Quando l'oscurità arriva devi essere pronto ad affrontarla, a farla tua, abbracciarla e viverla senza farti inghiottire, se vuoi rivedere l'alba. Devi avere un fuoco dentro, una luce in grado di illuminarti la via: non è necessario che tu possa vedere lontano, basta solo riuscire a capire dove poggi i piedi, passo dopo passo, per non finire in qualche baratro.
Quando l'oscurità arriva spesso è accompagnata dal vuoto, una sensazione di apatia, desolazione, sconforto e impotenza nei confronti di qualcosa che percepisci essere più grande di te. Ed è lì che il tuo fuoco deve brillare più ardentemente, è lì che rischi davvero di "cadere".
Quando l'oscurità arriva capita che si porti via un pezzo di te, o del tuo cuore, per lasciarti in cambio, appunto, il vuoto. Gli abbracci vengono a mancare, le carezze e le parole dolci restano solo un ricordo, e un ciclo vitale si compie con la terra che torna ad abbracciare un suo figlio, solo momentaneamente ceduto in prestito alla vita.
E cosa rimane poi? Il silenzio, che non è vuoto, attenzione. Il silenzio porta con sé tanti significati, tanti sussurri, domande e pensieri, che si rincorrono nella tua testa per mesi, anni forse, prima che tu riesca a districarti nel gomitolo dei ricordi e a dare un senso a quello che è successo. E solo allora la tua luce interna potrà affievolirsi, solo momentaneamente, per cedere il passo al giorno che sorge. Ma la luce sarà sempre lì, una fiammella vigile pronta a intervenire quando l'oscurità si affaccerà nuovamente alla tua vita.
Dietro Höstblod si nasconde Johan Nillsson, musicista svedese che arriva a questo progetto di matrice assimilabile al black metal solo per necessità espressiva, per sfogo. "Mörkrets intåg", approssimativamente traducibile con "Quando arriva l'Oscurità", è il suo primo full, un fulmine a ciel sereno che colpisce per l'urgenza espressiva che lo guida e che lo permea attraverso le sei tracce che compongono il disco. Un black "depressive" per dare qualche coordinata in più, ma nemmeno tanto: fortemente atmosferico, cangiante e progressivo con sfumature che virano sovente verso partiture di chitarra classica così dannatamente malinconiche e autunnali. E anche lo scream lascia spesso il passo a un clean intenso ed emozionante.
Il disco è stato scritto in un periodo in cui era stata diagnosticata una malattia alla madre di Johan, che poi ne ha causato la dipartita: chiaramente dentro questi pezzi c'è tutta la rabbia e la tristezza del musicista, ma servono anche da valvola di sfogo, da rito di passaggio per esorcizzare questo male.
E' difficile per me parlare di un disco del genere sia per motivi personali, sia perché un ascolto di questo tipo non si presta alla stagione estiva. Eppure "Mörkrets intåg" coglie nel segno, tocca corde profondissime e si fa ascoltare con piacere, confermandosi un ascolto caldamente consigliato a chi ama queste sonorità ma ha anche una mentalità aperta per andare oltre.
Ci sono modi di percepire che inizi a conoscere quando sei già “grande”, quando ti trovi in situazioni tali da sviluppare sensi e percezioni che fino a pochi giorni prima non conoscevi, se non per sentito dire. Inizi allora a sentire attraverso il contatto con gli occhi, attraverso piccoli gesti prodotti da un esserino che nemmeno esisteva qualche mese fa. Ti perdi in degli occhioni marroni e profondi, tanto diversi dai tuoi eppure tanto familiari poiché in essi rivedi la persona con la quale hai giurato di trascorrere la tua vita. Un modo di sentire anomalo, un linguaggio sconosciuto che impari giorno dopo giorno, fatto di sguardi, di ricerca, di muta intesa e di rassicurazione, una lingua semplice eppure tremendamente ostica perché è profonda, è innata, ma l’hai dimenticata.
