per strada, per non ritrovarsi più. Anche il predecessore subiva una flessione sulla metà ma si sapeva poi riprendere (e come!) ma in questo lavoro pare manchi qualcosa. La ciliegina sulla torta? Il fatto che sia prevista solo una versione in vinile... Buuuuuuuuuuu!
Agalloch - "The Serpent & the Sphere"
...e qui casca l'asino. Sì perché mi ha fatto una sensazione stranissima non apprezzare l'ultimo lavoro dei maestri di Portland, ma non c'è modo di farmelo piacere. La sensazione che ho avuto di confusione, di collage di pezzi rubati ad altre loro canzoni, di disco poco ispirato, continua a ripresentarsi anche dopo svariati ascolti. I pezzi interessanti ci sono ma non hanno mordente, sembra che i Nostri abbiano intrapreso un fare filosofico un po' troppo pretenzioso e musicalmente avanguardista, che ha perso quell'odore di bosco durante un temporale che si erano invece portati dietro fino almeno a "Marrow of the Spirit" incluso.
Restano sempre tra i miei preferiti, ma stavolta non possono stare tra i migliori dell'anno.
Insomma, non è stata una bellissima annata: tante uscite, poche (per me) all'altezza, ma anche alcune ottime scoperte riguardanti dischi usciti negli anni passati, che alla fine mi hanno permesso di aggiungere almeno una decina di lavori al mio bagaglio di opere imprescindibili o quasi.
Alla prossima!
1) devo ancora ascoltare diversi album molto promettenti, alcuni dei quali usciti proprio in queste settimane, per cui la lista potrebbe essere più lunga;
2) alcuni lavori, che attendevo con ansia e che ero certo, prima di ascoltarli, che sarebbero finiti su questa lista, in realtà mi hanno deluso per alcuni motivi, per cui non li ho ovviamente inclusi. Ci sono state comunque anche alcune conferme, gruppi che non hanno tradito le mie aspettative confezionando album che sono di diritto entrati a far parte dell'elenco dei "best of".
Detto ciò, questi sono i dischi che più mi hanno colpito in questi dodici mesi quasi terminati:
Damien Rice - "My Favourite Faded Fantasy"
Separatosi (solo musicalmente?) da Lisa Hannigan il Nostro ci regala il classico suo disco: pensoso, piovigginoso, piagnone, malinconico e con qualche sferzata elettrica... Insomma, il classico disco à la Damien Rice, che non sorprende più ormai ma che sa regalare comunque momenti di intimità e di calda malinconia.
Harakiri For The Sky - "Aokigahara"
Gran bella sorpresa in campo post black metal. Conoscevo i Nostri già dall'omonimo EP, che però non mi aveva molto colpito non riuscendo a discostarsi molto da canoni standard del genere. In questo lavoro invece gli HFTS sembrano aver imbeccato una propria individualità, fatta di melodia, aggressività e potenza.
Ripetendo quanto scritto in un altro post, "(...) prendendo spunto dall’ariosità dei Deafheaven, dal senso melodico intriso di malinconia dei Thränenkind, e aggiungendo al tutto una buona dose di personalità. Se proprio dobbiamo trovargli un difetto questo si può riscontrare forse nel cantato, uno scream rabbioso che alla lunga però può stancare e sembrare monotono, rimbombando un po’ nelle orecchie dell’ascoltatore quando si sta per toccare gli ultimi pezzi del disco, ma è un dettaglio minore e fortemente legato alla soggettività."
Notevole la cover di "Mad World".
Old Graves - "Like Straining Boughs"
Canadese, la mente dietro al progetto Old Graves ci regala un disco dal sapore vagamente "cascadiano", anche se qui i rimandi sono più verso un blackgaze di stampo naturalistico (dove in genere le ambientazioni sono più "cittadine")... Qualcuno ha parlato di "Agalloch meets Woods of Desolation", e direi che tutto sommato ci siamo: il gusto della melodia e dell'acustico agallochiano si fonda con i muri depressive/shoegaze dei WOD, creando un connubio vincente, affascinante ed appagante per tutta la sua durata. Trattandosi di un EP (anche se un po' più lungo dei canonici EP), li attendo al varco del primo LP!
The Flight Of Sleipnir - "V"
Eccomi di nuovo a parlare di questa strana creatura ibrida tra stoner, doom, folk e black metal. Stavolta i Nostri sembrano essere più ispirati del solito, regalandoci un disco ammaliante e coinvolgente dall'inizio alla fine. In particolare pare che i FOS abbiano stavolta deciso di approfondire il versante heavy della loro proposta (mentre nel precedente "Saga" i toni sembravano essere più calmi e folkeggianti), creando veri e propri muri di distorsioni acide ed epiche, ora liquide e pinkfloydeggianti, ora roboanti e travolgenti. La produzione infine ha qualcosa di old style, sa di analogico e di vinile, è calda e pastosa, e non fa che aumentare il fascino di questo lavoro.
Ghost Brigade - "One With The Storm"
La terza conferma di questa lista, la brigata fantasma torna con un nuovo lavoro che tenta di prendere un po' le distanze dai precedenti dischi del gruppo. Non che ci siano grosse variazioni nello stile della band, sia chiaro: i Nostri sono sempre riconoscibilissimi tra mille, ma cercano di essere meno scontati, tentando di arginare quel sapore di già sentito e di prevedibilità che si cominciava ad avvertire nelle loro produzioni. Ne consegue che non sempre le strutture canoniche sono rispettate, per cui ad esempio ad un crescendo strumentale in clean potrebbe non seguire un'esplosione di rabbia in growl come i Nostri ci hanno abituato, rimescolando quindi le carte in tavola e mettendo un po' di verve nel loro lavoro. Ripeto, nulla di nuovo, ma pare che anche i GB si siano resi conto che qualcosa andava cambiato, ed hanno iniziato ad intraprendere questa strada.
