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martedì 18 dicembre 2012

Urbana follia

Camminava per il parco, in una giornata di sole come tante altre si stavano avvicendando in quell'inizio di inverno così stranamente mite. A riempire l'aria c'era solo il suono dei suoi passi sui ciottoli, le grida di qualche bambino che giocava in lontananza, e il vento, il cui soffio sibilava a folate tra i rami quasi senza foglie degli alberi ai lati della strada. A dirla tutta si sentiva un po' strano, ma leggero, senza grossi pensieri, quindi tutto sommato, perché no, stava bene. Eppure sentiva una sorta di blocco nel cervello, come quello che si prova quando si prova a pensare a cose infinite o che vanno oltre la nostra comprensione... Che so, come quando ti metti a pensare a un deja vu, e di colpo tutto quello che stai facendo dal momento in cui hai iniziato a fare quei pensieri ti suona familiare, rivisto, e ti prende una sorta di dolce panico la cui unica via di uscita è la fuga da quello strano loop. Insomma, provava quella strana sensazione, che lo portava a ripetere nella sua mente una sola, unica frase, le cui parole, a forza di ripeterle, si erano fuse tra loro, ed avevano impastato la sua bocca. Sentì una folata di vento investirlo, e di colpo si bloccò: quella frase che aveva ripetuto allo sfinimento nella sua testa, adesso la stava pronunciando, come una nenia senza fine. E il bello è che si rendeva conto di questa cosa, ma non riusciva (e non voleva) fare nulla per smettere. Alzò lo sguardo: il parco era ormai terminato, e si era già immesso nella via principale. I suoi occhi salirono lungo il palazzo che si trovava di fronte a lui, su su fino all'ultimo piano, e si scontrarono con la forte luce del sole che parzialmente gli bruciava gli occhi. Vide poi delle strane sagome in aria: braccia aperte, gambe distese, che fluttuavano. "Angeli", pensò, ma non ebbe tempo di terminare questo pensiero che uno di questi "angeli" si schiantò ai suoi piedi, poi un altro, e un altro ancora. Lui non lo capiva, ma gli abitanti di un intero palazzo si stavano buttando giù dal tetto: uno dopo l'altro, in fila come automi, facevano un passo e si gettavano nel vuoto, verso il freddo marciapiede. Si era di nuovo impalato di fronte a questo raccapricciante spettacolo, ma il suo volto non era attraversato da alcuna emozione, solo la sua bocca continuava, imperterrita, a sbiascicare quelle parole senza senso. Poi uno sparo: un agente di polizia, lì vicino, anche lui impalato e quasi lobotomizzato, si era sparato un colpo alla tempia. Lui si diresse verso il cadavere, raccolse la pistola, e come se stesse facendo la cosa più immediata e consueta del mondo, tirò il grilletto. Una nuova pioggia di persone ovattò il suono del proiettile che trapassava il suo cervello, mentre il vento, che fino ad allora aveva soffiato non forte, ma con insistenza, si bloccò di colpo, e tornò il silenzio sulla strada.
"Time" è il suono della follia, dell'alienazione urbana, della depressione. L'abisso disperato in cui gli americani Manetheren cercano di gettare i propri ascoltatori con la loro ultima fatica ha i connotanti delle città descritte dagli Amesoeurs, è pazzia descritta dai Lifelover e messa in musica seguendo le impronte di maestri di un certo black americano come Weakling o Wolves In The Throne Room. Solo che qui non c'è esaltazione della natura e unione panica con essa: c'è smarrimento sì, ma senso di impotenza, abbandono e freddo, ci sono questi sei bisturi che, uno dopo l'altro, isolando il tuo cervello dal resto del mondo ti lasciano lì, impietrito, a contemplare la nuda realtà delle cose. Arrivato alla fine di questa lunga (più di settanta minuti) maratona fatta di accelerazioni black, digressioni post rock e momenti più intimi, si può rinascere in due modi: o cinici, spietati e senza cuore, o mossi da una rinnovata sensibilità, che permetterà di vedere con nuovi e più acuti occhi il mondo che circonda.

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