Manine che ti cercano quando quegli occhioni non ti vedono, o semplicemente non si ritrovano nei tuoi. Lavori al pc, assorto nei tuoi pensieri, quando ti senti strattonare dolcemente i pantaloni: guardi in basso e rieccoli quegli occhioni che ti chiamano e ti chiedono un po’ di attenzione. Manine che ti cercano quando quegli occhioni hanno paura, hanno bisogno di rassicurazioni, quando ti chiedono: “babbo, va bene, mi posso fidare?” E tu cerchi di rispondere come puoi, col contatto, con le parole, arrabattandoti come puoi sperando che l’esserino che hai davanti capisca cosa vuoi dirgli.
Ci ho messo otto mesi per capire che qualcuno mi stava parlando, ci ho messo otto mesi per imparare a sentire oltre i pianti, i risvegli notturni e le arrabbiature, ci ho messo otto mesi per intuire che ci sono altri modi di sentire e altri modi di ascoltare, ma ne sta dannatamente valendo la pena.
Si intitola “Ways of Hearing” l’ultimo lavoro degli americani The goalie's anxiety at the penalty kick. Nome bizzarro, che ha subito colpito la mia attenzione. Non ricordo come ho fatto ad imbattermi in questa band originaria di Philadelphia, ma la foto sul loro Bandcamp prima ancora della descrizione già mi parlava: una foto fuori fuoco di sei ragazzi semplici, sorridenti, nel cortile di una casa, e la scritta sotto, “music for winter”, un invito a nozze per la mia sensibilità romantico tardo autunnale. Schiaccio play e parte la magia: emo (quello dolce, sussurrato, arpeggiato), indie, post rock strumentale, tutti quei generi che mi hanno accompagnato nei primi anni Duemila, immediatamente si riaffacciano in dieci delicate tracce sottili come un raggio di sole in una gelida giornata invernale, che sa arrivare al cuore e riscaldare meglio di una giornata estiva. Brand New, There Will Be Fireworks, Empire! Empire!, Carissa’s Wierd, questi e altri sono i nomi che mi vengono in mente mentre le canzoni scorrono veloci, il tempo passa e io mi ritrovo a riflettere su quanto sia cambiata la mia vita ultimamente.
Un disco incredibile, che conquista con parole dolci, abbracci e calore, qualcosa che mi mancava e che mi serviva per tradurre in musica tante emozioni fin troppo sopite.
Anno strano, direi memorabile questo 2020... Nel senso che difficilmente ce lo scorderemo! La pandemia che ha afflitto il mondo in maniera più o meno grave (a livello globale) e la nascita di mio figlio (a livello personale) già da soli bastano a rendere questi 365 giorni moralmente devastanti, delle montagne russe emozionali uniche, nel bene o nel male. Da un punto di vista musicale non sono molte le uscite che mi hanno colpito: la mancanza di tempo nel dedicarmi alla musica da una parte ed una vaga apatia dall'altra hanno condizionato i miei ascolti, che in maniera forse nostalgica si sono concentrati soprattutto sulla riscoperta di vecchi album che non ascoltavo da molto. Ciò nonostante le uscite degne di nota ci sono state, eccome!
Chiral - "Hope"
Matteo Gruppi torna a deliziarci e a sorprenderci con il suo progetto Chiral. E lo fa con un lavoro che vuole essere un po' la chiusura di un percorso iniziato con "Night Sky" e proseguito con "Gazing Light Eternity". Le coordinate sono apparentemente le stesse: un black atmosferico, talvolta languido, talvolta disperato, liquido nel suo dipanarsi tra le varie tracce, ma che sa essere abrasivo e tagliente quando serve. Cambia però il mood, che si è fatto via via più intimo: la contemplazione dell'esterno ha lasciato spazio pian piano ad uno studio del proprio io, ad un lavoro sulla rabbia, sull'amore, sui rapporti umani. Forte è la componente post rock, che si unisce alle già presenti matrici folk e progressive, e compare per la prima volta anche un elemento ai limiti del drone che lascia aperti spiragli per il futuro. C'è una logica nel processo evolutivo di Chiral, c'è meticolosità e cognizione di causa, per un progetto che ci auguriamo continuerà ad allietarci e stupirci.