Come anticipato ci sono poi alcuni lavori che sono in attesa di essere ascoltati, potenzialmente ottimi concorrenti per questa lista, che possono essere citati al momento solo a parte, in attesa di un ascolto approfondito e, magari, uno "slittamento" nel paragrafo sopra:
Earth and Pillars - "Earth I"
Fen - "Carrion Skies"
Immorior - "Herbstmär"
Lotus Thief - "Rervm"
More Than Life - "What’s Left Of Me"
Barrowlands - "Thane"
Cuckoo's Nest - "Everything Is Not As It Was"
Redwood Hill - "Collider"
Infine le delusioni, quei dischi sulla carta detentori di un posto nell'elenco ma che in realtà mi hanno un po' tradito:
Saor - "Aura"
Credo si sia trattato di una cattiva produzione su CD, con volumi della batteria per il mio parere altissimi che nascondevano la voce e gli altri strumenti, rimbombando e creando un effetto un po' caotico. I pezzi di per sé possono anche non essere brutti (certo non al pari di "Roots"!) ma questo difetto non me li ha fatti piacere e mi ha distratto molto durante l'ascolto;
Falls Of Rauros - "Believe in No Coming Shore"
Ho trovato il disco un po' confusionario, pretenzioso e lontano dalle precedenti produzioni dei nostri, a mio avviso più sanguigne e vere;
Panopticon - "Roads To The North"
Anche qui, arruffìo, confusione e voglia di strafare: niente da fare, questo gruppo non riesce a piacermi;
I Love You But I've Chosen Darkness - "Dust"
Li ho attesi molto, quando ho letto dell'uscita del seguito del favoloso "Fear Is On Our Side" non ho creduto alle mie orecchie, e quando l'ho ascoltato mi ha lasciato un po' di amaro in bocca: il disco parte molto bene, con alcuni pezzi davvero tirati ed epici, ma poi non so come si perde per strada, per non ritrovarsi più. Anche il predecessore subiva una flessione sulla metà ma si sapeva poi riprendere (e come!) ma in questo lavoro pare manchi qualcosa. La ciliegina sulla torta? Il fatto che sia prevista solo una versione in vinile... Buuuuuuuuuuu!
Agalloch - "The Serpent & the Sphere"
...e qui casca l'asino. Sì perché mi ha fatto una sensazione stranissima non apprezzare l'ultimo lavoro dei maestri di Portland, ma non c'è modo di farmelo piacere. La sensazione che ho avuto di confusione, di collage di pezzi rubati ad altre loro canzoni, di disco poco ispirato, continua a ripresentarsi anche dopo svariati ascolti. I pezzi interessanti ci sono ma non hanno mordente, sembra che i Nostri abbiano intrapreso un fare filosofico un po' troppo pretenzioso e musicalmente avanguardista, che ha perso quell'odore di bosco durante un temporale che si erano invece portati dietro fino almeno a "Marrow of the Spirit" incluso.
Restano sempre tra i miei preferiti, ma stavolta non possono stare tra i migliori dell'anno.
Insomma, non è stata una bellissima annata: tante uscite, poche (per me) all'altezza, ma anche alcune ottime scoperte riguardanti dischi usciti negli anni passati, che alla fine mi hanno permesso di aggiungere almeno una decina di lavori al mio bagaglio di opere imprescindibili o quasi.
Alla prossima!
giovedì 27 novembre 2014
Be nice
L'aria era fresca, non fredda, sebbene fossimo a gennaio: merito forse del mare, che vicino com'è alla città in qualche modo ne mitiga la temperatura. Decidiamo di fare una cosa diversa, e di spostarci con l'autobus proprio verso il mare, verso la spiaggia della città, verso Portobello. Sono malato me ne rendo conto, ma tutto in questa città mi affascina e mi strega, ed il fatto di avere nello stesso posto highlands, laghi, luoghi storici incantevoli, una cultura incredibile ed una spiaggia mi aveva messo in uno stato di febbrile eccitazione sin dal risveglio.
Man mano che ci avviciniamo a destinazione l'ambiente cambia: case più colorate e più basse, un'atmosfera quasi più da villaggio della Cornovaglia che da capitale della Scozia, insegne e negozi che sembrano usciti dagli anni Cinquanta. Scesi dall'autobus una pioggerellina leggera ci accoglie, ma ci siamo abituati, e pochi passi dopo eccoci di fronte al mare: qui tutto è perfetto, mi sembra di vivere una scena di "Eternal Sunshine Of The Spotless Mind". Nonostante la pioggia ci sono bambini che, in piumino, giocano scalzi sulla sabbia, e con le loro palette vanno a raccogliere la sabbia bagnata dalle onde per poi riportarla indietro e farci castelli, il tutto sotto gli occhi dei genitori che parlano con in mano immancabili bicchieroni di caffè.
Poco più in là i cani giocano sulla sabbia, si rincorrono e rincorrono i giochi lanciati dai loro padroni. L'aria è frizzante ma il tempo sembra fermo, fissato in una foto che posso vivere, in cui tutto sembra essere al suo posto, e quel baracchino che vende cioccolata calda sul lungomare ha il fascino di una scoperta che non ti aspettavi, e che sembra essere lì apposta per te, per farti commuovere di fronte a tanto stare bene.
Di fatto non succede nulla, te ne stai seduto su uno sgabello con la tua ragazza, sorseggiando una cioccolata calda, giocherellando con i marshmallows che ti ci hanno messo, e conversando con gli affabili proprietari del chiosco, con intorno solo il suono del mare, il vociare dei bambini ed i cani che abbaiano, ma è tutto ciò di cui hai bisogno per stare bene. Ed è bello quando sono le piccole cose a darti felicità e a farti sorridere, ed è ancora più bello quando, a distanza di quasi un anno, riesci a rivivere quelle stesse sensazioni come se tu fossi ancora lì, e le senti al punto tale da farti quasi piangere per la gioia e per la nostalgia.
"We are a band from Glasgow, Scotland, and we enjoy making music." Così, semplicemente, i There Will Be Fireworks (da ora in poi TWBF) si presentano a chi si avvicina a loro. Li ho conosciuti per via della loro etichetta, di base ad Edimburgo, ma appena mi sono apprestato ad ascoltare "The Dark Dark Bright" per la prima volta mi sono subito innamorato di questo gruppo. I Nostri propongono un genere avvicinabile, generalizzando, al post rock: frequenti sono i climax emozionali, che partono da semplici arpeggi acustici o da un crescendo basso-batteria per poi esplodere in una corale travolgente e sbalorditiva in quanto a impatto sull'ascoltatore. Nei pezzi che compongono questo disco sento note di Explosions in the Sky, ma anche di Damien Rice (la consolatoria delicatezza dell'irlandese è ben presente anche nella voce del cantante di questa band), degli Arcade Fire e dei GY!BE (nell'epicità sinfonica e nei crescendo di alcuni pezzi) e dei Brand New (tanti piccoli richiami a "The Devil and God...").
