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giovedì 18 dicembre 2014
Archaic Rites
Aveva assistito decine di volte a quei viaggi, ma non ne aveva mai preso parte: eppure, anche solo da spettatore, era sempre riuscito a carpire un'infinitesima parte di ciò che invece provava ogni volta suo nonno, sciamano del villaggio sulle rive del lago Tahoe. Stavolta però era diverso, stavolta toccava a lui, si trattava del suo primo viaggio, della sua iniziazione.
Qualche ora prima del rito Kiche aveva masticato le foglie di patata selvatica: una dose piccola, dato che un grammo in più gli avrebbe provocato nausea e blocco respiratorio, ma sufficiente a metterlo in condizione di viaggiare in uno stato di sonno vigile (o di veglia sonnacchiosa, come gli piaceva dire ispirandosi forse al comportamento sonnacchioso degli orsi in estate).
Entrato nella capanna c'era un odore intenso di spezie e di erbe tritate e bruciate (sapeva che anche quelle erano ingrediente fondamentale per la sua esperienza): vide subito il letto, un giaciglio di paglicci e rami, e il suo nonno lì accanto, che lo accolse con un sorriso sdentato, il volto devastato dal freddo, dal sole e dalle rughe. Senza una parola gli fece cenno di sdraiarsi, e passandogli una mano sulla fronte lo invitò a chiudere gli occhi. Poi gli mise in mano un capo di una corda, dicendogli di tirarla con forza in caso qualunque cosa avesse visto, sentito o provato "là" potesse costituire un pericolo per lui, tranquillizzandolo sul fatto che lo avrebbe tirato via lui (solo stavolta però, avrebbe dovuto presto imparare a camminare da solo).
Sapeva già come il viaggio sarebbe iniziato, glielo avevano descritto più volte: fuori della "sua" grotta, dentro la quale stava il "suo" animale guida, che avrebbe dovuto conoscere dato che sarebbe stato il suo compagno nei viaggi a venire, fine alla fine dei suoi tempi. E così andò, si ritrovò in una radura verdissima, ma più che una grotta scavata nella roccia pareva essere ricavata da un'enorme parete di ghiaccio: al tatto il freddo intenso si irradiava immediatamente per tutto il corpo, lasciando poi gli arti formicolanti. Si addentrò al suo interno, e la luce del sole che filtrava attraverso l'ingresso si fece di colpo azzurrastra, passando attraverso le pareti semitrasparenti. Poi, di colpo, in penombra, lo vide, il cavallo più grande che avesse mai visto. Grigio, possente, muscoloso, gli occhi rosso sangue, una calma incredibile che lasciava intravedere tutta la sua potenza e forza. Il cavallo lo fissava, e i suoi occhi gli fecero gelare il sangue nelle vene, al punto da chiedersi se non si fosse sbagliato, e se quell'essere, così imponente, potesse essere davvero la sua guida, il compagno di un ragazzo tutto sommato gracile, e per sua ammissione nemmeno tanto coraggioso. Poi fu un lampo, in due battiti di ciglia il cavallo non solo si era avvicinato a lui, ma addirittura aveva fatto in modo di farsi cavalcare, senza che Kiche potesse rendersi conto di niente. Poi fu l'inferno.
L'aria da gelida che era si fece incandescente, la grotta iniziò a crollare sciogliendosi come burro sul fuoco, il terreno si squagliò in lava incandescente. Il ragazzo ebbe un sussulto, stava per tirare la corda quando si accorse che il suo cavallo non solo stava volando (cosa di per sé sconvolgente), ma non si sa come aveva anche otto zampe, che galoppavano sopra la lava senza toccarla, seguendo una strada immaginaria lungo fiumi sotterranei incandescenti e grotte venate da riverberi porpora e azzurri. Kiche aveva paura, pensava di morire, ma il cavallo gli comunicava tranquillità, sapeva che non gli sarebbe potuto accadere nulla finché se ne stava aggrappato alla sua criniera. Poi però una scossa più forte delle altre lo sbalzò: perse il contatto con il crine, e un istante prima di toccare la lava tirò con tutta la sua forza e chiuse gli occhi, mentre già sentiva la sua pelle bruciare.
Quando li riaprì era di nuovo nel suo letto, madido di sudore, con vicino il nonno che lo riaccolse con lo stesso sorriso. Kiche tirò un sospiro di sollievo, poi però si ricordò di aver trascorso solo pochi istanti con il cavallo: e se non fossero bastati a stringere con lui il patto? E se avesse dovuto rifare tutto da capo? Terrorizzato guardò il nonno, nella speranza di una risposta, che arrivò: il nonno gli indicò la sua mano, che era ancora stretta in un pugno di tensione. La aprì, e dentro nascondeva dei crini argentei, che brillarono non appena i suoi occhi vi si posarono sopra, per poi sparire nel nulla. Allora il ragazzo capì che il patto era stato siglato, e nel momento stesso in cui arrivò a questa conclusione un nitrito riecheggiò nella vallata, il nitrito più imponente che avesse mai sentito.
Il quinto album è la gemma della discografia dei Flight Of Sleipnir. Il duo del Colorado release dopo release è stato in grado di affinare la sua unica miscela a base di doom epico, black metal atmosferico, psichedelia, folk e stoner, e questo "V" costituisce la loro consacrazione. In esso tutte le componenti sono perfettamente bilanciate, tutte contribuiscono alla perfetta riuscita di ogni brano, in cui si alternano gelidi scream ad armonizzazioni vocali che, al pari di alcune parentesi chitarristiche, proiettano l'ascoltatore direttamente nella psichedelia sessantiana. Fa da sfondo a tutto il doom fiero e cadenzato che ben si sposa con le tematiche mitologiche norrene trattate nei testi e che sfocia senza soluzione di continuità in fumate stoner talvolta ai limiti del drone (spesso ho sentito dei richiami addirittura agli Angelic Process).
Come già detto si tratta forse del capolavoro nella discografia dei Nostri, che solo con questo "V" hanno raggiunto equilibrio ed eleganza nelle loro composizioni, ed anche se ad un primo ascolto i pezzi non risultano così "easy listening" a causa della loro durata e delle loro strutture sfaccettate, è con il tempo che il lavoro cresce in qualità, stregando ogni volta di più l'ascoltatore.
Beacon in Black Horizon
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