PS Ho avuto l'onore di scrivere parte del testo usato per "Mortal Way/Full Circle", motivo in più per amare questo lavoro!
Winterfylleth - "The Reckoning Dawn"
Tornano i Winterfylleth, alfieri e degni rappresentanti del black metal albionico, e lo fanno con un disco roccioso e privo di note deboli. Sia chiaro, i Nostri ci avevano già abituato a lavori ai limiti della perfezione ("The Hallowing of Heirdom", se usciamo da lidi metal, è di per sé un capolavoro di disco) ma con la loro ultima fatica gli inglesi si migliorano e si confermano.
Un album "epico", dall'incedere fiero e rabbioso, ruvido (più del solito forse) ed emozionante, che riff dopo riff traduce in musica l'asprezza della natura incontaminata raffigurata in copertina, e l'amore che i Nostri nutrono per essa e per la loro Terra.
Sicuramente tra i migliori lavori BM dell'anno.
Wayfarer - "A Romance with Violence"
Eccoci ad un altro pretendente per lo scettro di miglior lavoro BM dell'anno (nella mia classifica si intende!).
Lavorando sul mood e sulle atmosfere del precedente "World's Blood" i Nostri hanno compiuto un altro passo avanti, regalandoci una meraviglia di disco. Il black metal atmosferico, tenebroso ed emozionante fa da commento musicale ad un viaggio nell'epopea del West americano, ma ci accompagna in maniera del tutto personale, con sonorità e parentesi strumentali prese direttamente in prestito dal Denver Sound (assimilabile all'Americana e a un certo Gothic Folk, ma con le proprie peculiarità).
L'impatto immaginifico ed evocativo è così forte che le parole non rendono giustizia al lavoro dei Nostri: un ascolto al disco è assolutamente consigliato!
With the End in my Mind - "Tides of Fire"
Quanto mi è mancato il Cascadian Black Metal! Ammetto che forse questa definizione è passata di moda, forse anche il genere stesso (rientrato nel più canonico BM atmosferico)... Ma se leggi di una band dalle tematiche più o meno ecologiste, che viene dallo stato di Washington, che ha sonorità così "boschive", e tra le cui fila milita Michael Korchonoff (degli Alda, tra gli altri), non puoi fare a meno di pensare alle foreste del Pacific Northwest. Ed in effetti le coordinate sono giuste!
Tre pezzi dilatati, sciamanici, evocativi e ritualistici, attraverso i quali i Nostri ci guidano ad una profonda riflessione sui rischi che corriamo girando le spalle alla Natura e alla Madre Terra... E ci guidano a suon di schiaffoni, riff gelidi e una batteria tellurica che di tanto in tanto rallenta per farci rifiatare.
Si tratta di un album assolutamente d'atmosfera, pregno di pathos e di energia: forse non ha riscosso tutta l'attenzione che si meritava, ma egoisticamente preferisco così, mi piace vederlo come un segreto ben custodito e prezioso, non per tutti.
PS Un dovuto ringraziamento proprio a Michael, che ha portato alla mia attenzione questa band che, lo ammetto, avevo sempre sottovalutato!
Osi and the Jupiter - "Appalachia"
"Peccato sia solo un EP!" Questa la mia esclamazione al termine del primo ascolto di quest'ultima fatica targata OatJ. Una raccolta di canzoni intrise di folk atmosferico e suggestivo, nella quale confluiscono elementi di drones e synth per una dichiarazione d'amore del Musicista nei confronti della sua Terra.
Anche se di norma non sono propenso all'ascolto degli EP ho adorato queste canzoni, si ricollegano direttamente al suono che il Nostro aveva sviluppato in "Halls of the Wolf", salvo poi metterlo in parte da un lato per concentrarsi sulla matrice più synth.