I TWBF non inventano niente, credo sia chiaro, (anche perché in questo genere cos'altro puoi inventare ancora quando ci sono i Godspeed, per dirne uno a caso?), fanno però una cosa semplice, sanno emozionare. E lo fanno con cose altrettanto semplici e forse scontate, giocano con i ricordi, con i sorrisi e le lacrime, consolano e fanno sorridere, ti mettono a tuo agio, ti fanno pensare e ti tengono compagnia. Insomma, sono come quella cioccolata calda presa sul lungomare di Portobello a Edimburgo lo scorso gennaio: qualcosa di piccolo, insignificante, ma che ogni volta che ci ripensi sa darti calma, sa ricordarti di un momento felice, e, magari, sa farti un po' commuovere.
River
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https://www.debaser.it/recensionidb/ID_41720/There_Will_Be_Fireworks_The_Dark_Dark_Bright.htm
giovedì 20 novembre 2014
Visualize vast wilderness
Visualize
vast wilderness.
Un
giorno la Dea Alce prese vita dalle radici di un vecchio albero, troncato dalla
smania umana di costruire sempre nuovi palazzi togliendo spazio vitale alle
foreste. La nebbia si condensò attorno alle foglie marce che riposavano a
terra, che subito al suo passaggio ripresero vita e colore, tingendosi di un
verde lucente ed animandosi come sospinte da un dolce vento; le radici
interrate riemersero, si riannodarono, si alzarono verso il cielo, e da esse si
rigenerò la Dea. Antropomorfa, la testa di Alce, raccolse da terra i teschi di
tre animali che erano stati lasciati lì a morire, avvelenati dagli scarichi
delle fabbriche non troppo lontane, e al suo tocco questi divennero Lupo, Cervo
e Volpe, messaggeri del risveglio della Natura incarnata nel corpo della Dea.
La
Dea li guardò compiaciuta, e solo con lo sguardo i tre animali intesero quale
sarebbe stato il loro compito: i quattro si voltarono verso la città, verso le
luci e le ciminiere, e a passi lenti si avviarono verso l’uomo. Ogni loro passo
era una pianta che nasceva, dove poggiavano piedi o zampe fiori, foglie, frutti
e radici riprendevano vita, e con una folata di vento sputavano verso il cielo
le tossine ed i veleni dei quali si erano nutriti fino a quel momento,
riprendendo così vita e forza. Alle soglie della città la Dea si fermò, poggiò
le mani a terra, e da esse si generarono due scosse che squarciarono in due le
fabbriche che trovarono sulla loro strada, inghiottendo manager in cravatta e
ricchi industriali che, nonostante l’ora tarda, erano rimasti all’interno degli
edifici a contare i loro soldi sporchi di petrolio e veleno. Dai crateri che si
generarono emersero piante radici ed alberi, che continuarono l’opera
avvolgendo con le loro spire tutto ciò che aveva fino a quel momento soffocato
la loro esistenza, riappropriandosi di spazi che erano loro.
Le
persone, impaurite, corsero nelle strade: intorno a loro si stava scatenando
l’apocalisse, e nessuna preghiera o nessuna fede poteva arrestare le loro
paure. Poi il fitto muro creato dagli alberi si aprì, e da essi emerse la Dea
ed i suoi tre emissari. Nessuno osò dire una parola, tra gli uomini c’era chi
si inchinava, chi si metteva a piangere, chi fuggiva, chi annuiva: tutti però
avevano di colpo capito cosa stava succedendo, avevano immediatamente preso
coscienza delle loro colpe che avevano costretto la Natura a riprendersi con la
forza ciò che le era stato preso. L’Alce fissava un punto fisso in mezzo alla
gente, ma era come se ogni persona si sentisse scrutata nella sua anima, nuda
come un verme e messa di fronte alle proprie colpe.
Poi
i tre messaggeri si accucciarono, la Dea alzò le braccia, ed un caldo turbine
di foglie avvolse tutte le persone, nascondendole per qualche attimo: quando la
polvere alzata da questo vento si posò tutti dormivano, e non c’era più traccia
di Lupo, Cervo e Volpe, e anche l’Alce antropomorfa era sparita.
L’alba
ed il sole sorpresero le persone mentre dormivano in terra, acciambellate come
gatti: quando aprirono gli occhi le fabbriche, le case, tutto era lì, dove le
avevano lasciate. Si guardarono negli occhi, e capirono di aver fatto lo stesso
terribile sogno. Poi le porte delle fabbriche si aprirono, ed uscirono i
manager e gli industriali, pallidi, sudati e dagli occhi sgranati, come se
fossero appena tornati dalla terra dei morti: muti, all’unisono, fecero tutti
lo stesso gesto, disattivarono immediatamente i generatori delle loro
fabbriche, e come in trance si sedettero in terra a fissare il cielo,
sbigottiti. Le trivelle si fermarono, le pompe cessarono il loro lavoro e si
arrestò la fitta coltre di fumo che fino a quel momento si era alzata dalle
ciminiere; un fresco vento mattutino diradò il poco fumo che ancora rimaneva
nel cielo.
Poi
tutti quanti, come chiamati da una voce nelle loro teste, camminarono verso il
vicino bosco, raggiungendo una radura: a terra tre teschi di animali, di lupo
di cervo e di volpe, ed una veste bianca da donna appesa ad un ramo di un
vecchio tronco. Gli uomini raccolsero questi oggetti, li sotterrarono nella
radura, pregarono ognuno nella propria lingua e secondo il proprio credo, e se
ne tornarono verso le loro case ancora un po’ confusi, con ben impressi però in
mente gli occhi neri, profondi e tristi di quello strano Alce che, durante il
sogno di quella notte, hanno scrutato nel profondo dei loro cuori.