Un po' come altri dischi qui recensiti, siamo di fronte ad un omaggio di un musicista alla sua terra, al luogo in cui è cresciuto e vissuto, alle sue tradizioni: e quando si è mossi da motivazioni così profonde e "sentite" il risultato non può che essere notevole.
Accantonate le contaminazioni "norrene", Osi and the Jupiter ci regala un EP di rara bellezza e passione.
Monastery - "Dream Weapons pt 1"
"Peccato sia solo un EP!", parte seconda. Eh sì perché in un anno così particolare non potevo non mettermi ad ascoltare gli EP! Torna Robb Kavjian (1476) con il suo progetto solista ambient
synth, ampliando con questi due pezzi le atmosfere oniriche già tratteggiate con "The Garden of Abandon", anche se stavolta il background sembra essere diverso. Siamo sempre dalle parti di quel "fantasy synth" a tratti fiabesco e misterioso che ha caratterizzato il disco precedente, ma qui sembra di aver varcato la soglia di un mondo nebbioso, crepuscolare, non così benevolo come poteva essere il precedente. La componente magica ed esoterica sembra aver preso notevolmente piede, trasformando i venti minuti di disco in un viaggio onirico e fuori da ogni epoca, per lo più dolce e ovattato, ma nel quale si intravedono squarci di buio intenso e di freddo.
Non avrebbe avuto senso inserire questi pezzi nel lavoro precedente, e in questo va dato atto a Robb di aver optato per la scelta più giusta: chissà se il futuro del progetto avrà questi connotati!
Il mio cuore da appassionato di doom albionico anni Novanta ha avuto un sussulto quando ha scoperto il nuovo lavoro della Sposa Morente. Nella mia personale classifica "a tre" (Anathema, My Dying Bride e Paradise Lost) i Nostri hanno guadagnato la prima posizione uscita dopo uscita, scavalcando i miei beniamini Anathema che, alla fine, poco hanno spartito con la scena. I MdB si sono dimostrati sempre fedeli alla nera fiamma del doom, modificando poco o nulla le loro coordinate, e va bene così, le certezze occorrono.
Questo lavoro è figlio di un periodo difficilissimo della band, che ne è uscita quasi distrutta salvo poi risollevarsi con un disco che forse non sarà perfetto, forse suonerà un po' prolisso, a tratti stanco, ma che si caratterizza per una classe e delle atmosfere che pochi album e gruppi possono vantare, soprattutto dopo momenti di crisi così profonda.
Eppure ci sono delle note diverse, a cominciare dalla voce di Aaron, che in clean si dimostra ancor più sincero e umano, per passare a continue concessioni alla melodia e all'orecchiabilità, che culminano con un pezzo, forse messo appositamente a metà della tracklist, che poco sembra aver da spartire con i Nostri. C'è però, forte, la radice marcia e disperata dei primi MdB, che emerge soprattutto nella seconda parte del lavoro, e che assieme alla controparte più "orecchiabile" rende "The Ghost of Orion" in grado di accontentare e allo stesso tempo scontentare tutti. Ma questi sono i My Dying Bride, e onestamente non volevo aspettarmi niente di diverso!
Jesu - "Terminus"
Quando parte un disco di Jesu sai già come ti troverai di lì a qualche istante: sarai immerso nei tuoi ricordi, in quelli più agrodolci, o ti sentirai come in una di quelle giornate tardo autunnali fredde, umide, ovattate e fuori dal mondo.
"Terminus" per fortuna non fa differenza, con un Justin Broadrick che a tratti sembra rispolverare i lidi gloriosi di "Conqueror", quindi quella miscela di dream/shoegaze e alternative marchio di fabbrica del Nostro. Purtroppo non tutti gli episodi sono all'altezza della fama di Jesu, ma sono abilmente controbilanciati da momenti assolutamente deliziosi nel loro incedere barcollante e sospeso.
Un disco perfetto per questa stagione, ascoltatelo ora prima che arrivi la bella stagione!
Old Growth - "Mossweaver"
"Quanto mi è mancato il Cascadian Black Metal", parte seconda! Progetto a me sconosciuto che mi ha fatto conoscere il buon Marcello (leader e voce dei nostrani Enisum, che ringrazio!), anche qui siamo al cospetto di un bellissimo lavoro tranquillamente riconducibile al Cascadian, nello specifico alle frange più "sciamaniche" e ritualistiche (Fauna su tutti). Diversamente dagli americani qui è forte anche una componente che ho ritrovato in tante band blackcore tedesche (non a caso terra natìa di Old Growth), un piglio orgoglioso e fiero che, non lo avrei mai detto, ben si sposa con i paesaggi che il Nostro vuole tratteggiare.
Un bell'ascolto, malinconico, evocativo, rituale e aggressivo al punto giusto, una bellissima scoperta!
Envy - "The Fallen Crimson"
Il 2020 vede il ritorno sulle scene dei giapponesi Envy... E che ritorno! Inaspettato, anche e soprattutto da un punto di vista sonoro.
La ferocia screamo/postHC degli esordi si è andata pian piano mitigando, disco dopo disco, fino ad arrivare a questo lavoro, forse il più easy listening dei Nostri, di certo non il meno bello, anzi! Per quanto mi riguarda tra i loro migliori dischi. Nei vari pezzi si rincorrono echi dei vecchi Envy, di Alcest, So Hideous, e tanto languido e melodico post rock. Volete un esempio? "A Step in the Morning Glow" è il brano che vi propongo, una delle cose più emotive, passionali e intense che i Nostri abbiano mai composto.
Tra i migliori lavori di questo anno!
AAVV - "The Forme To The Fynisment Foldes Ful Selden (Dark Britannica IV)"
Chiudiamo con una raccolta.
Il 2020 mi ha permesso di appassionarmi alla serie "John Barleycorn - Dark Britannica", quattro album pubblicati dall'etichetta inglese Cold Spring e dedicati all'esplorazione dell'anima più folk e oscura dell'universo musicale e letterario inglese. Gli album sono usciti nel corso degli anni, ma solo nei mesi scorsi ne sono giunto a conoscenza, e vista la mia passione da una parte per queste sonorità, dall'altra per la terra di Albione, non ho esitato a procurarmeli. Il disco qui recensito è l'ultimo pubblicato, degno finale di una serie affascinante e ricca di ottimi spunti. Al suo interno troverete nomi più o meno conosciuti, tutti comunque afferenti più o meno direttamente all'universo folk britannico: le sonorità sono le più disparate, si va da estremi minimali chitarra e voce a lidi di elettronica rumoristica o spoken word.
Nonostante la qualità dei brani scelti non sia sempre altissima sono presenti alcune gemme preziose che rendono la raccolta assolutamente degna di essere ascoltata (e acquistata, se siete amanti degli artwork fatti bene!).
E' tutto, alla prossima retrospettiva targata 2021, sperando in un anno migliore da un punto di vista delle pandemie!
E' la storia più vecchia del mondo, è "l'amor che move il sole e l'altre stelle", è una vicenda trita e ritrita che quando la senti, descritta dalla bocca degli altri, ti sembra la cosa più scontata di questa terra, ma quando la vivi ti pare quasi che nessuno ti capisca.