Enisum,
un moniker particolare che, se letto al contrario, rivela la regione di origine
del gruppo, ossia il Monte Musinè, sulle Alpi Graie, in Val di Susa. La band
(prima un progetto solista, allargato poi ad altri membri) si ispira nemmeno
troppo velatamente alla scena “Cascadian”, ossia quel frangente di black metal
atmosferico di connotazione prettamente USA – North West di cui ormai si sente
molto parlare. Nello specifico, per chi conosce un po’ i gruppi che gravitano
in quella scena, sono chiari i riferimenti in primis agli Alda (soprattutto per
il senso melodico di questo gruppo), ma anche Addaura e Avakr (quando la band
spinge sull’acceleratore); non tirerei in ballo invece Fauna o Wolves in the
Throne Room, non trovando quel senso di tribalità e di “rito” che permea invece
questi due gruppi. Infine, quando i Nostri danno spazio alle sezioni acustiche,
è veramente forte il rimando alle parentesi tipicamente neofolk messe in piede
da molti ensemble cascadiani (gli stessi Alda per esempio, ma anche e
soprattutto gli Agalloch). In generale potrebbe sembrare quindi un gruppo
fortemente derivativo, eppure la loro proposta affascina e cattura l’attenzione
dell’ascoltatore per tutta la durata del disco (circa 45 minuti): lo scream
acido (forse un po’ troppo strozzato, almeno su disco) di Lys (anche chitarra)
si fonde perfettamente con le intelaiature melodiche tessute dalle sei corde,
mentre la sezione ritmica appare preparata, essenziale e molto efficace nella
creazione di crescendo in cui atmosfera e pathos culminano in esplosioni tutto
sommato prevedibili (il genere ormai è stato codificato, c’è poco da fare), ma
non per questo meno piacevoli. Curiosità aggiuntiva, i testi sono in dialetto
locale, con temi trattati che riguardano principalmente il rapporto tra uomo e
natura e la descrizione degli spazi che caratterizzano la Valle di provenienza
del gruppo.
Non
è facile suonare “cascadiano”: sebbene teoricamente semplice questo genere se
messo in pratica può rischiare di risultare finto, artefatto, una copia carbone
di dischi già sentiti. Questo perché, come detto, sono ormai tanti i gruppi che
suonano vantando influenze di questo tipo, e la ricetta è ben conosciuta: unire
un modo di pensare black metal come se si trattasse di post rock a ritmiche ora
fredde e furiose, (come da scuola norvegese), ora più lente, e comunque sempre
alternate a parti più atmosferiche, farcendo il tutto con tematiche incentrate
sulla natura. Gli Enisum seguono alla lettera questo modus operandi ma suonano
veri, potrebbero quasi rivendersi come un gruppo dello stato di Washington o
della British Columbia e nessuno se ne accorgerebbe: questo perché, ad ottime
ed indubbie doti tecniche, uniscono un saper fare musica con il cuore,
traducendo perfettamente in musica le immagini dei posti dai quali provengono.
La
risposta italiana agli Alda quindi? Ancora no, ci sono pur sempre alcune
piccole incertezze che minano il disco, qualche caduta di tono e talvolta dei
momenti un po’ slegati tra loro e meno incisivi, ma in generale la proposta è
ottima, e se avrà la visibilità che si merita (ed il gruppo saprà confermarsi e
migliorarsi) anche il metal italiano potrà vantare un rappresentante della
propria scena “cascadian black metal”, almeno a livello musicale.
giovedì 18 settembre 2014
Fàilte Gu Alba
"Home...
Oceans of grass from horizon to horizon, further than you can ride.
The sky, bigger than you can imagine.
No boundaries.
Some peopIe wouId caII that freedom."
Oggi è il giorno che ogni Scozzese ha sempre aspettato, e forse temuto, oggi si vota per l'indipendenza.
Per la vicinanza che sento con quel popolo e con la sua cultura io stesso se mi fermo un attimo a pensare a cosa farei se fossi scozzese sento una certa pressione addosso: forse ho mitizzato la cosa, ma credo che se stasera alle 22:00 il "sì" avrà avuto la meglio sul "no" un'importante pagina della storia verrà scritta. Se il "sì" avrà la meglio il 24 marzo 2016, 309 anni dopo l'Act Of Union con l'Inghilterra, la Scozia sarà libera e padrona del suo destino, libera di fallire e impoverirsi o di risplendere in tutta la sua bellezza, responsabile dei suoi successi come dei sui fallimenti, in grado di gestire in autonomia il suo potenziale ed eventualmente crollare in ginocchio sotto i colpi di una crisi che potrebbe non sostenere. Insomma, potrà fare quanto profetizzato nell'anthem "Flower of Scotland": "(...) we can still rise now, And be the nation again, That stood against him, Proud Edward's army, And sent him homeward Tae think again"
Scozia indipendente potrebbe significare (al negativo) niente sterlina per loro, niente monarchia (il che ovviamente è per il paese un fatto positivo), una nuova candidatura per entrare in UE; si tradurrebbe però (in positivo) in una migliore gestione delle ricchezze del territorio in termini di turismo, petrolio, banche, industrie e quant'altro risieda nel nord dell'attuale Gran Bretagna, un ingresso in Europa (e con l'Euro?), e comunque una permanenza nel Commonwealth.
La scelta è tosta, Londra ha promesso molte aperture e concessioni in caso l'indipendenza non vada in porto, ma penso che sotto sotto temano un po' anche loro questo momento. Sinceramente non saprei cosa votare: il mio cuore andrebbe indubbiamente verso il "sì", cresciuto come sono con il mito di queste terre fiere orgogliose e battagliere, ma siccome oggi conta (e non poco) il "grisbi", forse più dell'onore, dell'orgoglio e del cipiglio, forse converrebbe propendere per il "no".
Una cosa è sicura: un momento come questo difficilmente accadrà, per cui se il popolo scozzese si sente realmente in grado di camminare da solo che si sollevi e si proclami libero, e si accolli le responsabilità del caso. Se fallirà ed entrerà in crisi come molti prospettano spero che questo momento buio verrà affrontato con il coraggio e l'orgoglio con il quale si sta ora proclamando l'indipendenza... Della serie, morire con onore almeno.
Qualunque sia il risultato del referendum rimarrò sempre legato a questa terra e fiero dei suoi colori e della sua gente: un'idea romantica forse la mia, ma non essendo scozzese e non vivendo su suolo albionico mi basta per alimentare i miei sogni.
"We are sorrow's children
Torn from Alba's womb
A reflection of fallen martyrs
The lifeblood of this land
We are the mountains of heather
And the desolate moorland below
Aurora and darkness
The pathos of the afterglow
We are the forsaken
Ancient echoes in the breeze
The fallen leaves of autumn
Withering away"
A Highland Lament
domenica 10 agosto 2014
Fuori portata
"Guardami, fammi un cenno di avvicinarmi, o alzati e vieni tu da me, fa lo stesso, ma così non è vita. Facciamo finta che oggi non sia iniziato, facciamo finta che i giorni tristi non siano mai esistiti, cerchiamo la nostra felicità in noi due e chiudiamoci agli altri, che ti e ci creano solo problemi. Sappiamo entrambi quali sono i nostri ruoli, sappiamo entrambi che non smetterò mai di esserci per te e di ascoltarti quando ne avrai bisogno. Non ha senso per te preoccuparti per gli altri, fai come me, viviamo per noi e per nessun altro. E se oggi qualcosa è andato storto perdonami, ma da parte mia non c'era alcuna intenzione di venir meno a quello che ho giurato di fare.
Ora voltati e guardami, perché l'essere così vicini eppure così lontani mi fa male più di ogni ferita, e il saperti chiusa e che non ti fidi più di me mi rende più solo di quanto non sia mai stato."
Ora voltati e guardami, perché l'essere così vicini eppure così lontani mi fa male più di ogni ferita, e il saperti chiusa e che non ti fidi più di me mi rende più solo di quanto non sia mai stato."
...alla fine poi ci siamo nuovamente abbracciati, ed è stato, davvero, come se nulla fosse successo...
giovedì 7 agosto 2014
...Ché mai vi fu una storia così piena di dolore come questa
“Dai fatali lombi di due nemici discende una coppia di amanti, nati sotto cattiva stella, il cui tragico suicidio porrà fine al conflitto.”
La cripta lo avvolge con il suo umido calore, che gli si incolla addosso come una guaina pian piano che scende gli scalini illuminati da un’incerta luce del sole che sta sorgendo, che a malapena filtra dalle piccole finestre.
Nel mezzo alla stanza, su un letto di marmo, sta lei, la persona che più aveva amato nella sua vita, quel lampo di gioia che, seppur breve, gli aveva dato modo di pensare che forse il loro amore avrebbe convinto le loro famiglie a smettere di darsi battaglia e a massacrarsi come era accaduto fino a quel momento.
Le lacrime agli occhi, la rabbia nel cuore, ed una pozione in mano: la sua mente è un turbine di pensieri, ma solo uno emerge sugli altri, la voglia di raggiungerla, là dove nessun altro li avrebbe potuti separare.
Le si avvicina per porgerle l'estremo saluto. “E così con un bacio io muoio”, e si accascia a terra su un cuscino di muschio.
Di lì a poco lei riapre gli occhi: il piano era riuscito, il finto veleno aveva inscenato una morte fasulla che aveva ingannato tutti… Ma proprio tutti, anche chi non doveva trarre in inganno. Fa per voltarsi verso la porta e lo riconosce, riconosce quel viso giovane dalla pelle baciata dai primi raggi del sole, quei lineamenti che avrebbe voluto accarezzare per tutta la vita, corre da lui per abbracciarlo, ma ormai è finita, qualcuno se lo è già portato via con un colpo di falce. E’ in preda al panico e alla disperazione, non avrà più modo di sentire la sua voce e vedere i suoi occhi brillare. Ma proprio un luccichio attira la sua attenzione, il pugnale di lui. Con la mano tremante lo afferra: “Pugnale benedetto! Ecco il tuo fodero...” E trafiggendo il suo triste cuore, “qui dentro arrugginisci, e dammi morte”.
Ed eccoli, abbracciati per sempre l’uno accanto all’altra. “Una triste pace porta con sé questa mattina: il sole, addolorato, non mostrerà il suo volto. Andiamo a parlare ancora di questi tristi eventi. Alcuni avranno il perdono, altri un castigo. Ché mai vi fu una storia così piena di dolore come questa di Giulietta e del suo Romeo”
Chi sono i So Hideous? Fino a qualche tempo fa conosciuti con il monicker “So Hideous, My Love”, il quartetto newyorkese da alle stampe il primo LP (dopo alcuni EP molto ben accolti) dal titolo “Last Poem/First Light”, e fa centro. Colpisce piacevolmente la ricetta di questi ragazzi, uno strano ibrido tra violenza (post) black metal, la sofferenza di matrice (ancora, post) hardcore e certe atmosfere sognanti che fanno da cornice al tutto, create addirittura da un’orchestra sinfonica. C’è dolore in queste sei tracce di poco più di mezz’ora di durata, c’è un ripiegarsi su se stessi figlio dello screamo e del male di vivere che tanto fiorisce nelle recenti produzioni post black metal, ma c’è anche tanta epicità, merito dei crescendo orchestrali che fanno salire il pathos di pari passo con la foga e l’urgenza delle liriche. Ascoltando il disco vengono in mente tanti gruppi che navigano bellavente nei confini tra post black metal e post hardcore, gente come Harakiri for the Sky, Lantlôs (non gli ultimi), Thränenkind, Envy, Elijah, A Hope for Home, e tutta la frangia "post" più emozionale ... Gente che patisce insomma, che si scartavetra la gola e si brucia le mani suonando e mettendo in musica i loro sentimenti.
Si tratta di un album di ottimo livello ma di non facile fruibilità: ha bisogno di decantare e di crescere con gli ascolti. Un consiglio: in cuffia, senza distrazioni, e a volume sparato fino al sopportabile. Le orecchie sanguineranno ma i brividi lungo la schiena ed i peli drizzati sulle braccia vi diranno che avete fatto la scelta giusta decidendo di perdere tempo dietro a questi inconsolabili e teatrali piagnucoloni.
ACQUISTALO QUI
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_41169/So_Hideous_Last_PoemFirst_Light.htm
lunedì 26 maggio 2014
giovedì 22 maggio 2014
Quando il vento smetterà di soffiare
Alle volte rimani colpito da persone che non conosci semplicemente guardandole in foto, o leggendo cosa altri dicono di loro. E' successo anche questa mattina.
E' come nei cartoni animati, quando un quintale di mattoni crolla in testa al malcapitato di turno: ti senti gelato, inebetito da quello che hai appena letto, non ti dai spiegazioni ma ci rimani male, di cuore, perché la cosa ti ha toccato in un modo che non capisci.