Ti ritrovi da solo, immerso nei pensieri, con in mano una sua foto strappicchiata cercando di capire dove hai sbagliato, sommerso da ondate di rabbia, orgoglio e malinconia, e rivivi i tuoi ricordi. Ripensi a quando l'hai conosciuta, a quanto non avresti scommesso niente su quella storia. E invece ci sei cresciuto con quella persona, imparando a conoscerla, ad apprezzarla, ti sei aperto con lei, e lei stessa è sembrata volersi schiudere pian piano. Giorno dopo giorno il calore è aumentato, l'amore cresciuto, le distanze si annullavano quando bastava una telefonata o un messaggio, un "ti amo" sussurrato, ed eri a posto per tutto il giorno.Poi, un giorno, qualcosa cambia: vuoi di più, lei di meno; hai bisogno della sua presenza, ti sembra di percepire i suoi cambi di umore nel passaggio delle nuvole o nella casualità delle cose, senti una paura sotto pelle, senti scivolare via tutto, e provi ad aggrapparti con rabbia a quello che ti rimane. Ma i suoi vestiti si fanno sabbia che si disperde tra le tue mani, le tue parole non sembrano uscire come vorresti, e il sassolino sul pendio perde il suo ultimo grado di equilibrio iniziando così la sua rovinosa caduta a valle. E alla fine, dato che di fine si parla, cosa ti rimane? Ricordi, orgoglio, rammarico per qualcosa che avresti potuto fare diversamente, e rabbia. C'è però, in fondo, ancora un po' di calore, una fiammellina che incurante del vento che ha intorno continua imperterrita a bruciare. E' la speranza, quella maledetta, bastarda speranza che ti fa svegliare ogni mattina. Per recuperare quanto è andato perso? Forse. O forse per ritrovare da altre parti, in altre persone, quelle stesse sensazioni che hai provato e che ti hanno fatto stare bene. Perché alla fine amore, morte, cuori spezzati, tutto fa parte della "mortal way", è tutto un cerchio che, incurante di noi che ci stiamo nel bel mezzo, segue il suo percorso. E tu sai, anzi speri, che alla fine tutto ricomincerà, per poi magari finire di nuovo (chissà!), ma intanto daresti un braccio per rivivere le stesse sensazioni.
Il nuovo lavoro di Chiral è un disco che parla di assenza, di commiati, di parole sussurrate e di vetri infranti da una rabbia cieca. La visione del Nostro si è spostata pian piano dall'esterno all'interno, da una contemplazione di quello che c'è fuori a quello che c'è dentro ognuno di noi, al nostro io. E' un disco intimo e sofferente perché tocca corde sensibili, che tutti abbiamo e alle quali non possiamo rimanere indifferenti. Il black atmosferico, reminiscente degli inizi depressive di Chiral, si fa qui ancora più intenso, imbastardito da momenti post (rock e metal), da suggestioni folk e da drones che qui e là spuntano a straniare l'ascoltatore. E' un disco fatto di binomi, presenza/assenza, amore/odio, gioia/paura, caldo/freddo: ora ti sferza, ora ti accarezza, ti scombussola con riff taglienti così come con nenie dolci e malinconiche. E' un lavoro, questo "Hope", da considerarsi come la fine del trittico composto dai precedenti "Night Sky" e "Gazing Light Eterninty": qui tutto si fonde, si ricongiunge, si tirano le fila del discorso e ci si prepara per quello che sarà.
Ascoltatelo ora, con questa stagione, in casa davanti a un fuoco magari, e pensate a quante ne avete passate e quante ve ne succederanno, anche a partire da domani. Disco curativo.
“La sinestesia (dal gr. sýn «con, assieme» e aisthánomai «percepisco, comprendo»; quindi «percepisco assieme») è un procedimento retorico, per lo più con effetto metaforico, che consiste nell’associare in un’unica immagine due parole o due segmenti discorsivi riferiti a sfere sensoriali diverse”. Ma è anche “un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una "contaminazione" dei sensi nella percezione. Il fenomeno neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo.”
C’è un disco, undici canzoni, un “mood” diverso per ognuna di esse ma con alla base una storia che le lega, un filo conduttore. E ci sono le emozioni dell’ascoltatore, i suoi ricordi, le immagini che affiorano una volta che questi chiude gli occhi e si lascia annegare nella musica. Ci sono i sapori, gli odori, le sensazioni che riprendono vita con una forza forse superiore a quella che avevano quando sono state assaporate per la prima volta.