Wilhelm aveva un anno più di me: qualche settimana fa aveva deciso di mettere in standby la propria etichetta, per ragioni di tempo e per momentanea mancanza di voglia e di stimoli. La cosa mi aveva fatto rimanere un po' male, anche perché era un'etichetta carina, in grado di scovare nel fitto underground di band "strane" del Nord America (ma non solo) vere gemme. Ho detto "strane" perché Wilhelm era molto trasversale nei suoi gusti musicali, passando con disinvoltura dal black metal caotico e tendente al noise al post black sognante ed etereo, ma tutto ciò che decideva di produrre, tutte le passioni che assecondava, sapevi che erano centellinate ma che erano di notevole fattura. Anche perché spesso e volentieri le confezioni di questi album erano curate da lui stesso, assemblate da lui una per una, spesso in poche copie numerate. Era insomma una persona che, quando credeva in qualcosa, ci si buttava a capofitto, con la modestia che i suoi occhi ed il suo sorriso mi hanno comunicato subito anche quella mattina in cui ho letto che se ne era andato.
E' stata sua moglie a dare questo annuncio, senza dare spiegazioni, dicendo solo "...Wilhelm is no longer among us". Il post continuava parlando di questo ragazzo, di come fosse in grado di illuminare con il suo spirito le persone e le cose che aveva intorno, e chiudendo con "Wilhelm, darling-- please rest in peace, the world is a little less bright without you..."
Arrivato alla fine del messaggio come detto non sapevo cosa pensare, avevo solo gran confusione in testa, con immagini e suoni che si legavano tra loro. Due foto in particolare mi sono tornate in mente, collegate ad un disco specifico.
In una c'era una ragazza, con gli occhi tristi, infreddolita sebbene la foto fosse bagnata da tinte tutto sommato calde, autunnali. La ragazza teneva in mano una tazzona forse di caffè, e stava seduta (credo) sul sedile posteriore di un'auto tutta stretta attorno ad un giaccone a righe sformato... Se non fosse stato per i colori e per altri particolari avrei detto che si trattava di una reduce di un campo di concentramento.
Nella seconda foto c'era invece una casa, con alla sua sinistra un bellissimo albero in fiore (pareva un pesco), e sullo sfondo altre case isolate. La cosa bella di questa immagine, al di là dell'effettiva rilevanza estetica, stava nel fatto che la foto era stata scattata in pieno inverno (c'era neve in terra e sul tetto delle case), ma l'albero si ostinava a fiorire, con le sue foglie che brillavano dorate immerse in una luce che tanto mi ricordava quella che caratterizzava la foto precedente.
Il disco che ho istintivamente legato a queste foto, a Wilhelm, e alla sua storia, è un disco dolce e freddo, lontano e raggelante come il vento che soffia di continuo citato nel suo titolo. E' un disco che parla di amore, di abbandono, di malinconia e di dolcezza, e lo fa con parole scandite lentamente ma urlate da lontano, come se fosse lo stesso vento a trasportarle. La musica, lontano dall'essere aggressiva (sebbene nasca da un genere che faceva della rabbia e della ferocia la sua ragion d'essere) sa essere sferzante, sa tagliare ma non è repulsiva, ti attrae in maniera ipnotica e ti avvolge... Proprio come quel cappotto sformato di quella ragazza. E anche la sensazione di caldo/freddo veicolata dai pezzi è la stessa che la luce con la quale sono state scattate le foto dona ai volti e ai paesaggi.
Il gruppo (anche se di fatto si tratta di una sola persona) che ha fatto questo disco lo ha dedicato alla ragazza in copertina (la madre dell'artista), ma leggendo il post della moglie di Wilhelm il collegamento con lui è stato automatico, e credo che anche lo stesso artista (il cui disco è stato pubblicato proprio dall'etichetta di Wilhelm) leggendo la notizia immediatamente avrà ricollegato le cose.
Ormai sono alcuni giorni che è comparso questo post ma ancora ci penso, e non me ne faccio una ragione: penso che lui aveva quasi la mia età, penso a cosa possa essere successo per aver interrotto così bruscamente la sua vita, e penso all'enorme, immenso, freddo vuoto che lasci quando te ne vai così, da un giorno all'altro: anche se, ne sono sempre stato convinto, se sei una persona buona, se hai fatto alcune belle cose per chi ti sta intorno, quando te ne andrai lascerai comunque un alone dorato, una presenza, un profumo che le persone ricondurranno sempre e assoceranno sempre a te. Così sarà anche per Wilhelm, così è stato, almeno per quanto mi riguarda, per David Gold prima di lui.
"Until the Wind Stops Blowing" è l'ultimo disco dei Clouds Collide, monicker dietro il quale si nasconde il solo Chris Pandolfo. Il genere proposto fa capo ad un post-black metal molto venato dallo shoegaze ("Blackgaze" o "Blackenede Shoegaze" ho letto anche): per capirsi, siamo dalle parti del primissimo Alcest. Il gusto per la melodia sognante innestata su tappeti black accomuna i due, anche se lo scream di Pandolfo è meno potente e lancinante di quello di Neige, più effettato e fuso con i contorni della musica che propone, quasi uno strumento aggiunto. Inoltre dove i primi dischi di Neige potevano ricordare un tiepido pomeriggio autunnale qui siamo in pieno inverno, in una mattina caratterizzata da un cielo sgombro di nuvole e da folate improvvise di vento gelido... Freddo e vento che caratterizzano tutto il lavoro, dal titolo a vari innesti nei vari pezzi. Si tratta di un lavoro da ascoltare tutto d'un fiato, in grado di cullare l'ascoltatore sebbene la proposta non sia, ovviamente, delle più dirette ed accessibili.
Attualmente non so quale possa essere la reperibilità "fisica" del disco (non credo sia un problema per il formato digitale): causa la chiusura dell'etichetta per la quale è stato pubblicato, Khrysanthoney, credo che il punto di riferimento principale rimanga l'autore stesso. E' comunque un lavoro che va ascoltato, almeno prima che arrivi l'estate, quando è ancora vivo il ricordo dell'inverno. Di certo va ascoltato quando si vuole pensare a qualcuno che non c'è più, perché come dice lo stesso Pandolfo parlando del suo progetto, i cardini sui quali fonda la sua musica sono "Music. Life. Death. Dreams. Memories. Nostalgia. Ups. Downs. "
Nota: non volevo che venisse fuori un elogio funebre, ma questa è la natura delle mie "recensioni blogghettose": scrivo solo se la musica mi comunica immagini, e stavolta è andata così. Spero di non avervi tediato, ma mi sentivo di scrivere due parole su una persona che non c'è più e su un gran disco che, per fortuna, sono riuscito ad acquistare, e che terrò ancora più caro.
The Way the Wind Blew
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_40912/Clouds_Collide_Until_the_Wind_Stops_Blowing.htm
venerdì 9 maggio 2014
Sulla musica sofferente e sul pathos
immagine "rubata" ai Clouds Collide
Certa musica soffre.
Alcuni dischi lo senti che patiscono, lo senti nella voce del cantante, straziata e straziante, graffiata e graffiante (è la prima cosa che salta all'orecchio di un ascoltatore non avvezzo a certe sonorità), ma se questa musica è il tuo pane quotidiano, se ne ascolti a palate tutti giorni, riesci tranquillamente ad andare oltre alla voce disperata, e lì cominci a fare diversificazioni, e a capire cosa colpisce davvero il cuore e cosa invece si ferma alla pelle, e quindi cosa rimarrà indelebile (o comunque per un po' di tempo) e cosa invece sarà cancellato dall'ascolto successivo.
E' bello allora rendersi conto che certi dischi catalogati come depressive, strappalacrime e strappamutande, che possono causare tendenze suicide ecc, alla fine ti mettono quasi di buon umore, li ascolti con disinvoltura e senza neanche attenzione; così come è bello, ascolto dopo ascolto, rendersi conto che un disco apparentemente semplice si rivela di una complessità inaspettata, e che anche se apparentemente dotato di melodie (che parola da usare nel black metal!) ariose e cristalline sa veicolare una malinconia piacevole che non ti aspettavi affatto di trovarci.
"Pathos [πάθος, pathos] (dal greco πάσχειν "paschein", letteralmente "soffrire" o "emozionarsi") è una delle due forze che regolano l'animo umano secondo il pensiero greco. Esso si oppone al Logos, che è la parte razionale. Il Pathos infatti corrisponde alla parte irrazionale dell'animo.
Per gli antichi greci questa "forza emotiva" era strettamente collegata alle realtà dionisiache o comunque dei riti misterici. Per questo il Pathos indicava tutti gli istinti irrazionali che legano l'uomo alla sua natura animale e gli impediscono di innalzarsi al livello divino.
Nell'Italiano moderno può assumere il significato di carica emotiva e di commozione derivati dalle rappresentazioni teatrali e delle arti figurative in genere, il sentimento insito in un'opera. In epica, quando si parla di pathos, si intendono quelle sequenze della vicenda più cariche di emozioni, come quando si descrive qualcosa di triste, una sofferenza."
E' proprio questa la condizione che si crea in questi momenti, e fa così strano alla gente che sia un genere (apparentemente) intransigente come il black metal a crearla... Perché non sanno che non si tratta di black metal soltanto, ma di un figlio bastardo di unioni ora con il post rock, ora con lo shoegaze, ora con il folk, ora con il post HC. Lo dicevamo con un mio amico qualche giorno fa:
"D. - Ma quanto sarà bello il black metal, ancora dopo 25 anni regala soddisfazioni
Io - Vero?
D. - Credo che quello che cantava con me e diceva/scriveva che era stato il nuovo punk avesse ragione... Se pensi a come generi siano riusciti a modificarsi, cambiare, infiltrarsi e rimanere vitali aveva proprio ragione
Io - No no infatti, è vitalissimo, molto più di tanti altri generi nel metal... E per come era nato, così oltranzista, è quasi un paradosso."
Questo post è nato da alcuni ascolti che sto facendo in questi giorni: tra scoperte e riscoperte mi sono reso conto che c'è un filo conduttore in tutto quello che ascolto, il pathos appunto, il saper emozionare (con la malinconia nel mio caso), e poco importa se si parla di Cascadian Black Metal, Depressive Black Metal, Post Black Metal o altre diversificazioni simili, l'importante è arrivare a questa condizione.
Qualche ascolto:
Clouds Collide - As If a Dead Leaf
Harakiri For The Sky - Mad World
Regarde Les Hommes Tomber - II Wanderer Of Eternity
So Hideous - My Light
Saor - Roots
Wolves In The Throne Room - I Will Lay Down My Bones Among The Rocks And Roots
Alda - Wandering Spirit
Thränenkind - This Story of Permanence
...e tante altre...
lunedì 7 aprile 2014
A moment of clarity
Per molti la primavera è sinonimo di ritorno alla vita, di movimento, di attivismo fisico: le giornate migliorano, sono più lunghe, e le persone come gli animali come la natura stessa si preparano a quello che è il loro picco di gioia, l'estate. Personalmente avverto invece la primavera come torpore, come invito a fermarsi tra il sole e l'ombra e a riflettere a caso, a ruota libera, su tutto. Attivismo quindi anche in questo caso, ma mentale più che fisico, portato a camminare con la testa più che con le gambe.
E' allora che, seduto su degli scalini all'ombra, in una bella giornata in cui preferiresti essere da un'altra parte (perché hai la testa altrove magari), ma sai che dovrai passare tra quattro mura altre 4-5 ore, è allora dico che ti metti a vagare, e che il tempo comincia a scorrere in maniera diversa, anarchica.
Con nelle orecchie un disco perfetto per quell'occasione pensi a tante cose... Pensi a cosa hai tra le mani adesso, e a quanto niente sia per sempre; pensi al perché una persona dovrebbe riversare tanto amore verso un animale domestico, se questo poi se ne andrà, e ti lascerà vuoto; pensi se ne valga la pena, pensi se in fondo ne esci arricchito o privato (sono arrivato alla conclusione che sono entrambe le cose, e che rifarei ogni singolo passo che ho fatto). Pensi a come stavi un anno fa, a cosa ti preparavi a fare, a quante ne hai passate e a quante ancora ne passerai con la persona che ti sta accanto; pensi alle priorità, al levarsi di torno in due o tre (la persona che ami e "l'animale domestico" di cui sopra) per andare dovenonsisabastalevarsiditornodaqui, pensi alla frenesia e all'ansia che alle volte ti assalgono, e alla voglia che avresti di prendere e uscire in giardino.
Poi pensi a quanto sia inutile quanto scritto fino ad ora, a quanto sia scontato, trito e ritrito, te ne vergogni quasi, stai per cancellare questa pagina ma poi no, chi se ne frega, io la tengo senti. Tanto la pubblico nel mio blog, che originariamente doveva servire da taccuino dei miei stati d'animo. Eccolo allora un bello stato d'animo, un'istantanea di un giorno di aprile in cui ti senti sull'orlo di qualcosa ma non sai di cosa, forse non è nulla, forse non accadrà niente e i giorni andranno avanti come sempre.