Questi undici pezzi si portano dentro l’odore della campagna inglese dopo che è piovuto, un odore che mai avresti pensato di ritrovare nel giardino di casa tua, soprattutto se vivi in uno stato che non è il Regno Unito… Eppure la valle che si affaccia al di là della tua recinzione, la terra appena seminata, i fiori appena piantati, tutto odora come quei campi aperti verso il nulla che ti abbracciavano una volta uscito dal paesino inglese.
Altro odore, quello di legno bruciato. Qui fuori proprio in questo momento un contadino sta bruciando alcune sterpaglie, foglie morte e rami secchi, ma con gli occhi chiusi e la giusta musica in sottofondo sei di nuovo nei Cotswolds, stai vagabondando all’imbrunire per i vialetti acciottolati che serpeggiano tra case all’interno delle quali i caminetti si stanno accendendo, e i comignoli stanno spargendo nell’aria il rinfrancante odore della legna che arde.
La nebbia del mattino, mentre sei fuori ancora assonnato a spasso con il cane, e le campane della chiesa in lontananza, ti ricordano di quando la mattina ti svegliavi, guardavi fuori e vedevi le campagne intorno a te ancora ammantate da quella sottilissima nebbiolina, eterea e quasi ultraterrena. Aperta la finestra un sottile strato di quella nebbia si posava sulla tua mano, e il suo freddo ed umido tocco ti investiva di un’energia vitale positiva e frizzante. Il campanile del villaggio batteva le otto, e allo stesso tempo al tuo naso giungevano i tipici rinfrancanti odori dell’english breakfast cucinata dalla padrona di casa, una signora tanto dolce che poteva essere una tua zia.
E così via, tra un ricordo e l’altro, tra un profumo ed una sensazione, si arriva alla fine di questo disco, e sembra di aver davvero viaggiato.
“Fire in the White Stone”è la terza fatica dopo un full ed un EP per Dan Capp e per la sua creatura solista Wolcensmen: il Nostro è anche chitarrista dei Winterfylleth, band con la quale, è utile confermarlo, continuano ad esserci collegamenti soprattutto se prendiamo in esame il disco acustico “The Hallowing of Heirdom”. Le soluzioni scelte da Dan sono le stesse dei precedenti episodi, quindi chitarre arpeggiate, fiati, percussioni, strumenti a corda come violoncello o kantele, synth e cori, per un genere a grandi linee ascrivibile ai filoni neofolk ed ambient. Stavolta Wolcensmen ha creato una cornice che riunisse i vari pezzi, un racconto breve che narra le vicissitudini di un giovane che decide di abbandonare le comodità della sua vita per intraprendere un avventuroso e fiabesco viaggio di formazione che lo porterà ad incontrare creature di stampo quasi tolkeniano o appartenenti al folklore britannico, tutto parte dell’immaginario caro al Nostro Dan. Il senso è quello di essere trasportati in un’epoca senza tempo, favolistica e medievaleggiante, un mondo perfettamente tratteggiato da Wolcensmen con una sua genesi compiuta e assolutamente coerente. Rimangono dunque i tratti distintivi della poetica di Capp, quel dolce e fiero amore per la sua Terra e le sue radici, ma stavolta si arricchiscono di elementi favolistici e romanzati, in grado di dare maggiore forza e credibilità ad un disco che già di per sé era già musicalmente solido e coinvolgente
“Fire in the White Stone” è un disco assolutamente consigliato per gli amanti di sonorità folk e ambient. Forse è meno di impatto dell’ancora insuperato “Songs from the Fyrgen”, probabilmente perché necessita di più ascolti per essere compreso appieno: è quindi meglio se l’ascolto è accompagnato dai testi riportanti la storia alla base del concept. Si tratta ad ogni modo di una conferma per Wolcensmen, una prova di maturità per l’artista ed un viaggio nelle emozioni e nei ricordi di chiunque decida di mettersi all’ascolto di questo disco.