Odio la primavera, mi fa pensare: preferisco l'autunno o l'inverno, almeno sei costretto a muoverti fisicamente sennò ti piglia freddo o ti bagni.
PS: Il disco in questione, se può interessare, è "Weminuchia" degli Evergreen Refuge. Si tratta di un album di un'oretta circa composto di sole tre tracce, un post rock "boscaiolo", nel senso che è fortemente imbastardito da quel feeling cascadiano che tanto mi piace. Musica forse impegnativa, ma incredibilmente avvolgente e calda. Si trova qui.
E' allora che, seduto su degli scalini all'ombra, in una bella giornata in cui preferiresti essere da un'altra parte (perché hai la testa altrove magari), ma sai che dovrai passare tra quattro mura altre 4-5 ore, è allora dico che ti metti a vagare, e che il tempo comincia a scorrere in maniera diversa, anarchica.
Con nelle orecchie un disco perfetto per quell'occasione pensi a tante cose... Pensi a cosa hai tra le mani adesso, e a quanto niente sia per sempre; pensi al perché una persona dovrebbe riversare tanto amore verso un animale domestico, se questo poi se ne andrà, e ti lascerà vuoto; pensi se ne valga la pena, pensi se in fondo ne esci arricchito o privato (sono arrivato alla conclusione che sono entrambe le cose, e che rifarei ogni singolo passo che ho fatto). Pensi a come stavi un anno fa, a cosa ti preparavi a fare, a quante ne hai passate e a quante ancora ne passerai con la persona che ti sta accanto; pensi alle priorità, al levarsi di torno in due o tre (la persona che ami e "l'animale domestico" di cui sopra) per andare dovenonsisabastalevarsiditornodaqui, pensi alla frenesia e all'ansia che alle volte ti assalgono, e alla voglia che avresti di prendere e uscire in giardino.
Poi pensi a quanto sia inutile quanto scritto fino ad ora, a quanto sia scontato, trito e ritrito, te ne vergogni quasi, stai per cancellare questa pagina ma poi no, chi se ne frega, io la tengo senti. Tanto la pubblico nel mio blog, che originariamente doveva servire da taccuino dei miei stati d'animo. Eccolo allora un bello stato d'animo, un'istantanea di un giorno di aprile in cui ti senti sull'orlo di qualcosa ma non sai di cosa, forse non è nulla, forse non accadrà niente e i giorni andranno avanti come sempre.
Odio la primavera, mi fa pensare: preferisco l'autunno o l'inverno, almeno sei costretto a muoverti fisicamente sennò ti piglia freddo o ti bagni.
PS: Il disco in questione, se può interessare, è "Weminuchia" degli Evergreen Refuge. Si tratta di un album di un'oretta circa composto di sole tre tracce, un post rock "boscaiolo", nel senso che è fortemente imbastardito da quel feeling cascadiano che tanto mi piace. Musica forse impegnativa, ma incredibilmente avvolgente e calda. Si trova qui.
martedì 28 gennaio 2014
Going analog (back again)
Devo riconoscere che è stata una sensazione davvero strana e insolita, qualcosa che, relativamente a questo ambito, era molto che non provavo...
Pochi giorni fa mi è presa la voglia di ritirare fuori il mio vecchio Walkman e di ricomprarmi qualche cassetta, credo spinto dal fatto che molti gruppi che ascolto (e alcune etichette) amano pubblicare i loro lavori anche su questo formato. A ben pensarci l'analogico con un genere come il black metal o il doom si sposa da dio, essendo questi stili musicali nati negli anni in cui la cassetta era l'unico supporto portatile. Considerato che la mia passione per loro è nata quando ormai i CD erano il principale supporto audio (e anzi si stavano affacciando pure gli MP3) ero curioso di sentire come potesse essere il suono di una cassetta di un gruppo black. Grazie a un'etichetta newyorkese ho ordinato per una cifra irrisoria sei cassette agli inizi di questo mese, e stamani alle 10:00 ero già lì che scartavo il pacchetto arrivatomi con una velocità inaspettata.
Da consumatore di CD sono abituato a scartare un album nuovo di pacca, eppure la cosa mi ha fatto un certo effetto, forse per colpa del formato per me non più consueto, fatto è che mi brillavano gli occhi scartando quelle confezioni di plastica, prendendo nuovamente in mano cose che erano anni che non toccavo più, almeno non con quell'attenzione che stavo adesso dando loro. Mi ha colpito molto il fatto che le cassette fossero numerate a mano, segno di "esclusività" dell'opera (Pop Art, quanto hai insegnato al mondo!), e anche il fatto che una cassetta non presentasse scritte varie come le altre ma recasse semplicemente il logo "Sony Hi Definition" mi ha fatto tornare alla mente i pomeriggi passati a registrare compilation con il mio vecchio stereo a doppia cassetta (un lusso per me!).
Il bello è venuto a casa, quando ho inserito, una dopo l'altra, le varie cassette nel Walkman, per l'occasione collegato alle cuffie "da DJ" (non so come chiamarle le cuffie che andavano un tempo, che fasciavano la testa e si poggiavano sopra le orecchie). C'è voluto un attimo per ricordarsi il lato giusto da mettere, ma quando ho premuto play mi sono immediatamente reso conto di quanto la musica digitale, anche quella meglio registrata, sia pur sempre fredda se confrontata con una cassetta. E attenzione non parlo di definizione del suono (ovviamente non c'è paragone) ma proprio di calore del suono, un po' quello che dicono sempre anche i cultori del vinile (con le ovvie distanze). I suoni gelidi del black arrivavano alle mie orecchie pastosi, caldi, avvolgenti, piacevolmente ovattati, mi è sembrato di scoprire un nuovo mondo di ascoltare musica.
Per praticità ho anche le versione in digitale dei sei album acquistati in cassetta, ma l'ascolto primario sarà sempre riservato alla loro controparte analogica: se in soli cinque minuti ho avuto tutte queste soddisfazioni posso solo immaginare come mi sentirò a fine album.
Federico is going analog!
PS per dovere di cronaca, questa è l'etichetta alla quale ho fatto riferimento: http://brokenlimbsrecordings.com/
The Night Heir
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