Arrivò l'autunno, e fu feroce. L'inizio fu piacevole in realtà, il sole conservava ancora parte del calore ereditato dall'estate, gli alberi avevano iniziato presto a sfoggiare il loro vestito migliore, quelle fronde rosse, gialle e arancioni che riscaldano con un tepore non percepibile se non dal cuore e dagli occhi. Poi, d'improvviso, novembre si abbatté su di me armato di falce e mantello scuro, colpendomi dove non mi aspettavo e portandosi via parte della mia anima. Novembre mi lasciò zoppicante e frastornato, nudo nel freddo dell'inverno che si portò appresso. Nonostante le persone che avevo intorno, l'amore degli amici, della moglie, della famiglia, fu un inverno difficile, duro, pieno di lacrime e faticoso.
La vita però si sa, è ciclica, e il freddo delle lunghe e corte giornate lasciò presto il posto alla primavera, e con essa la (ri)nascita. La prima avvisaglia di cambiamento fu la nuova casa, un obbiettivo inseguito a lungo, quasi abbandonato visti gli scarsi risultati, eppoi raggiunto così, quasi per caso. Con essa è arrivata la maturità, fatta di responsabilità, investimenti di energie fisiche, economiche e mentali, ma anche la soddisfazione e la pace che può trasmetterti la visione di un salotto che si affaccia su un giardino illuminato da un bellissimo sole e ombreggiato da una quercia secolare.
La nascita si diceva, annunciata in una sera di un caldo agosto, tra una chiacchiera e l'altra prima di addormentarsi. Da lì in poi nulla è stato lo stesso: le stagioni si sono affrettate, hanno iniziato a correre verso un traguardo apparentemente lontano, ma che oggi sembra vicino come non mai. Di nuovo la maturità, pensavi di essere cresciuto, di aver superato tante difficoltà, salvo poi trovarti di fronte a una prospettiva che hai sempre accarezzato ma che non hai mai saputo concretizzare, forse perché non eri pronto.
E allora inizi a vederti con in braccio tuo figlio, portandolo a spasso in macchina ascoltando la musica che più ti piace, e parlando del più e del meno. Ti sogni mentre giochi a "braccio di ferro" con lui, e lo fai vincere per non dispiacerlo, o ti vedi seduto nel bosco a mangiare un panino ascoltando le partite alla radio. Eppoi ti accorgi che quel bambino sei te, che quelli sono i ricordi di una vita fa, quando eri piccolo e passavi il tempo con quella persona che il freddo inverno si è portata via. Ma è bello avere la conferma che la vita si rinnova, e che chi non c'è più rivive in te, e che avrai la possibilità di essere il protagonista di una seconda vita, ripercorrendo quello che hai vissuto, solo attraverso un altro punto di vista.
"The Fallen Crimson" degli Envy è un fiume vitale, un concentrato di emozioni che, nei suoi saliscendi e nei suoi climax, mi ha fatto pensare a come le stagioni si avvicendino e di come il loro passaggio abbia scandito alcune fasi della mia recente vita. E' un disco che colpisce per la sua immediatezza, cosa a mio avviso non scontata quando si parla della band giapponese. I dischi degli Envy sono spesso criptici ad un primo ascolto, necessitano di pazienza e calma per essere assimilati ed apprezzati, non si lasciano conoscere subito ma hanno bisogno di una certa ritualità, come molti aspetti della cultura giapponese. Questo ultimo lavoro colpisce invece dritto al cuore, mettendo subito in luce le tante anime degli Envy: il loro passato hardcore non si è mai sposato tanto bene con le armoniose e solari fughe del post rock, qui enfatizzate ulteriormente e arricchite da cori femminili. E' un caldo/freddo, un lento/veloce, un sole/pioggia che raggiunge la sua massima esemplificazione in "A Step in the Morning Glow", pezzo di rara bellezza e scelto come singolo di apertura.
Un'esperienza sensoriale davvero travolgente, un ritorno sulle scene in grande stile per gli Envy, un disco da ascoltare tutto d'un fiato per perdersi in sé stessi.